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“Quello che so di noi”. Maternità del lupo – appunti a margine di una primavera

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"Quello che so di noi". Raccolta di racconti di Fabio Gaccioli, dove narra il suo Appennino particolare.

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Maternità del lupo – appunti a margine di una primavera.

Primi incontri. Centro Erica. Foto Andrea Herman

Da quasi tre anni conduco un laboratorio di teatro al centro Erica di Cavola. Una delle esperienze più emozionanti della mia vita. Ho iniziato da loro lo stesso anno in cui mi sono trasferito fuori regione. I ragazzi del centro, e le operatrici, sono la scusa principale che mi permette di tornare in Appennino almeno una volta al mese.

Quello che segue è il racconto di come siamo arrivati alla realizzazione della nostra prima performance, nel 2017. In quei mesi mi accompagnava al centro un fotografo e scrittore di Castelnovo, nonché amico e membro del collettivo ansasà, Andrea Herman. Le bellissime fotografie sono sue.

Di questo lavoro abbiamo fatto, nel dicembre del ’17, un’istallazione a palazzo Ducale dal titolo “Ho tante cose da dire”, insieme ai ragazzi di Cik-minimi rimedi.

Tutta la mia stima, e il mio più sincero affetto, oltre ai ragazzi del centro, va alle operatrici che ci lavorano dentro, uniche e preziose per umanità e competenza.

Germogli

Mi trovo al mondo in uno stato di cecità assoluta. Uso il teatro come il non vedente adopera il bastone. Lo mando avanti; antenna sensoriale, prolungamento del braccio. Mi rivela angoli, pendenze. Restituisce tridimensionalità.

Il buio è una faccenda complessa.

È un inverno frenetico, gelido e senza neve. Lavoro una parte del mio tempo da Paologom per la stagione delle gomme, l’altra parte per la scuola di teatro e danza della Valerie. Le altre parti mi faccio gli affari miei. Scrivo, butto in piedi spettacoli. Faccio su e giù dalla montagna reggiana alle Dolomiti. Tra qualche mese mi trasferisco. Basta gomme, basta Valerie. Addio Appennino.

Sto prendendo a martellate il cerchio arrugginito di una Panda per farlo venire giù dal mozzo, quando mi squilla il telefono.

- Ciao Titti ti andrebbe di fare un corso di teatro al Centro Erica, a Cavola?

È la Valerie. Mi dice che il centro rimane scoperto dal raggio d’azione della Bianchi, e vorrebbero anche loro un percorso teatrale. Può lasciare il mio numero alle operatrici?

La settimana successiva mi vedo con la Sandra e conosco i ragazzi.

Sono corpi prolungati su supporti a rotelle. Gambe e braccia instabili, busti fragili ingabbiati. Qualcuno non parla, qualcun altro lo fa anche troppo. C’è chi non ha a disposizione nessun movimento, se non la torsione della testa, oppure il cenno di una mano, e chi, al contrario, è letteralmente invaso dai movimenti e fatica a controllarli.

Tutti sorridono, dandomi il benvenuto.

- Non ho mai lavorato con persone con disabilità.

Non so nemmeno io cosa significa, ma lo dico lo stesso. Ci tengo a puntualizzare.

- Non è un problema. Intanto cominciamo, poi staremo a vedere.

In ufficio ci sono la Sandra e la Cinzia. Stringo le mani a entrambe. Speriamo bene.

Comincio un venerdì mattina di febbraio. Ho gli operai a casa che stanno rifacendo l’intonaco dei muri. Hanno ingabbiato tutto con impalcature arrugginite. Uscire è come evadere da una prigione.

Scivolo via dal letto e mi faccio un caffè. Elimino dalla borsa gli appunti della scuola di teatro e quelli del collettivo ansasà, e sostituisco i taccuini iniziati con uno nuovo. Mi porto anche un libro sul training di Jurij Alshitz, per scaramanzia più che altro. È una specie di amuleto che mi piace sentirmi addosso.

Non mi preparo mai le lezioni. Non mi preparo mai niente. Un po' per pigrizia, un po' per strafottenza, un po' perché sono cieco e mi fido del buio.

