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Gnîv in vè-g stasîra?

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La nostra casa l’hanno tirata su a cavalcioni di una costa di arenaria stretta e a falde inclinate, e con un precipizio di oltre cento metri verso nord. Posizione sicura a quei tempi, e stupenda. Nelle belle giornate a sud vedi tutto l’arco del nostro Appennino, e a nord si possono scorgere i Colli Euganei e i monti che fanno corona al lago di Garda. Ma a noi non conveniva scendere nella stalla per trascorrere la serata al calduccio emanato gratis dagli animali. Era scomoda, stretta e pochi gli animali. Poi, bene o male, un cavàs o un tòch ad sòca lo si rimediava per tenere acceso il camino.

Lì, attorno al fuoco, il dialogo si dipanava da solo. Ci poteva stare di tutto, dal banale Cúma vâla? per attaccare discorso, al complimento per la ragazzina di casa che si affacciava alla giovinezza, un elogio alla padrona (capace di fare gli onori di casa con i biscotti o una brasadèla), un “Iv sentû?” di prammatica, pronunciato quasi sotto voce, con un’aria da società segreta, per riferire le ultime notizie locali o dei borghi vicini. A volte capitava pure che una ventata aprisse la finestra facendo sobbalzare i presenti. Rinfrescava le idee e le discussioni, ingarbugliava il filo di fumo dei ciocchi e lo spalmava in faccia agli ospiti prima che il padrone di casa richiudesse in fretta la finestra.

Andâr in vè-g significava essere aperti a qualsiasi tipo di discorso, dalla panoramica sugli interessi relativi al bestiame, ai raccolti e al mercato, fino alle chiacchiere del borgo e alla situazione politica. Ci si scaldava subito parlando di politica. Non tanto per convinzione o appartenenza ad uno schieramento ma piuttosto per una esercitazione dialettica, una gara tra chi argomentava meglio la tesi assunta in quella discussione, senza neppure la pretesa di condividerla personalmente.  E non c’era da meravigliarsi se le stesse tesi, la sera dopo e con altri interlocutori, venivano invertite. Poi, alla fine, il tutto si acquietava e rientrava negli schemi della buona creanza e della comprensione. E, magari, a sbollire la foga del discutere contribuiva la mediazione di un bicchiere di quel vinello così così, ma schietto come le persone e adatto alla circostanza.

Poteva scapparci un interesse letterario se c’era qualcuno in grado di suscitare attenzione. Quando ero piccolo io a tenere banco era lo zio Attilio di Casalecchio. Il suo repertorio si limitava a I reali di Francia (cito a memoria, ottanta anni dopo), Santa Genoveffa, e poco più. Per noi che non sapevamo ancora né leggere né scrivere era uno spettacolo. Ci sapeva fare lo zio. Non so che classe avesse frequentato, però sapeva leggere, e questo lo poneva già in una posizione di prestigio. Però quella gente, considerata analfabeta, riusciva ad individuare facilmente il nocciolo delle questioni.  Aveva poi una sua tecnica di declamazione lo zio, una psicologia rudimentale, istintiva, ma efficace. Al momento giusto modulava la voce con toni bassi e suadenti, oppure urlava all’improvviso, spaventandoci. Era il suo modo di renderci partecipi del racconto.

Sagra a Costa Medolana (Casina), prima del 1940. (Arch. Afra Campani).

Altre volte c’era la curiosità pruriginosa per una satira recente, il cui tema, di solito, verteva sulla combinazione “Lui, lei e l’altro”, argomento sempre attuale e di sicuro effetto. Ma queste erano robe da grandi, e si rimandavano a dopo che i piccoli si erano ritirati nel loro lettino e sognavano già gli eroi descritti dalla voce dello zio Attilio.

Ci poteva anche scappare qualche cantata. Di testi ne circolavano a volontà, e tutti li conoscevano. La difficoltà consisteva nel trovare e convincere qualcuno a fare da primo e assumersi la responsabilità di tirare il gruppo. Qualche accordo iniziale, gorgheggi, falsetti, poi si partiva. Chi faceva da basso appoggiava il gomito sul tavolo o sulla sponda della sedia e la mano, leggermente configurata a conchiglia, appoggiata all’orecchio. Non era per ascoltare con un solo orecchio. Quella postura diventava un filtro per il suono mentre gli occhi seguivano la mimica del cantore principale per mantenere il tempo. Non avevano cognizioni musicali quelle persone ma riuscivano ugualmente a realizzare cori a due e più voci seguendo l’istinto.

I temi delle canzoni variavano dalle sventure tinte di romanticismo nero (e qui le storie sopravvivevano da due o più secoli), alla critica della politica del momento con le canzonette diffuse clandestinamente ai mercati. Ricordo due versi in circolazione nel ‘42, sull’aria di una canzonetta in voga e inneggiante all’impero. Di giorno gli adulti la fischiettavano soltanto, ma in casa, di sera, adattavano il testo:

Duce, Duce, t' m'ê rubâ i cunìj - Tröja d' 'na brúta bèstia, t' m'ê rubâ i pu' bèj.

Il Trio Canossa all'opera

Improvvisamente, e a loro insaputa, quei pavidi animali diventavano il simbolo dello scontento generale. Impersonavano il grano sequestrato e portato all’ammasso, le campane buttate giù dalle torri campanarie e distrutte per rifondere il bronzo e farne cannoni, rappresentavano le fedi d’oro, il simbolo dell’unità familiare, enfaticamente richieste per rifocillare le finanze pubbliche, ma poi dirottate non si sa dove.

C’era anche chi cantava l’amore tenero e sincero, con quelle situazioni idilliache ma improbabili degli anni venti, con un lessico ridotto a “bella, contadinella, stella" oppure "amore, cuore, dolore”. Dammi una rosa da tener sul cuor – legala col filo dei tuoi capelli d’or. Assurdità! Le nostre donne, mogli o fidanzate di chi era in guerra, erano tutte corvine. Già! Ma Lilì Marlène, gracidata dalle poche radio a Castelnovo, dettava legge. Ed era tedesca!

E c’era chi, solleticato da altre esigenze, si rifugiava nelle strofette da osteria, crasse e triviali, ma anche queste di sicuro effetto. Magari venivano accolte da un “Uhhh!” di finto scandalo e meraviglia, mai però di completa disapprovazione.

Non era musica da salotto quella, però serviva a unire le persone e a fare trascorrere alcune ore, nelle lunghe notti invernali, in buona armonia. Ad una certa ora, con la scusa che l’indomani bisognava andare a lavorare, si toglieva il disturbo con un semplice “Arvèdse” o un “A bûn rèndre”, paghi della serata.

Miniatura di una cucina di quell'epoca.

 

 

 

 

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