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I racconti dell’Elda 11 / “Il sanatorio”

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Forse qualcuno di voi non lo sa, o altri lo ha vagamente sentito nominare, io ve lo racconterò come lo hanno visto i miei occhi d’adolescente. Attaccato all’ospedale di Castelnovo ancora chiamato “Principe Umberto” era sorto un Sanatorio, dove venivano ricoverate persone ammalate di “tubercolosi”. Non so dirvi esattamente quando era stato costruito e da chi era stato voluto (senz’altro dal prof. Marconi) io però l’avevo trovato lì, per me c’era sempre stato, perciò posso spiegarvi come vedevano questa costruzione i miei occhi di bambina.

Assomigliava a un grande piroscafo, la sua forma ovale entrava dentro a un grande parco, in parte ancora esistente, folto di vegetazione, grandi alberi di ogni specie cominciando dai cedri del Libano, vari abeti, salici piangenti, cespugli d’alloro e chi non ricorda i “prugnotti rossi” che quando il loro frutto maturava venivano presi d’assalto dai ragazzini che giocavano a pallone nell’adiacente campo sportivo, aspettavano che gli ammalati si ritirassero all’ora di cena, scavalcavano la rete della recinzione e si riempivano le tasche con questo frutto un po’ brusco, ma molto piacevole al palato. Il parco era attraversato da lunghi sentieri dove i degenti potevano passeggiare e riposare su comode panchine in legno con tanto di schienale. La costruzione aveva finestre altissime e ampie nelle camere doveva entrare aria sole e luce a volontà.

Questa malattia che prendeva i polmoni, ancora si curava in quel modo e con una buona alimentazione che non mancava in quell’ospedale (la penicillina ancora non era arrivata da noi) e proprio dietro di esso abitavano i dipendenti contadini che il mattino presto portavano nelle cucine latte fresco, uova, verdure e quant’altro prodotto da loro.

Vi chiederete perché vi racconto questo, ascoltate e capirete. Naturalmente c’era il reparto maschile al primo piano e davanti all’entrata vi si trovava una grande fontana di forma circolare che buttava alti zampilli da tutte le parti. Il reparto femminile era al piano secondo, poi sopra questo una lunga terrazza sempre ovale con al centro un solarium riparato da vetri dove gli ammalati potevano fare bagni di sole, anche quando c’era il vento e questo lo faceva assomigliare ancor più a un piroscafo. C’erano ragazzi e ragazze molto giovani, era finita la guerra da poco tempo, durante quegli anni avevano sofferto la fame e il freddo erano così deboli che appena arrivavano passavano settimane a letto con quella febbriciattola che li divorava poco a poco. Poi piano piano si riprendevano “non tutti purtroppo”.

Le cure affettuose dei medici, degli infermieri, delle suore e naturalmente di tutte le medicine che avevano a disposizione allora, li aiutava molto. Più tardi cominciavano a uscire a fare passeggiate, prima nel parco poi iniziavano a gruppetti di tre massimo quattro, ad attraversare il cancello, solo pochi si azzardavano a girare verso il paese. Erano malvisti e evitati la “tisi” era una malattia che faceva paura, tutti sapevano che due ragazze del paese e appartenenti alla stessa famiglia erano morte da poco con questa malattia, perciò si guardavano bene dal fare amicizia con questi giovani malati, che alle volte li sentivi cantare in gruppo, ma se li guardavi negli occhi vi leggevi tanta tristezza, a loro mancava la famiglia, la propria casa, la loro gente, perché arrivavano da ogni parte della nazione a me risulta che la maggior parte dei Sanatori si trovassero in alta Italia.

Le ragazze invece passeggiavano in grandi gruppi accompagnate da una o due suore, venivano spesso verso la Pietra e quando arrivavano vicino a casa mia se nei dintorni c’era mio fratello Nello, allora ventenne, molto bello dai lineamenti fini e gli occhi azzurri adombrati da folte ciglia, che quando ti guardavano ti trafiggevano, allora queste ragazze o donne sposate, ma molto giovani, che magari avevano lasciato a casa bimbi piccoli intonavano una canzone molto in voga allora “demonio dagli occhi blu – vivere non so più -  jezebel”. Allora io gli dicevo: “Senti? Cantano per te” e lui scorbutico: “Sono cretinate”, ma arrossiva appena e se ne andava.

Come ho detto tutti li evitavano, ma mia madre no, nella sua infinita misericordia si fermava a parlare con loro, pensate che appena finita la guerra era morta a soli 11 anni una bambina, con questa malattia a una sua conoscente e lei andava a trovare questa mamma già ammalata, la tisi aveva colpito anche lei (difatti è poi morta in sanatorio a Seramazzoni) e mi portava con sé, ricordo vagamente che prima di entrare mi diceva che non dovevo toccare niente in quella casa.

Mentre pascolavamo la capra sugli argini delle mulattiere che andavano alla Pietra, questi ragazzi si fermavano a parlare volentieri, ce n’era uno di Amelia vicino a Terni raccontava che aveva due fratelli missionari e lui non vedeva l’ora di tornare a casa per aiutare i suoi nei campi era l’unico aiuto che avessero. Poi un altro che si chiamava Diego con gli occhi da gatto si dava l’aria di un capo veniva da Roma, era sempre seguito da un gruppetto di sudditi, poi Augusto che era marchigiano, un altro che chiamavano Cortina, non so se era Ampezzano, non passava mai in compagnia camminava solo e a passo svelto ed era vestito come i rocciatori, camicia a quadri e scarponi da montagna, un giorno mi fece vedere un chiodo da roccia di quelli vecchi arrugginiti con attaccato un anello e mi disse semplicemente che l’aveva recuperato sulla parete della Pietra.

Erano tutti semplici molto educati parlavano volentieri, ma si tenevano sempre a una certa distanza, sapevano che la loro malattia era infettiva. Ce n’era uno che adorava la mia capra, si accovacciava sui talloni e la guardava, tanto che gli dissi: “Puoi accarezzarla”. Il suo viso si illuminò con un grande sorriso, ma non lo fece. Non ho mai conosciuto una ragazza, le suore non le lasciavano fermare, anzi se qualcuna si attardava veniva redarguita subito. Nel giro di qualche mese questi giovani non li vedevi più ed era una bella cosa si vede che erano guariti e tornati a casa.

Poi questa malattia venne debellata con gli antibiotici giusti che finalmente arrivarono anche in Italia e il Sanatorio scomparve ci furono ristrutturazioni, che cambiarono letteralmente la forma che aveva. Cambiò anche nome divenne “Ospedale Sant’Anna” nessuno ricorda più nulla del suo passato e quante persone vi erano state curate.

Un ringraziamento particolare a Umberto Gianferrari per la gentile concessione delle foto.

(Elda Zannini)