Ho il mio modo per non andare a sbattere. Basta ascoltare con il corpo.

Quando mi trovo per la seconda volta nello stanzone del centro, scopro che i ragazzi sono già pronti, e anche le operatrici. Mi aspettavano. Qualcuno ha messo su un caffè; lo bevo volentieri. Riesco a farmi un’ultima sigaretta prima di cominciare.

Già, cominciare. Ma cosa?

Il libro del Maestro Jurij mi viene in soccorso. L’amuleto si scalda e, come dalla lampada, ne esce il Genius così come mi è apparso la prima volta, in tuta da ginnastica e maglietta, che dice, con il suo accento russo e lo sguardo sgranato, luminoso, prendendosi molte pause: “… consiste nel creare un clima particolarmente adatto alla nascita di nuovi germogli, una stagione propizia affinché le cose nascano. Per fare in modo che le foglie spuntino da sole, mentre l'anima ruzza e salta come una ragazzina di quindici anni. Pensate che sia semplice organizzare una primavera?”

Cazzo Maestro, no, per niente. È molto difficile organizzare una primavera. Solo a pensarci mi viene l’ansia. Meglio se chiudo gli occhi allora, e me ne sto al buio ancora un po'. Magari al buio riesco a vederli questi germogli che crescono.

Voci

Non mi piace la parola terapia affiancata al teatro. Non mi piace la parola terapia affiancata a niente. Non sono un medico. Neanche un infermiere. Non ho nemmeno mai fatto volontariato in vita mia. Odio la parola volontariato almeno quanto odio la parola terapia. Non sono cattolico e non sento di dover soccorrere nessuno. Sono una persona troppo pacifica per costringere gli altri a salvarsi da qualcosa. C’è una forma d’amore che è il ventre fertile di ogni violenza, e preferisco lasciarlo dove sta: all’ombra dei campanili, inchiodato sui crocifissi.

Il teatro è Humilitas, contatto con il suolo, con la terra, è attrezzo umano per entrare in comunicazione con gli altri e con sé stessi, con la propria natura; per fare politica, per cercare le parole giuste, per capirsi.

Il primo giorno ci sediamo tutti sui divanetti, operatrici comprese. Mi presento, segno i nomi dei ragazzi sul taccuino. Voglio sapere cosa pensano del teatro, se hanno delle aspettative. Mi informo su quali sono le loro passioni e se hanno voglia di condividerle con il gruppo. Nasce una discussione che mi sorprende.

A volte le operatrici intervengono, per tradurmi quei segni che, almeno secondo loro, vogliono dire questo o quello. Chiedo di non farlo. Avere qualcuno che traduce mi mette a disagio. Accettano. Si mettono in gioco. Mi offrono da subito un supporto meraviglioso. Danno fiducia e lasciano che il laboratorio nasca su basi inedite, capovolgendo i ruoli, mettendo in crisi verità acquisite.

Scende nello stanzone del centro come un vento di vocali lamentose. Nessuno però fa finta di capire, o taglia corto. Nessuno si azzarda a tradurre un altro, a farsi interprete, a interferire con il suono. Neppure le operatrici.

Relazioni. Centro Erica. Foto Andrea Herman

Quando il vento si placa si viene a creare un silenzio che è condivisione. Chi ha capito cosa, non ha importanza. Quello che conta, per una volta, non è la parola, ma la voce che la cercava.

In un altro laboratorio, qualche mese fa, ho chiesto ai ragazzi di spiegarmi cos’è l’amore. Hanno dei quadernini su cui li faccio scrivere, così si fa prima a mettere insieme un testo da rappresentare, ed è anche più bello.

Li lascio fare, poi passo da ciascuno e, chi più chi meno, mi legge quello che ha scritto. Tranne uno. Se ne sta in un angolo e dondola su una gamba e sull’altra, apre il quadernino e cerca di leggere parole che non ha segnato, improvvisando una risposta che non riesce a trovare.

- Non lo sai? - Gli chiedo.

Mi lancia un’occhiata vergognosa, da giù a su, come se si aspettasse un brutto voto. Maledico la scuola, gli istituti e le foche ammaestrate che fanno girare la palla sul naso in cambio dello zuccherino.

