Venerdì 8 marzo 2019. Oggi si festeggiano le donne e in qualità di una di loro mi piacerebbe spendere due parole sulla questione di genere, che ultimamente sembra aver ritrovato il suo vecchio vigore, ripresentandosi come un problema sentito e largamente dibattuto.
Dall’hashtag Me too, lanciato da donne che hanno subito abusi, allo sciopero nazionale dei servizi, che oggi blocca trasporti, scuole e sanità, alle manifestazioni e ai cortei “rosa”.
Per il mondo, oggi è il giorno in cui si regalano mimose e si esce con le amiche. Il tempo ha, a poco a poco, cancellato il senso originario dell’istituzione di questa festa, lasciando dietro di sé solo il lato commerciale e culturale. Perché è usanza che gli uomini facciano sentire importanti le loro donne con una rosa prima e una mimosa poi.
Per altri, come per il movimento “Non una di meno”, il senso rimane quello di un tempo, lottare per i diritti delle donne.
La ricorrenza nasce come riconoscimento delle conquiste fatte dai movimenti femminili dai primi del Novecento fino all’incirca agli anni settanta, periodo in cui verrà riconosciuto l’8 marzo come data simbolica in tutti i paesi. Le donne si unirono per battersi contro lo sfruttamento sul posto di lavoro, la discriminazione sessuale e per il diritto di voto.
Il 1970 è infatti considerato l’anno zero del movimento delle donne in Europa. Per molti e per la storia i movimenti del 68 costituirono un cambiamento culturale forte, una rivoluzione nella rivoluzione. C’era chi lottava contro i poteri forti, la rivolta contro il padre, padrone e patriarca e chi invece lottava per la rivalutazione della madre.
Per altri il 68 fu l’inizio di un lento sgretolarsi dei vecchi valori, dei quali la donna era il fulcro, il focolaio, quali la famiglia. Accusano il 68 di aver creato una figura femminile aggressiva, autoritaria, assetata di riscatto e alla continua ricerca di prove della sua superiorità. Una donna che spaventa l’uomo, che non vuole figli, che non scende a compromessi, che ce la può fare da sola.
Nel 2019 in Italia si può abortire, divorziare, studiare, lavorare, mantenersi da sole, decidere di non sposarsi, ma anche di come vestirsi e di uscire non accompagnate. Le donne nate con tutto questo lo danno per scontato e non potranno mai sentir proprie le cause che hanno mosso le prime femministe.
Come studentessa non mi è mai capitato di sentirmi inferiore per cause sessuali. L’università, ma soprattutto la scuola in generale, penso si possa dire libera da ogni sorta di discriminazione. Anzi alcune statistiche indicano come le ragazze abbiano, tendenzialmente, una media più alta dei loro coetanei e un percorso scolastico più pulito. Per molti di noi quindi il problema non sussiste, poiché non lo hanno mai toccato con mano.
Il fatto che non percepiamo il problema non significa che sia stato risolto. Nonostante gli sforzi di chi ci ha preceduto non siano stati vani, a poco a poco le differenze di genere si sono assottigliate fino a nascondersi in pieghe culturali impercettibili, consuetudini che mai potremmo concepire come segni di disuguaglianza.
Un esempio: ormai da qualche mese sul portale online dell’ateneo di Bologna, accanto al nome di ogni professore, è stato aggiunto l’equivalente femminile “professoressa”. L’Università di Bologna è stata la prima. Le maggiori contestazioni sono arrivate proprio dalle donne, che dopo tanti anni si sono ormai abituate all’appellativo di professore e vedono nel femminile una sorta di diminutivo, come andasse a sminuire la loro professionalità.
Eroe – eroina, gallo – gallina, zar – zarina. D’altra parte la lingua italiana per alcune parole utilizza il diminutivo per formare il femminile.
Quest’esagerata attenzione per la lingua italiana, che porta alcuni a forzature come sindaca, ministra e ingegnera infastidisce molti, che non vedono necessario un cambiamento di prospettiva. Il genere maschile è preso come riferimento per rappresentare la donna, punto e stop.
