Una canzone di quel tempo diceva: L'é rivâ ste carnevâl - tajarèm la testa al gal - mangerèm pulênta e pùcia. Come dire: finalmente potremo mangiare e saziarci. Ma anche il carnevale era striminzito da noi, lungo il Tassobio, e i motivi erano tanti. Il clima, nella mia infanzia, seguiva ancora le regole della natura, con tanta neve, ghiaccio e freddo. Se un solicello timido faceva capolino se ne approfittava per andare a potare le viti nel prato davanti a casa e raccogliere la potatura per farne fascine. Se invece il tempo metteva il broncio ci si rannicchiava vicino al camino dove una mezza sòca o una stèla ardevano da mattino a sera.
È vero che Dòp Nadâl l'é bèli carnevâl, in pratica, però, si riduceva agli ultimi sei giorni prima delle Ceneri, ma soprattutto al Martedì grasso. Col passa-parola ci si accordava per trovarsi insieme presso chi disponeva di una stanza appena più larga del normale e accettava di metterla a disposizione. E lì c’erano le mamme e le nonne impegnate a friggere “chersênta” in sovrannumero. Chi impastava, chi tagliava la pasta a rombi (detti Pès), chi armeggiava intorno alla grossa padella per friggere.
Viviana, Mafalda, Afra, Diana, Nadia e Angela all'opera.
Ad una certa ora le seggiole finivano tutte vicine alle pareti, spariva il tavolo grande, e in un angolo, sopra un tavolinetto, compariva un grammofono. La scorta di dischi era assai limitata. Di tanto in tanto l’addetto alla musica doveva correre a girare la manovella altrimenti il valzer si trasformava in un lamento per poi spegnersi del tutto.
Da ragazzo ho fatto in tempo ad assistere ad uno degli eventi tipici del carnevale: Le Maschere. Si tratta di una forma di teatro ambulante, un tempo molto diffuso, oggi purtroppo scomparso. E anche i testi hanno subito la stessa sorte. Un gruppetto di ragazzotti, quelli più intraprendenti, si prestava per realizzare il gruppo delle maschere. C’era un regista-paroliere che preparava la trama e il testo (rigorosamente in dialetto e in rima) cominciando qualche mese prima di Carnevale. Poi distribuiva i ruoli e si facevano le prove, di nascosto naturalmente. Perché il bello dello spettacolo consisteva anche nel riconoscere chi si nascondeva dietro la maschera. I protagonisti recitavano in falsetto, camuffavano la voce per non farsi riconoscere. Oltre l’autore-regista non poteva mancare al mnûn, cioè il conduttore, quello che precedeva il gruppo presentandosi alle singole famiglie.
Il tema, di solito, era legato ad un fatto accaduto, e quasi sempre verteva sulle avventure di Lui, lei, l’altro, argomento che non soffre mai crisi. E c’erano anche i gendarmi che intervenivano per ristabilire l’ordine pubblico. Gli abiti si rimediavano con quel che capitava a mano, purché riuscissero a rendere irriconoscibile chi li indossava. C’era anche chi se li preparava con cura, come un signore (credo fosse di Legoreccio) che si era confezionato una specie di mantello con centinaia di gusci di lumaca.
Le maschere si trovavano al mercato, e ognuno si procurava quella adatta al proprio ruolo. Ad accompagnare la troupe c’era anche chi “osava” suonare (meglio sarebbe dire: far strillare) il violino per dare il via alla recita e per avvisare le famiglie che la compagnia si stava avvicinando. Comunque tutto fa brodo e il corteo delle maschere diffondeva un senso di spensierato divertimento.
(Foto di Clorinda Rondini)
Con lo spopolamento degli anni 50/60 anche le maschere hanno cessato di esistere. Da noi, a quel tempo, il paroliere era Enrico Rosati. Quando, negli anni ‘90, lo intervistai per recuperare vecchie satire gli chiesi anche se aveva conservato i testi delle Maschere. Purtroppo non lo aveva fatto. E non ne ricordava più neppure piccoli brani, almeno per avere un’idea.
A mezzanotte tutto cessava. Era già quaresima. E questo significava che bisognava impegnarsi a fondo nel rispetto dei precetti relativi all’astinenza dalle carni, perché
A carnevâl a s’ bàla e a s’cânta, - ma in quarêšma a s’ fa la vìta sânta!
Alcuni studiosi, infatti, fanno derivare il termine Carnevale dalla espressione tardo-latina Carnem levàre, cioè togliere la carne dal menù quotidiano. Per altri è Carnem laxàre, abbandonare la carne, da cui il toscano carnasciale.
Al mattino dopo di corsa in chiesa per ricevere la cenere sul capo. E con un clima di meditazione simile era facile arrivare alla conclusione che
Carnevâl l’é un bûn cumpàgn
perché ‘l vên ‘na volta a l’àn,
ché s’al gnìsa tú-c i mêš
al srê l’arvîna dal paêš.