Dico: - Non vi ho certo fatto una domanda facile. Se fossi stato io al vostro posto, forse avrei scritto sul quaderno non lo so. In effetti io proprio non lo so cos'è l’amore. Facciamo così: qui non siete a scuola, non esistono risposte giuste o risposte sbagliate. Andiamo avanti per tentativi, come tutti. Ammettere di non sapere qualcosa significa quanto meno sapere di non sapere. Ansasà, si dice in dialetto. Socrate, in filosofia. Segnatevelo. È la risposta più onesta, pulita, vera che conosco. Quindi scrivetela, o ditela. L’importante è rifiutare il silenzio.

Ecco, come prima cosa, con i ragazzi del centro Erica abbiamo rifiutato il silenzio, la paralisi. Non so bene cosa ci diciamo durante il laboratorio, o cosa facciamo.

Però la mia testa è piena delle loro voci.

Metodo

Ci sediamo tutti in cerchio, sulle sedie. Lavoriamo prima sulla relazione con gli altri. Faccio passare un materiale immaginario che devono manipolare a loro piacimento, creare una forma e consegnarlo al compagno che siede a fianco, il quale, a sua volta, è chiamato a manipolare la forma a suo piacimento e passarla poi al successivo. Come sempre l’esercizio si riduce, si semplifica, cambia natura e sposta il baricentro per diventare qualcos’altro rispetto all’intenzione originaria. La materia sparisce. Restano le mani che raccolgono, si allungano e passano. Chi non può muovere le mani raccoglie con lo sguardo, con un cenno del viso.

Qui è tutto un gioco a prestarsi. Chi ha parola la offre a chi parola non ne ha, chi ha gambe aiuta chi non ne ha a muoversi quando vuole muoversi.

Volontà. Autodeterminazione. Sostegno.

È un metodo, l’unico che vale. È universale. È politico. È così umano che commuove, anche se non dovrebbe, perché c’è qualcosa di inedito, come un ritorno, quando meno te lo aspetti.

Cavallo nero

Pausa. Centro Erica. Foto Andrea Herman

Lavoriamo sulla relazione con lo spazio. Li invito al silenzio, più che si può. Il silenzio viene prima della parola o del gesto. Faccio chiudere gli occhi e così, al buio, gli dico di pensare a una parola che racconti un desiderio profondo. Non barate, gli dico, cercate il vostro desiderio più radicato e radicale, e trovate una parola che sappia racchiuderlo. Pensate questa parola e tenetela in mente. Ditela senza dirla. Fatevela suonare in testa.

Adesso aprite gli occhi e guardatevi intorno. Osservate lo spazio nei minimi particolari, e scegliete un oggetto in grado di rappresentare la parola che racchiude il vostro desiderio più profondo. Quando pensate di averlo trovato andate a prendere l’oggetto e sistematelo al centro del cerchio.

La danza liberatoria di Mauro. Centro Erica. Foto Andrea Herman

Oggi costruiamo la scenografia della nostra anima.

Mi guardo intorno io stesso, individuo un pastello nero mangiato fin quasi al culo, lo prendo e lo metto al centro del cerchio.

Fate altrettanto, quando ve la sentite. L’unica cosa, non sovrapponetevi. Uno alla volta.

C’è un lungo momento di indecisione. Scende un silenzio che si riempie di piccoli lamenti, di cose dette o soffiate.

Poi la Grazia si alza, raggiunge il centro del cerchio e rimane lì. Si guarda intorno con le mani intrecciate, come fa di solito. Si china, raccoglie il mio pastello e lo rimette al posto. Batte le mani tutta contenta e fa per tornare indietro.

L’operatrice che mi siede di fianco si lascia sfuggire una cosa: - A te sembra che capiscano, ma non è così. È troppo complicato.

Intervengo, chiedo alla Grazia di scegliere qualcosa a sua volta. Sceglie un gomitolo di filo. Mette quello, anche se mi rendo conto che lo ha fatto solo perché sono stato io a dirglielo.

Mi domando se tutto questo lavoro  funziona, o se sono solo buoni propositi.

