Per ragioni diverse e talvolta contrapposte stanno crescendo l’interesse e l’attenzione per i boschi d’Appennino: sia da parte di chi li vuole conservare e accrescere, proteggere la biodiversità, il paesaggio e le funzioni di mitigazione del clima, sia da parte di chi vuole mettere a reddito la crescita della biomassa, o i prodotti del sottobosco, a beneficio dei privati proprietari, delle comunità locali titolari di secolari usi civici, o di speculatori interessati a diverso titolo ad avviare filiere economico – produttive. tagli di conifere impiantate 50/70 anni fa su suoli privati,esterni al Parco, hanno sollevato polemiche più che comprensibili, anche per le “modalità industriali” dei tagli, del tutto inedite nel nostro Appennino. D’altro lato hanno sollevato una importante positiva attenzione al patrimonio boschivo di interesse generale.
Il tema contiene tutti i valori, e contemporaneamente tutte le contraddizioni e i problemi aperti che ci sono nell’interpretare l’imperativo,comunque categorico, della sostenibilità.
I boschi coprono il 70% dei territori del Parco Nazionale, ma coprono altresì una parte importante dei ben più ampi territori dell’alto Appennino e della Riserva di Biosfera Unesco.
Questi boschi sono per lo più di proprietà privata e beni di uso civico; e solo in misura minore, 4.500 ha sui 26.000 e gli oltre 200.00 della MaB, appartengono al demanio pubblico.
E’ evidente che del diverso regime di proprietà è necessario tenere conto sia nelle tecniche e nelle strategie –solo di conservazione - che in quelle di gestione produttiva del bosco.
Il Parco Nazionale gestisce direttamente alcuni boschi demaniali: foresta dell’Ozola e Alta Val Parma; è solo uno degli attori in campo. Altri sono le Regioni, Unioni dei comuni, gli usi civici, i privati proprietari, i consorzi forestali di 1 e 2 grado, gli operatori a vario titolo delle “filiere” più e meno buone del bosco, e ultimo ma non ultimo il vasto pubblico degli utenti delle varie funzioni del bosco, per necessità climatica, ricreativa, ambientale.
Veniamo tutti, nel nostro Appennino, da un lungo periodo di “abbandono”, nel senso di attenzione scarsa e residuale e anche di non uso dei boschi. Ciò che ha da un lato permesso a una giovane foresta appenninica di crescere ed espandersi,talora a macchia d’ olio, su terreni un tempo di pascoli e coltivazioni.
Questo lungo tempo non ha consentito di far crescere parimenti – anzi ha fatto decadere – le “culture del bosco”: sia nel senso della conoscenza dei valori naturali di enorme interesse generale, accresciuti oggi in tempi di cambiamenti climatici, sia nel senso di maturazione e innovazione di modalità e filiere di utilizzo economico efficiente e sostenibile del bosco come risorsa.
In sintesi oggi abbiamo molti boschi, di non grandissimo valore, relativamente giovani, spesso mono specie (faggio) e coetanei. Non è il massimo per i valori ambientali e paesistici e neppure per quelli economici essendo lo sfruttamento per il semplice “far legna” quello a minor valore aggiunto sia monetario che occupazionale.
Però non va dimenticato che il segno di gran lunga prevalente degli ultimi decenni è quello di una crescita del patrimonio boschivo. Serve perciò accrescere la cultura della conservazione e anche quella di una gestione economica migliore in tutti i sensi.
Ci sono segnali di impegno e attenzione da molte parti, tra i più nuovi e rilevanti, il risveglio “imprenditoriale” degli usi civici e la costituzione di consorzi forestali di 1° e 2° grado.
E’ in questo quadro che il Parco Nazionale ha discusso, elaborati e recentemente e ufficialmente deciso (consiglio direttivo del 24 settembre scorso) di istituire il nuovo CENTRO UOMINI E FORESTE PER L’APPENNINO.
Sarà un punto di riferimento prima di tutto culturale votato per far crescere la conoscenza, la capacità e la responsabilità di tutti i diversi attori e utenti pubblici e privati. E’ la cosa di cui nel medio lungo termine c’è il più grande bisogno.
Per anni è stato il lupo al centro dell’impegno del servizio di conservazione della natura del Parco. Per i prossimi anni sarà il bosco.
Il nome del centro, che inizia con la parola uomini, conferma e dichiara da subito la consapevolezza che la sostenibilità e la stessa missione di conservazione del Parco, secondo l’approccio Unesco, vanno costruiti prima di tutto “nel cuore e nella mente delle donne e degli uomini”.
C’è relazione e non separazione tra uomo e natura, e tutti i dati, gli attori e gli interessi devono essere considerati e messi a confronto.
La deliberazione sottolinea esplicitamente il bisogno di fare uscire la “tematica da ambiti settoriali e geografici tra loro separati”, richiama gli interventi e le misure europee (PSR e Life) e impegna il Parco ad approfondimenti di studio e ricerca e altresì a costruire un’ampia mappa di collaborazioni.
