Tra i vescovi invitati dal Santuario di Fiorano per la novena in preparazione alla festa della Beata Vergine del Castello c’è anche monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, che il 5 settembre ha presieduto la Messa nel Santuario stesso.
Pubblichiamo il testo della omelia pronunciata dal presule per questa celebrazione, in cui non mancano riferimenti all’attualità e al fenomeno migratorio.
Cari fratelli e sorelle,
ringrazio innanzitutto il Rettore del Santuario, don Antonio Lumare, per avermi invitato a presiedere questa liturgia durante la Novena che tutti gli anni prepara la festa della Beata Vergine del Castello. Giustamente questi nove giorni di preghiera sono anche nove giorni di catechesi. La Chiesa non si limita a insegnarci a pregare. Desidera che la nostra preghiera diventi una strada di conoscenza della volontà di Dio all’opera nella storia del mondo e un’azione conseguente.
Abbiamo tanto bisogno di questo. Oggi infatti siamo partecipi di un disorientamento generalizzato anche da parte del nostro popolo. La fede è stata definita mundi lumen, luce sulla storia del mondo. In molti casi sembra oggi che questa luce si sia spenta. Ma che cos’è una fede che non illumina? Che cos’è la vita cristiana, se essa non conosce più il posto che le è affidato nella storia del mondo? È fondamentale per tutti noi ritrovare questa luce, rispondere alla domanda: cosa sta accadendo ai nostri giorni, nel nostro paese e attorno a noi?
Come è stato ripetutamente affermato stiamo assistendo, probabilmente senza rendercene conto, a una trasformazione radicale della vita personale e sociale. Da una parte questo cambiamento sembra andare nella direzione di un’esaltazione dei diritti individuali, dall’altra nella scoperta di poteri sempre più dilatati e invisibili che paiono tenere in mano le redini della storia, governandola a loro piacimento. In questa dialettica permanente tra individualismo e globalizzazione, l’uomo perde la strada della propria vita.
I diritti, così tanto esaltati, spesso diventano infatti diritti impazziti: non si guarda più al bene della persona, cioè dell’essere umano in relazione con gli atri, ma al singolo individuo e ai suoi sentimenti. Così lo “star bene” del singolo può prevalere sul bene della famiglia; “avere tutto ciò che si desidera” può prevalere su una vita saggia e ordinata. I sentimenti possono prevalere sugli impegni presi, sui giuramenti e le responsabilità assunte; la comodità, l’assenza di fatica e di sacrificio possono prevalere sulla gioia e la serenità, che vengono invece soltanto da un impegno condiviso e da una donazione gratuita di se stessi per il bene comune. D’altra parte, la globalizzazione coincide spesso con la prevalenza dell’interesse economico di gruppi di potere a noi sconosciuti sull’interesse reale della comunità e del popolo; con l’inafferrabilità dei confini della comunità a cui apparteniamo; con l’annebbiarsi della propria cultura, della propria storia, della propria appartenenza locale.
I motivi di difficoltà sono molti, ma accanto ad essi esistono anche infiniti motivi di speranza. Questi ultimi però non vengono rilevati e messi in luce né dai mass media, né più in generale dalla cultura dei social e della chiacchiera presente sui mezzi di comunicazione. Nasce perciò facilmente un senso di spaesamento, di paura, un sentimento da “fine del mondo”, che mostra la povertà e la debolezza della nostra fede. Sant’Agostino, per rispondere a domande analoghe alle nostre, mentre la crisi dell’impero romano sembrava coincidere con la fine della storia, ha scritto, nell’arco di vent’anni, la sua opera intitolata La Città di Dio. Noi non possiamo fare qualcosa di analogo, ma possiamo cercare tutti i giorni dei maestri che ci illuminino in una lettura della storia dei popoli e delle nazioni, in quella lettura che viene da Dio e dalla sua volontà.