Mauro ha portato da casa dei giocattoli, oggi. Li ho visti sul tavolo quando sono entrato. Ci è molto affezionato. Ci sono alcuni cavalli, due o tre. Lo vedo che si alza. Il signor No, quello che dondolava intorno al cerchio, i primi tempi, e si rifiutava di fare tutto. Il prezioso, quello del congresso del mondo del dottor Valdesalici. Si guarda intorno. Gli ci vuole tempo per decidersi. Scaccia fantasmi con una mano, voci che si prendono gioco di lui. Ride di qualcosa, fa un balzo, scalcia con una gamba. Poi torna fermo. Si guarda intorno. Va verso i suoi giocattoli. Cerca qualcosa. Trova un cavallo nero, di stoffa. Un bellissimo cavallo. Il cavallo più bello del mondo. Se lo bacia, se lo porta al viso, se lo coccola per benino.

Oggetti, cose, desideri. Centro Erica. Foto Andrea Herman

Mette quello al centro del cerchio.

Mi volto verso l’operatrice, e mi lascio sfuggire un sollevato e un po' vendicativo: - Mauro ha capito.

Poi tocca agli altri.

Piano piano il pavimento si riempie di un quadernino, una vaschetta con le costruzioni, altra roba. Una scenografia parziale di una manciata di anime.

Testa di lupo

Non è mica facile lavorare sul corpo, sulla voce, sullo spazio, e sui rapporti che intercorrono tra noi e questi elementi (che sono la base del lavoro teatrale) e quello che intercorre tra gli elementi stessi, quando i corpi in dotazione faticano a muoversi, oppure si muovono troppo; quando ci sono sedie con le ruote, stampelle, lingue che si inceppano in bocca, gambe che non reggono.

Deve esserci un modo per fare teatro in faccia all’impossibile.

Il regalo più bello. Centro Erica. Foto Andrea Herman

Ho bisogno di trovare una parola universale, che sappia dimenticarsi di sé stessa, che non si sopporti, in un certo senso, che voglia sgretolarsi e farsi forma, segno, figura, gesto.

Ho bisogno di una parola che sia poesia.

Metto sotto la Manuela con la scrittura. Lei è la nostra drammaturga, deve prestare le parole a tutti. Scelgo dei temi sempre diversi dopo ogni incontro. Le faccio fare dei ritratti di ciascuno dei partecipanti, ad esempio, educatrici comprese. Mi restituisce un affresco di passioni, tic, caratteri, molto prezioso. Alla fine ho abbastanza materiale per tentare qualche improvvisazione.

Non so come, partiamo dal fatto che a Clejdi piace la favola di cappuccetto rosso e finiamo con una tizia in un parco che deve partorire, aiutata da un dottore pasticcione e dalla sua assistente.

Faccio ripetere l’improvvisazione, con le sue entrate e uscite, quattro o cinque volte. Alla fine capisco che l’idea di mettere in scena qualcosa non è poi tanto campata per aria. Devo solo capire il modo.

Passano i mesi. Io vado al centro ogni settimana, di venerdì. Continuo a lavorare sulle relazioni spazio/parola/corpo. A volte mi sembra di fare dei passi da gigante, altre no. Ci sono degli stop nel percorso, delle fermate, ma alla fine anche queste diventano parte del tessuto vivo dell’esperienza.

Mi trovo bene con questi ragazzi, mi sento accolto. Si respira aria pulita al centro Erica.

Verso la fine di aprile comincio a buttare giù una traccia. L’idea è quella di strutturare una lezione come se fosse una performance, e aprire le porte a parenti e uditori vari.

Cominciamo a spostarci dal centro alla palestra di Cavola, con il sole. È un bello spazio grande ed è lì che cominciamo a lavorare alla nostra rappresentazione.

La primavera aiuta la primavera.

Ci metto dentro tutto.

Manuela tra i fili: la parola poetica. Centro Erica. Foto Andrea Herman

Gli esercizi in cerchio, le storie emerse dalle improvvisazioni. Spunta fuori una testa di lupo. La faccio fare al centro Labor, dall’altra parte dell’edificio, senza ancora sapere a cosa potrà servire. Nel frattempo Manuela continua a scrivere. Butta giù qualcosa sulla maternità e sulle responsabilità che ne conseguono. Qualcos’altro sull’amore. Qualcosa sulla libertà. Legge i suoi scritti alla fine o all’inizio delle lezioni, quando siamo tutti seduti sui divanetti.

