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I racconti dell’Elda 13 / “La Pasqua di una volta”

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Quando io ero piccola e qui torniamo agli anni quaranta, la Pasqua cominciava una settimana prima, cioè la Domenica delle Palme, con la messa solenne alla Pieve, coi cantori sul balcone vicino all’organo a canne suonato a meraviglia dal professor Marconi, con gli “a solo” del tenore Berretti, le voci melodiose dei Mareggini, del geometra Croci, dei miei fratelli grandi e dei vari ragazzi, ce n’era un gruppo anche di Carnola.
Prima c’era la benedizione dell’ulivo con la processione attorno al sagrato cantando le lodi, tutti tenevano ben alto il mazzo di ramoscelli, piuttosto abbondante, perché se ne metteva un rametto in ogni stanza della casa, poi nella stalla e infine doveva avanzarne da inchiodare sulle croci che i contadini portavano nei campi il tre maggio, il giorno di Santa Croce, così infilate nel terreno avrebbero preservato il raccolto dalle intemperie.
Di solito durante la settimana santa era nuvoloso, si abbassava la temperatura e pioveva (come del resto anche questa volta) allora la mamma ci raccontava che era così, perché il cielo si ricordava della passione di Cristo ed era triste per questo.
Il giovedì c’era la messa e la comunione, il venerdì e il sabato l’adorazione del Sacro Sepolcro che veniva preparato nell’altare di fianco all’altar Maggiore e la visita al cimitero per pregare per i nostri morti. Le campane venivano “legate” per due giorni non suonavano più, allora a mezzogiorno, Pellegrino andava sul muro del sagrato e suonava la Raganella “un attrezzo di legno che sembrava sparasse invece di suonare”, così i contadini che si trovavano nei campi venivano avvisati che era ora di pranzo.
La domenica di Pasqua le campane venivano “liberate” ed era una festa di suoni un vero e proprio concerto, Pellegrino dava sfogo alla sua abilità, di solito anche il cielo si rasserenava.
Allora noi cinque bambini scendevamo in cucina tutti vestiti a festa (la mamma aveva cucito per ognuno qualcosa di nuovo) avevamo anche gli scarponi di pelle morbida belli bisuntati con la cotica del grasso di maiale e i calzettoni bianchi lavorati ai ferri con lana di pecora.
In cucina sul tavolo trovavamo una panierina piena di uova sode colorate.
Ho!! Che felicità, la mamma le aveva cotte mentre noi dormivamo:
“Mamma come hai fatto?”
Lei compiaciuta spiegava:
“Quelle verdi le ho cotte con gli spinaci, quelle rosa con la cipolla rossa, quelle rosse con la rapa rossa, le marroni col caffè e le gialle con un pizzico di zafferano che mi ha regalato mio cugino Curzio Capanni”.
Poi prendeva le uova e le divideva fra i figli, ne dava di più ai grandi, che uscivano di corsa per andare a fare “scusìn” nel sagrato della Pieve, a noi due piccoli uno per uno, poi il mio me lo vinceva subito mio fratello Nilo, che aveva quattro anni più di me e anche lui correva subito via, come gli altri andava alla Pieve a fare “rudlìn”.
Io prendevo la mano della mamma, che per l’occasione si era tirata a festa, col fazzolettone legato basso sulla nuca uguale al grembiule di broccato nero coi fiori lucidi in evidenza e i polacchini di pelle nera lucidati per l’occasione, che si allacciavano su un lato con una fila di bottoncini, che lei usava raramente e li conservava con molta cura, li aveva comprati tanti anni prima quando si era sposata.
Andavamo a messa, la chiesa era gremita, ma lei andava dritta nel banco dei Monzani e quando arrivava, subito le facevano posto, quel banco raccontava che lo aveva ereditato da sua zia Florinda che aveva sposato Feliciano Monzani.
Mio fratello Nilo era vestito da chierichetto vicino all’Arciprete, si girava a guardarmi e tirava su la tonaca nera per mostrarmi la tasca dei pantaloni rigonfia di uova, don Antonio gli appoggiava una mano sulla testa, allora lui si ricomponeva e a mani giunte rispondeva: “Confiteor...”. Allora la messa si diceva in latino e anche i salmi che l’accompagnavano, mentre ​l’organo a canne suonava lassù in alto e i coristi cantavano e io immaginavo che il Paradiso doveva essere così.
(Elda Zannini)

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