Il Libro del Deuteronomio, di cui stasera abbiamo ascoltato un brano, è un esempio di ciò che vi ho indicato. Il popolo d’Israele, in un momento difficile del proprio percorso, ha desiderato riandare al senso globale dell’itinerario che stava percorrendo, e ha cercato sulle labbra stesse di Dio il senso del suo percorrere a zig zag le terre del Medio Oriente. Già questo è un primo insegnamento. Il nostro cammino personale e comunitario verso Dio avviene sempre dentro le coordinate dello spazio e del tempo, in un “qui ed ora”, che sono le uniche circostanze in cui ci è dato di vivere. Non possiamo né dobbiamo sognare un passato o un futuro in cui alienarci. È in questo momento presente che Dio ci chiama ad essere, attraverso la Chiesa, i suoi testimoni davanti a tutti gli uomini. Israele aveva ben presenti i suoi nemici, identificati, nel testo che abbiamo letto, con l’Egitto e con l’umiliazione passata in quella terra. Allo stesso tempo sapeva che Dio era alla guida del suo cammino. Dio sta conducendo il nostro itinerario nel mondo. Il nostro è un tempo certamente difficile, ma non sarà un tempo di morte se noi sapremo riattingere alla fede dei nostri padri e riesprimerla davanti alle nostre comunità e agli uomini del nostro tempo. Israele sa di venire da Abramo, dal suo lungo percorso di arameo errante (Dt 26,5). Sa quindi anche riconoscere il posto dei popoli nella sua storia. Il compito che Israele riconosce per se stesso non è quello di schiacciare gli altri popoli, ma di illuminarli e di contribuire con essi alla preparazione di quella convocazione universale che avverrà sul monte Sion alla fine dei tempi (cf. Is 2,2-3). Io penso che il senso della storia del mondo stia tutto in questa coniugazione: non dobbiamo perdere la nostra identità, ma attraverso di essa dobbiamo diventare costruttori di un vero universalismo di credenti che riconoscono il vero Dio e lo adorano.
Nel Vangelo che abbiamo ascoltato troviamo una pagina sconcertante: anche Gesù, nella sua umanità, apprese a poco a poco la volontà del Padre. Egli sapeva di essere mandato innanzitutto e soprattutto alle pecore perdute della casa di Israele (Mt 15,24). Ma attraverso questa donna siro-fenicia di lingua greca, attraverso le sue grida e la sua fede, l’umanità di Gesù si aprì all’universalità della salvezza (cf. Mc 7,24-37).
Oggi anche noi siamo interpellati dalle grida e dalle richieste di altri popoli che ci circondano. Essi provengono da Sud, dall’Africa, attraverso il Mediterraneo; ma anche da Est e dal Medio Oriente, attraverso l’Europa Centrale. Popoli tormentati dalla guerra che chiedono a noi di diventare operatori di pace; popoli tormentati dalle lotte e dalla fame, dalle dittature, dalla corruzione e dalla esosità dei potenti. Ci chiedono di scrivere con loro una pagina nuova. Certamente solo la politica può risolvere alcuni problemi complessi di ordine pratico, quali ad esempio i tempi e i modi dell’accoglienza. Ma dobbiamo purtroppo riconoscere che la politica, per troppo tempo, non ha saputo offrire risposte adeguate, capaci di dare prospettive chiare a chi entra e sicurezza a chi accoglie.
Che cosa tocca a noi? Contribuire con la nostra storia ebraico-cristiana a immaginare un presente e un futuro che sappia coniugare l’accoglienza con l’edificazione di una storia comune. Chi viene da noi deve sapere quali sono i tratti fondamentali della nostra storia, della nostra cultura, i valori su cui poggia la nostra convivenza, deve imparare la nostra lingua, deve ricevere un’educazione al lavoro, deve cioè rispondere con un proprio contributo alla comunità che lo accoglie. Nello stesso tempo, noi dobbiamo interessarci dei popoli in difficoltà, premere affinché venga stroncato il commercio indiscriminato delle armi e si torni a relazioni dignitose e pacificate tra le nazioni.
Affidiamo tutti questi pensieri, propositi e desideri all’intercessione di Maria, Madre del nostro Castello e di tutta l’umanità, perché ci aiuti a trovare nella fede e nella carità le linee fondamentali della nostra presenza ed azione nella storia del mondo. Amen.