Ormai da qualche anno il numero di ragazzi che scelgono di proseguire gli studi è aumentato. Dei molti studenti che escono dall’istituto superiore di Castelnovo, la maggior parte decide di andare all’Università.
I più rimangono in regione: Parma, Reggio, Modena, Bologna, qualche eccezione sceglie Milano, Torino e Venezia.
Vi sono tanti motivi per cui scegliere un determinato ateneo: l'indirizzo di corso, il piano di studi, la reputazione dell’Università, la presenza di qualche amico, ma soprattutto la vicinanza a casa. Vivere lontano ha un costo che non tutti possono affrontare e vivere da soli non è così facile e spassoso come ci si aspetta.
Quasi nessuno dei ragazzi che conosco o con cui ho parlato possono considerarsi fuori sede, la maggior parte di noi fa la vita da pendolare, ogni weekend torna a casa a fare rifornimento di cibo e il cambio biancheria.
Nel gergo si dice “fare la settimana corta”, ma può essere altrimenti descritto come un limbo circolare in cui tu vivi un po’ di qua e un po’ di là, sempre con la valigia in mano, e non ti godi questo e neanche quello.
Per tanti il fine settimana è un’ancora di salvezza. Non ci sembra vero di tornare tra i monti, il mangiare pronto, la camera singola, le proprie comodità. Nessun posto è come casa propria. Il fatto è che abbiamo una casa anche a Bologna, Modena, Milano, ma non ci stiamo abbastanza a lungo da poterla sentire come tale.
Da cosa deriva questo bisogno morboso di tornare a casa? Me lo sono chiesta spesso dopo aver incontrato ragazzi provenienti dalla Sardegna, dalla Sicilia, dalla Campania e ascoltato storie di studenti extra-continentali, dal Brasile, dagli Stati Uniti.
Il primo anno è difficile, tutti hanno una voglia matta di rivedere parenti e amici e attendono con ansia le feste. Aria nuova, gente nuova, abitudini nuove, ma col tempo ci si abitua e si impara ad amare anche la città.
L'unica spiegazione che rimane, è che noi ragazzi di montagna la città facciamo proprio fatica a digerirla. A meno che non ci siano altri fattori che non abbiamo calcolato, qualcosa nel modo in cui siamo cresciuti, di cui nessuno a colpa, ma che è insito nella mentalità dei piccoli paesi.
Quando sei abituato a uscire di casa ed essere Beatrice Bramini, figlia di x e y, fidanzata con tizio e con la media del 9, ti senti quasi un nonnulla a passeggiare per Bologna, una faccia tra tante, figlia di boh e con la media del chissenefrega. Sembra tutto troppo grosso e abbiamo bisogno di tornare a casa per ridimensionarci.
Difficile spiegare in poche righe come mai quasi nessuno di noi ragazzi decide di tagliare il cordone ombelicale una volta per tutte, poiché nonostante la voglia di vedere gli amici, i famigliari, il cane, c’è qualcosa in più.
Forse non vogliamo rimanere indietro con i pettegolezzi…
(Beatrice Bramini)
Questo articolo, di gradevole lettura, offre elementi e spunti per una qualche breve riflessione in argomento, la prima delle quali è l’apprendere che gli studenti universitari fuori sede ritornano volentieri a casa nel fine settimana, il che mi farebbe pensare ad un forte legame con le rispettive famiglie e ad un tenace attaccamento alle radici montanare (aspetto per me piuttosto apprezzabile e positivo).
Nel contempo, mi sembra talvolta di osservare in taluni giovani un eccessivo e manifesto “compiacimento” per il ceto sociale di appartenenza, o per la buona riuscita negli studi, oppure per la tipologia della scuola frequentata e il livello di istruzione ricevuto (questo aspetto mi lascia invece abbastanza perplesso, ma ci vorrebbe un sociologo per una valutazione più appropriata, stante la delicatezza della materia).
Infine, è comprensibile che Beatrice si occupi degli universitari, essendo la categoria di cui fa parte, ma non mi dispiacerebbe sentir parlare anche di quei giovani della nostra montagna che, terminata la scuola dell’obbligo, sono passati al mondo del lavoro, seguendo semmai le orme paterne, in agricoltura, commercio, artigianato, ecc…, e che continueranno presumibilmente a risiedere e a lavorare sul nostro territorio.
P.B. 26.03.2019
Bellissimo spunto per un prossimo articolo, di cui peraltro avevo gia’ iniziato a pensare. Il focus vorrebbe essere capire quanti di noi finita la scuola, finita l’universita’, si vedono continuare a vivere in montagna, oppure, al contrario, vorrano o saranno costretti a trasferirsi. Chiamare in causa anche ragazzi che gia’ lavorano sul territorio aggiunge sicuramente un punto di vista in piu’ a quello dei soli studenti. Ora piu’ che mai, con la notizia dell’Elettric 80 a Carpineti, lavorare e vivere in montagna per tanti non sembra piu’ solo un lontano miraggio.
P.S. scusate gli apostrofi al posto degli accenti, ma scrivo dal tablet.
Ogniqualvolta una impresa della montagna si consolida e si allarga, quand’anche fosse già rinomata ed affermata, ne va dato innanzitutto merito a chi la conduce – posto che ne vengono premiati ingegno, talento e intraprendenza – e dobbiamo altresì rallegrarci per la non secondaria ragione che in tal modo si creano le condizioni perché l’impresa possa accrescere i propri posti di lavoro, e le opportunità occupazionali, prezioso contributo nel tentativo di arginare lo spopolamento del nostro territorio.
C’è nel contempo un’altra realtà, ossia quella di quei giovani che, usando una metafora, non “vanno in fabbrica” ma restano a casa, nel senso che continuano il lavoro del proprio genitore, o dei genitori, ivi comprese quelle attività molto utili se non indispensabili per la vita di una comunità, vedi il poter rivolgersi a qualcuno che ti ripari gli impianti e le dotazioni di casa se danno problemi o smettono di funzionare, per portare un esempio fra i tanti (spero cioè che si possa dar voce e valore anche a questi mestieri).
P.B. 28.03.2019