Ecco una storia tribolata che data almeno dal 1426, appena tre anni dopo che – secondo le più note storiografie di questo popolo – il papa Martino V, in data 15 dicembre 1423, aveva rilasciato loro una bolla nella quale, rivolgendosi alle autorità religiose e civili del tempo, chiedeva che fosse consentito agli zingari di «poter gioire di una sorte pacifica andando, restando, tornando e passando ovunque».
Gli “Apostoli del Faraone"
Nel 1426, dunque, una carovana di questa misteriosa popolazione attraversa il territorio della podesteria di Felina sulla strada Reggio-Golfo di Lerici, la via più breve che collega i porti dell'alta Toscana e della Liguria con il "piano lombardo". Non hanno ancora il nome di Zingari né alcun altro dei nomi con i quali sono oggi conosciuti. Si sa che provengono dall'Egitto e vengono perciò chiamati "apostoli dei faraoni".
Felina è la principale podesteria estense della montagna, in quel momento all'inizio di un forte impegno militare che la porterà, l'anno seguente, alla conquista di Minozzo e del relativo territorio ancora in mano ai Fogliani, poi di Camporgiano, in Garfagnana, operazione affidata al podestà Conte dei Costabili.
Per quanto è dato di capire, questi "apostoli" non costituiscono un pericolo militare, ma sono portatori di una diversità non ribelle, quanto piuttosto indifferente alla politica di forzata inclusione e di conquista che caratterizza in quegli anni il governo estense.
Della loro presenza nella podesteria di Felina si ha notizia da un biglietto anonimo e senza data, ma racchiuso nel carteggio del 1426 proveniente da quella podesteria e diretta al "Reggimento" (governo) del Comune di Reggio – oggi custodito nell'archivio di Stato della nostra città – e perciò da attribuirsi a Conte dei Costabili. Dice il biglietto:
«Io ve recordo che in questa pertinentia sono la mazore parte de li appostoli de faravono aperti a zugare al pozzo, a biastemare Dio cum la corte, a taverzare et rapinare et huiusmodi segondo lo sua costuma passata, et cusì, come li voglio correzzere, licet agam plusquam humaniter per retrali a la vostra obedientia, subito hano a molesto et subito fazano querella, si che vogliate primo sapere la veritate de la cossa per omne genus, et provedere inde contra mi sel bisogna. Nam nostis quod ritus et appetitus rusticanorum suppositorum potissime jugo nobilium est votum eorum pro voto suo, et non pro rationis meta perficere quia nobiles ipsi sine lege et imperio vivere nituntur. Vobis etc.»
Gli Zingari (e i gentilhomini) come alibi
Dalla lettera emergono alcuni dati importanti anche se la nostra ricerca di comprensione deve porre il tutto al condizionale:
- che la maggior parte degli Zingari allora noti è nel territorio felinese, probabilmente perché territorio di transito, in un viaggio lento dalle lunghe soste;
- che si mantengono con giochi di spettacolo e di destrezza, come il gioco del pozzo, rischioso e ad alta "suspence"; ma che forse non è bastante allo scopo e quindi rimanda al furto;
- che hanno già fama – vera o falsa che sia – di rapinatori;
- che assumono il livello più basso e più vivace del linguaggio popolare, compresa la bestemmia contro Dio e contro i santi (la corte celeste), ma resta da sapere quale e quanta coscienza ne abbiano;
Caratteristiche, però, queste ultime, che la cultura del tempo attribuisce di norma al diverso e all'avversario, e che appaiono tanto più negative in quanto Conte dei Costabili afferma di trattarli umanamente allo scopo di assoggettarli al dominio estense.
La lettera ha poi il richiamo ai nobili locali (Fogliani, Dalli, Da Palude, Vallisneri), anch'essi ribelli al nuovo governo e abituati a vivere senza legge e senza sottomissione. Richiamo non troppo sibillino: forse un alibi – anche quello degli "apostoli" – per giustificare mete di governo promesse e non raggiunte.
Il primo secolo di vita delle popolazioni zingare in Italia e in Europa è dunque caratterizzato dal tentativo dei governi di sottometterli e assimilarli in tutto e per tutto alla cultura locale, giungendo anche alla persecuzione sistematica, mentre essi restano fedeli alla cultura della vita nomade, praticando attività lavorative (si pensi all'abilità nell'uso dei metalli) che però la popolazione stanziale, paurosa del diverso, rifiuta. Di qui il rifiuto anche della bolla di Martino V, la quale – vera o falsa anch'essa che sia – annunciava il desiderio di pacifica convivenza degli Zingari.
1573: la "grida" contro gli Zingari
Un secondo documento ci perviene sempre dalla giurisdizione di Felina nel 1573. Evidentemente il passaggio di carovane nomadi non è cessato e il podestà del luogo – il notaio reggiano Andrea Bassi – proclama una "grida" contro il lavoro festivo, contro, la bestemmia e, soprattutto, contro gli Zingari chiamati, questa volta, con il nome di "Zingani". Eccone il testo, ritrovato nell'Archivio di Stato di Modena:
«Anchora prohibisse et espressamente vieta detto podestà che non sia persona di qualle si voglia stato grado e conditione si sia che ardisca né presumi né in modo alcuno acettare, dare mangiare, bere aiuto soccorso e favore alcuno tanto nelle sue case proprie o condotte [affittate] quanto fuori a Cingani de qualle si voglia stato, sesso e età sotto pena di lire vent'e cinque per ciascuno et ciascuna fiata [volta] che contrafacesse o fusse contrafatto d’essere applicate come di sopra [cioé: un terzo alla Camera Estense, un terzo a disposizione del podestà, un terzo al denunciante].