Finalmente si riscopre la finalità di un parco: la salvaguardia e protezione del patrimonio forestale dello Stato. Non può quindi esistere un parco che non tuteli gli alberi e i boschi dai loro parassiti principali: l’edera, la vitalba e la processionaria, che stanno facendo morire migliaia e migliaia di querce e arbusti di ogni genere. Si attaccano a qualsiasi fusto e in pochi anni lo portano alla morte. Gli agronomi affermano che è una selezione naturale, che vengono attaccati solo alberi ammalati e che quindi queste piante infestanti non arrecano danno. Non è vero!!! Lungo le strade e nei boschi si assiste all’assalto indiscriminato di queste infestanti che non lasciano scampo al malcapitato vegetale anche se in ottima salute.Lo avvolgono completamente e , indebolendolo, lo costringendolo al soffocamento. Basta chiedere anche agli anziani boscaioli e vi diranno che non c’è niente di più dannoso che queste piante parassite. Sono anni che invio lettere e fotografie agli uffici preposti senza ottenere la benché minima attenzione. Sono lieta quindi di apprendere che finalmente verrà affrontato l’argomento e solo allora potremo parlare di parco.
antonella telani
Ho letto con piacere l’interesse del sen. Giovanelli anche per le aree per la mitigazione del clima, Mab zone, che non sono area parco e sono contenta per la istituzione del Centro che potrebbe fungere da collante tra la vecchia cultura contadina tuttora in auge, per cui la natura va gestita ponendola sotto il controllo umano e la Natura, madre del creato. Temo che il divario tra una tradizionale cultura contadina legata al passato feudale ed un concetto di Natura più evoluto sia per ora insanabile. In altre parole prevedo che a lungo si sputerà nel piatto in cui si mangia.
B&B Rosa Cusna
C’è del vero nelle parole del presidente Giovanelli, laddove dice che il bosco ha sofferto di un “lungo periodo di ABBANDONO, nel senso di attenzione scarsa e residuale e anche di non uso”, il che porterebbe in primo luogo a chiedersi perché mai si sia aspettato fino ad ora per intervenire, ma guardando alla sostanza va dato comunque il benvenuto ad ogni iniziativa a favore del bosco, la quale dovrebbe purtuttavia tener conto dell’esistente, e delle pratiche in uso (perlomeno a mio modesto avviso).
Chi ha già un qualche anno sulle spalle può ricordare l’epoca in cui era pressoché sconosciuta “l’incuria” del bosco, sia per il frutto che poteva dare, vedi il caso dei castagneti, sia per il legname ciclicamente fornito, da ardere o da lavoro, senza contare che in autunno più d’uno vi conduceva a pascolare il proprio bestiame, così da risparmiare le scorte di foraggio immagazzinate per l’inverno (e in tal modo si realizzava pure allora un sostanziale processo di “filiera”).
Ancor prima, secondo quanto ebbe a raccontarmi chi ne era stato per certi versi protagonista, vi fu una stagione di disboscamento, quando vi era “fame di terra” e si voleva aumentare la superficie dei coltivi, innanzitutto per il sostentamento della propria famiglia, e potremmo dunque dire che anche intorno al bosco, almeno da queste parti, ha ruotato la vita di una società dai tratti fortemente rurali, che traeva il proprio reddito dalla conduzione dei campi e delle aree boschive.
Quel “mondo” è andato via via cambiando, fino a tramontare, ma ciononostante vi è stato chi nel frattempo, ossia durante questi decenni, ha continuato ad utilizzare e far fruttare il bosco, col “far legna” o gestire il proprio castagneto, dimostrando così che il bosco può essere una risorsa anche quando è condotto nella maniera tradizionale, il che ha di riflesso attenuato uno stato di abbandono che avrebbe potuto raggiungere livelli molto più elevati (anche per una sorta di effetto domino)..
Oggi vi sono indubbiamente ulteriori potenzialità per il bosco, tese ad ottenere un maggior “valore aggiunto sia monetario che occupazionale”, e va sicuramente considerato “il vasto pubblico degli utenti delle varie funzioni del bosco, per necessità climatica, ricreativa, ambientale”, ma io penso che nel guardare a siffatta e stimolante prospettiva non vada comunque messo in secondo piano l’esistente, ossia la “lavorazione” del bosco secondo consuetudini che hanno resistito al tempo, e che andrebbero semmai incentivate e supportate (oltre che conservate).
In buona sostanza, mi sembrerebbe sbagliato, semmai dovesse succedere, che il “nuovo” abbia a soppiantare il “vecchio”, anziché conviverci, il che potrebbe accadere se, giustappunto per soddisfare gli obiettivi di natura “climatica, ricreativa, ambientale”, si puntasse ad avere quante più foreste possibili, e dunque a non rinnovare periodicamente il bosco, così da ottenere alberi di grande fusto, ossia la foresta, ma ciò non è probabilmente nelle intenzioni di questa iniziativa, anche perché il “far legna” risponde alla logica e all’invito di avvalersi dell’energia rinnovabile (questione oggi piuttosto attuale)
P.B. 30.09.2018