Le sue parole mi aiutano a trovare un paio di fili e a legarli insieme.

A giugno siamo pronti per mettere in scena quello che abbiamo preparato. A vederci vengono i parenti dei ragazzi e qualcuno di quelli del centro Labor, tra educatori e utenti.

Non esiste un copione vero e proprio, non l’abbiamo mai scritto.

Un posto dove stare. Centro Erica. Foto Andrea Herman

All’inizio c’è lo spazio vuoto. I ragazzi sono ai lati dello spazio. Entrano e lo occupano, ciascuno al suo posto, con i suoi tempi. Comincia una musica. I ragazzi si muovono, cercando di coordinarsi, di farsi corpo unico. Insieme rallentano, aumentano la velocità, oppure si bloccano. La musica finisce. I ragazzi escono, uno dopo l’altro, lasciandosi dietro solo una sedia e un cavalletto per pittore. È più o meno in questo momento che una donna partorisce, seduta sulla sedia. Ha le doglie, dolori sempre più forti. Urla. Entrano un dottore con la sua assistente, fanno quello che possono per aiutare la donna. Il pittore nel frattempo dipinge la sua tela. Non può usare le mani, e nessun’altra parte del corpo, perché sono paralizzate. Ha una specie di caschetto sulla testa, su cui è legato un pennello. Dipinge usando la fronte. Quando la donna finalmente consegna nelle mani del dottore il frutto del suo dolore, il pittore smette di dipingere. È una testa di lupo quella che compare sulla tela, e anche quella che esce da sotto la veste della partoriente. È nata una testa di lupo! È nato un corpo che è anche una figura. Una figura che è anche un segno. Un segno profondo come un destino. Il dottore esce. Anche la donna e il pittore escono. C’è la Manuela in scena che legge le parole che ha scritto, anche per gli altri, per chi non ne ha, per chi non riesce a pronunciarle. Parla di amore e di maternità. Maternità del lupo. Alzo gli occhi dal foglio su cui mi sono segnato la scaletta delle cose che succedono in scena, e vedo qualcuno dei parenti che non riesce a trattenere le lacrime. Li capisco. Li posso capire benissimo.

Viene da piangere anche a me.

Sollevo e abbasso una mano, e i ragazzi modulano le voci in base a questo. È una specie di canto osceno, barbarico, stonatissimo. Poi silenzio. Ancora musica. Ancora entrate e uscite. Le operatrici che leggono le cose inedite che hanno scritto e si emozionano nel farlo. Poi sono tutti su una linea. E io me li guardo. Sono il mio gruppo.

I miei ragazzi.

(Fabio Gaccioli)

 

 

 

 

 

 

8 COMMENTS

  1. Grazie Fabio,
    Ho letto tutto d’un fiato questo articolo, mi hai aiutata a capire un po’ di più l’ esperienza che hanno fatto i nostri figli/ragazzi, mi sono commossa come a giugno…
    Mi hai aiutata a entrare più in profondità nel dialogo con mio figlio, anche se a volte ancora mi viene da pensare che non sempre “capisca” tutto…ma chissà…forse sono io che non “capisco”
    In bocca al lupo per i tuoi progetti futuri

    Silvana Monticelli

    • Firma - Silvana Monticelli
    • Ciao Silvana, ti ringrazio molto. So che non è facile comunicare in determinate circostanze. Il dialogo non è certo semplice. A volte serve pazienza, altre volte è semplicemente impossibile. In un caso e nell’altro possiamo dire a noi stessi di aver tentato ogni strada. Ti abbraccio tanto.

      Fabio Gaccioli

      • Firma - Fabio Gaccioli
  2. “…..sono cieco e mi fido del buio.” Ci sono parole degne di un libro a sé stante, un libro di una pagina soltanto, con tanto spazio vuoto, rimanente. Fabio, più che incontrarlo, l’ho scontrato… in auto. Anche solo per questo, non potrò mai dimenticarlo. Grazie

    Umberto

    • Firma - Umberto