Altri credono invece sia proprio dal linguaggio che bisogna partire, per poter realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna. Sempre più spesso, entrando in aula, i professori tendono a salutare “Buongiorno ragazzi e ragazze”.
Queste sono le nuove battaglie, e voi cosa ne pensate?
Pieghe culturali impercettibili? Consuetudini? Mah. Non trovo per niente pertinente riportare il fatto che la media delle ragazze a scuola sia più elevata. Vogliamo parlare di come sia consuetudine offendere una donna che ha fatto carriera (sicuramente è andata a letto con qualcuno o ha amicizie)? Vogliamo parlare di come sia consuetudine offendere una professoressa universitaria perché così giovane e bella (implicando quindi che sia li ad insegnare non per talento e bravura?).
Vogliamo parlare di come sia una piega impercettibile, dare della poco di buono ad una ragazza madre?
Piega impercettibile, il fatto che la sessualità per una donna SIA ancora tabù.
Non servono donne che dicano “a me non è mai successo” ma donne che comprendono che anche se non ti ha mai toccato di persona una situazione, non vuol dire che non esista. O che sia una piega culturale impercettibile.
Mariam Belhamra
Il “come vestirsi”, di cui si parla a metà delle presenti righe, mi fa ricordare che un tempo i ragazzi delle scuole superiori, almeno quelle che ho conosciuto, indossavano in classe giacca e cravatta, credo come forma di rispetto verso il luogo ospitante e il corpo docente (poco importava se la giacca era semmai sempre la stessa, salvo il cambio stagione).
Poi sono arrivati gli anni della contestazione, teorizzatori ed artefici di un “cambiamento culturale forte”, per usare le azzeccate parole di questo testo, dove tutto è stato messo in discussione, ossia ruoli, comportamenti, costumi.., con modifiche profonde nella fisionomia del sistema cui eravamo abituati (e del quale ho portato qui sopra un semplice esempio).
A distanza di decenni è forse tempo di bilanci, e nel guardarci intorno a me non sembra che quella ”rivoluzione nella rivoluzione”, altro termine piuttosto eloquente usato da Beatrice, abbia portato grandi e benefici risultati, o quantomeno non abbia corrisposto alle aspettative “liberatorie” promesse o lasciate intravedere dai contestatori dell’epoca.
Lo deduco perché vedo e ascolto in giro molta omologazione, frasi fatte, luoghi comuni, e mi par nel contempo di cogliere una crescente voglia di normalità, se non di “restaurazione”, tanto da chiedersi a cosa sia servito tutto il “soqquadro” di allora, e da concludere che i mutamenti vanno fatti con gradualità e senza innaturali accelerazioni, pena il subirne poi indesiderati contraccolpi (se può valere come morale per le “nuove battaglie”).
P.B. 08.03.2019
Mentre qui si discute sulle “pieghe culturali impercettibili, consuetudini che mai potremmo concepire come segni di disuguaglianza”, mi viene da pensare a qualcosa che dovrebbe essere invece ben percepibile e distinguibile, se non “imponente”, come la famiglia, poiché viene data come il mattone e fulcro della nostra società, o almeno così si diceva una volta, e dove i ruoli dell’uomo e della donna sono contigui e determinanti.
In quel tradizionale modello di famiglia, i ruoli dei genitori, ossia del padre e madre, erano solitamente distinti ma complementari, nel senso di vicendevolmente sussidiari, salvo che poi quello del capofamiglia è stato messo in discussione, e di fatto esautorato, in nome della collegialità, diversamente da quanto è successo al di fuori della famiglia, dove si è puntato invece a verticalizzare i sistemi (si è seguito cioè un percorso inverso).
Basti pensare alla elezione diretta del Sindaco, per non parlare della figura dei direttori generali messi a capo dell’uno e altro Ente, secondo la logica che la centralizzazione delle funzioni decisionali possa aumentare il livello di efficienza, fino ad ottimizzarlo, mentre nella famiglia questo principio è stato ritenuto non valido (a me sembrerebbe una contraddizione della nostra società e talora le contraddizioni si pagano a caro prezzo).
P.B. 08.03.2019