Anci, de comissione del sudetto podestà per virtù della presente grida si bandiscono da tutta la podesteria di Felina Zingani di qualunque sorte stato sesso o età di modo che se capiterano nella podesteria, se serano huomini grandi sia lecito ad ogniuno scatiarli perseguitarli svaliggiarli et darli nelle mani de la raggione [Giustizia], partendo essi poi serano castigati ad arbitrio di S.E. Et se serano donne overo putti siano svaliggiati et stafillati, puoi confinati fuori della podestaria.
Et di più si fa comandamento a ciascuna persona come di sopra nelle cui terre, case, cappanne o luoghi ove s’attendassero overo s’accampassero o ponessero detti Zincani o in piciole o in grandi quantità, subito si debbano denuntiare al detto podestà sotto pena di lire vent'e cinque da essere applicate come di sopra».
La grida dice non solo un rifiuto totale dello Zingaro, ma esige la sua persecuzione e la sua estromissione dal territorio di competenza. Non ha pietà né degli uomini adulti, né delle donne e dei bimbi. Tutti devono essere scacciati e derubati della loro cose, i bimbi e le donne di qualunque età dopo essere stati presi a staffilate. Pene severe per i sudditi che non si prestano a siffatte operazioni.
Questa normativa non era la più dura di quelle del tempo. In alcuni altri stati vicini era perfino lecito uccidere a vista lo Zingaro e ciò fino a tutto l'Antico Regime. Per quel che si sa, non risultano, ricerche organiche per raccogliere notizie sulla vita dei nomadi a Reggio negli ultimi tre secoli. Si tratta di ricerche indubbiamente non facili, poiché riguarda notizie non catalogate, ma inserite a caso in altra documentazione.
Scacciare: «opera doverosa e saggia»
Una terza notizia del 1910 ci conferma che l'atteggiamento ufficiale dei Reggiani non era ancora di molto cambiato rispetto alla grida del 1573. Scrive l'Azione Cattolica del 26 agosto di quell'anno:
«Gli zingari, questa mala genia che infesta l'Europa, e in modo particolare l'Italia, perché Francia, Germania, Belgio non ne vogliono sapere d'albergarli, percorrono le nostre contrade, ed anche a Reggio ne sono capitati. L'autorità, peraltro, conscia del pericolo che il sudiciume di quelle carovane può portare, conscia che costoro fanno mestiere di vagabondaggio, e ne prendono dove ne trovano, ha fatto allontanare, compiendo opera doverosa e saggia, le carovane usando della pubblica forza».
Tutto fa pensare che l'articolo sia una nota della Questura inserita quasi per abitudine dal proto per riempire lo spazio di una colonna. Tuttavia, essa rispecchia la cultura generale dei "benpensanti" e dei borghesi cittadini che, nel 1909, dalle colonne de L'Italia Centrale (il quotidiano di Reggio) plaudivano all'Esercito che, prendendo a fucilate una carovana di Zingari in quel di Belluno, ne aveva uccisi due. Si attribuirà loro la colpa di tutti i malanni del momento, dai furti alle malattie, con gran gioia dei ladri locali che potevano rubare a piacimento, tanto la colpa ricadeva immancabilmente sugli Zingari.
Nessuna meraviglia, dunque, se perseguitati così crudelmente, se costretti talvolta al piccolo furto per non morire di fame, la loro integrazione è stata - e forse in qualche caso lo è tutt'ora - così difficile.
Sappiamo, per fortuna, che nelle campagne le cose andavano diversamente. Correva, sì, anche nei piccoli paesi di montagna la diceria che gli Zingari rubassero i bimbi piccoli; perciò, quando ne passava una carovana con i pittoreschi carri trainati dai cavalli ecco tutte le mamme abbracciare e stringere a sé i loro piccoli (chi scrive ne ha un nitido ricordo, ma si faceva così all'arrivo di qualunque sconosciuto). Ciò non ostante, nessuno negava una tazza di latte ai loro bimbi, una fetta di polenta ai loro vecchi, una manciata di fieno ai loro cavalli, un riparo sotto il portico in caso di maltempo. Per questa gente gli Zingari non erano «poveri diavoli», ma «poveri Cristi».
E a Reggio solo con don Dino Torreggiani si arriverà, negli anni attorno alla seconda guerra mondiale, a considerarli esseri umani bisognosi – come tutti gli uomini, tutte le donne, tutti i bambini – di accoglienza e di solidarietà.
(Giuseppe Giovanelli)
Bell’articolo, complimenti.
Anche adesso esistono problemi fra i gagi ed i rom.
Chissà che un giorno si impari a convivere…
(Gianni Marconi)