I racconti di Elda
C’era una volta la fiera di San Michele
Dopo tre giorni di fiera passati a guardare le innumerevoli bancarelle, travolta dal vociare della gente, dai colori dai profumi dolciastri che ti riportano indietro nel tempo, dovete sapere che io non mi perdo neanche il mercato settimanale, questa fiera mi ha preso in un modo incredibile, mi piace stare in mezzo alla confusione, osservo inebetita degli ombrellini che penzolano da una bancarella, passeggio in mezzo alle varie qualità di cioccolato, pizzico tutto quello che mi offrono, poi magari compro solo cinque praline. Poi guardo le stoffe colorate che ondeggiano mosse dal vento e il banco dei legni pregiati, i taglieri di tutte le forme, i cestini bianchi tutti traforati e le caramelle i cioccolatini, il profumo dei croccanti, lo zucchero filato che spande quel buon odore di bruciato, infine il bombolone che ti servono caldo profumato, inzuccherato, ripieno di crema finissima e lì ti devi proprio sedere e gustartelo come se fosse l’ultima festa della tua vita.
La mia prima fiera la ricordo ancora, allora durava solo un giorno il 29 settembre non importava se cadeva di domenica o di giovedì, quello era il giorno di San Michele Arcangelo ed era festa. Parlo di prima della guerra, perché ricordo che c’era ancora mia sorella che io vedevo altissima, guardavo i suoi sandali marroni che sembravano di pelle di serpente (ma erano di cartone, vigeva l’autarchia) con le zeppe alte e i calzini bianchi rivoltati all'ingiù, mi trascinava in mezzo alla gente tenendo ben stretta la mia mano, chiacchierando con le amiche. Allora le bancarelle erano solo in piazza Peretti, in quella di sopra dove c’è il bar Magnani vi si raccoglievano tutti i mercanti con le mucche, i vitelli, pecore e capre. Si preparavano per tempo andando in Toscana a comprare per poi rivendere per la fiera, tutta gente scaltra che sapeva il fatto suo, giravano nei paesini di montagna specialmente in Garfagnana e compravano per pochi soldi vacche magrissime sfruttate al massimo, certe tiravano anche l’aratro, vecchie, stanche con le tette raggrinzite. Le compravano poi facendole pascolare lungo gli argini delle strade le portavano a casa qui cominciava il recupero tenendole nella stalla, nutrite con buon fieno e con dei beveroni preparati con la lavatura dei piatti e una palettata di crusca, bucce di patate e quant’altro per renderla più nutriente.
Poi giornalmente venivano spazzolate per far cadere tutto il pelo “matto” così lo chiamavano, venivano loro accorciate le unghie e lucidati gli zoccoli e certe che avevano le corna troppo lunghe, indice di età avanzata, gliele accorciavano usando una lima fine, per un giorno non venivano munte cosi i capezzoli diventavano belli turgidi. In questo modo il giorno della fiera venivano rivendute e magari agli stessi toschi che non le riconoscevano, guadagnandoci su abbastanza. Ora però ritorniamo a me e a mia sorella. Mi aveva messo una vestina gialla a pois azzurri e rossi, l’aveva cucita lei che a sedici anni faceva già la sartina e con la stessa stoffa aveva ricavato un nastro, che mi aveva legato fra i capelli.
Arrivammo al “Caffè Italia” e lì mi comprò un gelato, una sola pallina sopra a un cono. Era il primo gelato della mia vita che assaggiavo e mi piacque moltissimo, ma così tanto che appena finito ne volevo un altro e lì piantai un enorme capriccio, ma così grosso che ancora me ne vergogno adesso, mi strappai il fiocco che avevo in testa e mi buttai per terra. Lei poverina non poteva accontentarmi, perché non aveva altri soldi, tanto che il gelato l’aveva comprato solo a me. Quella fu la mia prima fiera e da allora, penso di non averne mancata neanche una durante la mia vita.
La Loredana è mia amica e coetanea e mi ha raccontato la sua prima fiera di San Michele, indimenticabile. Lei abitava in via Vittorio Veneto (allora detta via della Scimmia) e la fiera si svolgeva in parte lì dove c’erano parecchie osterie, da dove fino a notte inoltrata si intonavano canti. Poi lungo la strada i vari “scarpolini” che avevano un buco dove lavorare, mettevano fuori su piccole bancarelle vicino alla porta la merce da vendere, scarponi fatti a mano con le borchie sotto la suola, lacci di cuoio, lucido da scarpe in grandi scatole nere. Pinna un sardo trapiantato lì non si sa come era il mago degli zoccoli preparava lui la suola di legno e vi inchiodava sopra la tomaia con una fila di borchie argentate.
Quella strada sbucava nella piazza dove c’era la fiera delle mucche e la Lore mi racconta che loro bambini si divertivano a giocare a nascondino in mezzo alle balle di paglia e al fieno contenuti sui birocci parcheggiati in un angolo, le mucche dovevano anche mangiare durante la lunga giornata di trattative. Lei si stava divertendo moltissimo saltando in mezzo al fieno che odorava di campo e di sole, poi da lì vedeva il “calcinculo” che era una grande attrattiva della fiera, guardava questa ruota che girava alla musica assordante di un disco e i ragazzi che coi piedi si davano grosse spinte e volavano alti, quando a un certo punto il suo sguardo si posò su una cosa marrone che spuntava in mezzo alla paglia.
Era un grosso portafogli di quelli a soffietto pieno di soldi, ma così tanti da farla star male (in casa sua non si sapeva mai se la sera c’era qualcosa da cena). Allora questo portafogli se lo strinse al cuore e si mise a correre per cercare suo padre che era nell’osteria di sua zia “La Marièta ed Tarquinio”.
Il padre ascolta la bimba, prende il portafogli e fa: “ (Pina in pudèma méa tgnil) bambina non possiamo tenerlo non è roba nostra, qualcuno l’avrà perso, dammi la mano dobbiamo portarlo ai carabinieri”. Questi stesero il verbale che Nino firmò con una croce. Poi tornarono a casa e il padre raccontò la cosa a sua moglie, che tutto il giorno sferruzzava calze di lana di pecora e “scapinelle” per i signori di Castelnovo che andavano a caccia, in cambio di una michetta di pane o di un fiasco di mezzo vino, che poi era fatto col fondo della damigiana e annacquato, sentendo tutto il racconto disse: “Nino, perché non ai tenuto almeno un soldo? Ma solo uno!... Così stasera sapevo cosa dar da mangiare ai bambini”.
L’onestà di Nino Viappiani detto (Paciarra), che poi vuol dire paciere o uomo di pace se preferite, era immensa così grande che scrivendo questo mi sono commossa, nel mondo in cui viviamo adesso, con gli insegnamenti che ci arrivano dall’alto, nessuno farebbe quel che fece Nino e per finire, il padrone del portafogli promise ai carabinieri che avrebbe regalato a questa famiglia un sacco di grano, ma fu solo una promessa da marinaio.
(Elda Zannini)
Complimenti come sempre signora Elda. Letto tutto d’un fiato. E anche oggi ho imparato qualcosa. Conosco la Loredana e mi ricordo bene il suo babbo ma non ho mai saputo il suo vero nome, solo il soprannome. Continui a scrivere signora Elda perché attendiamo sempre i suoi piacevoli racconti.
Paola Bizzarri
Bello Bellissimo, ho sentito i profumi e visto i colori, davvero altri tempi.
Lorella
Brava Elda, avanti così!
Angela Pietranera