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I racconti dell’Elda 3 / “San Pellegrino in Alpe”

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Questa volta sono io che lo chiedo al mio accompagnatore: “Sabato mi porteresti a San Pellegrino?”. Mi dà un’occhiata mentre sta rivoltando fra le mani sporche di morchia un pezzo meccanico del suo Quad: “Certo, a che ora vuoi partire?”. Così la mattina del ventuno ci ritroviamo in macchina, passiamo a prelevare la Mirella che puntualissima ci aspetta con in mano un fagotto contenente la sua famosa torta di tagliatelle, abbiamo deciso di pranzare al sacco coi ragazzi dell’oratorio che da tre giorni sono in cammino a piedi.

Durante il viaggio i ricordi mi assalgono e comincio a raccontare di mia madre che nel ’37 “io non ero ancora nata” aveva fatto il voto di recarsi a piedi a San Pellegrino. Dovete sapere che il primo dei miei fratelli allora quattordicenne, aveva preso una cornata da una mucca che l’aveva fatto rotolare giù dalle rive vicino al cimitero e si era spezzato il femore in due parti “questo era il racconto ufficiale per evitare grane a un altro ragazzo un po’ più vecchio di lui, ma in famiglia tutti sapevano che aveva bisticciato con un certo Aldo e lui aveva avuto la peggio rotolando fin in fondo a questa riva”. Raccolto e sdraiato su un carretto era stato portato in ospedale da mia madre, (il papà era in Africa). Adesso non so dirvi quanto tempo è stato “in trazione” forse più di un mese in quei tempi le fratture erano curate in modi diversi e lunghe a guarire.

Comunque anche quando era tornato a casa per mesi continuava a camminare appoggiato a una stampella “ferla”, così mia madre decideva di portarlo a San Pellegrino per chiedere la grazia della guarigione. Partirono di notte accompagnati dalla buona Zita, dai suoi figli Gigi e Bruno quest’ultimo, coetaneo e amico di mio fratello, dal bravo Franceschìn Dalla Porta, che conosceva la strada e da sua moglie Celsa. Ci misero due giorni ad arrivare lassù, sempre con questo ragazzo che si aiutava con la stampella e quando non ce la faceva più la mamma se lo caricava in groppa per dei brevi tratti.

Mia madre per più di mille volte mi raccontava che una volta entrato in chiesa e ascoltato la messa buttava via la stampella e al ritorno era sempre davanti a chiacchierare con gli altri due e io testarda ogni volta le rispondevo: “Te lo credo con tutta quella ginnastica che aveva fatto in due giorni!”

Poi zittisco, i ricordi sono personali non riesco a raccontarli a voce, ripenso che parecchi anni fa anch’io ho fatto lo stesso voto che aveva fatto mia madre, davanti alla vetrata di una rianimazione. Se mi aiutava a riportarlo a casa vivo, sarei andata a ringraziarlo a piedi come aveva fatto mia mamma. Difatti è tornato, con le ruote al posto delle gambe e per qualche anno non ho più pensato a quel voto. Solo ogni tanto faceva capolino nella mia coscienza, quando vedevo che lui c’era con le sue braccia possenti come quando scalava, con la sua caparbietà, con la sua inventiva, la sua intelligenza.

Finalmente dieci anni fa decisi di soddisfare questo voto, sostenuta da mia nipote Nicole che si propose di condividere il viaggio con me. Ci intrufolammo con quelli della parrocchia che ogni anno guidati dal professor Regnani si recavano a quel Santuario a piedi. Una camminata lunga e faticosa, ricordo ancora i crampi alle gambe dopo ore di salita e il buon Rino che mi dava dei sali per rimettermi a posto e mi diceva: “Questo è l’ultimo punto del cammino dove ci può raggiungere una macchina, decida se vuole tornare indietro”. Io non l’ascoltavo, purtroppo apparteniamo a una razza che non molla mai. Sono passati dieci anni da allora e non ci sono più tornata”.

Al Passo delle Radici con la macchina ci troviamo a passare in mezzo a un nugolo di magliette arancioni, sono i nostri ragazzi, sorridenti, allegri, che ci riconoscono e ci salutano, in mezzo a loro emerge il capo bianco di don Geli, che poi celebrerà la messa nella chiesa austera di San Pellegrino “e io che volevo mandarlo in pensione, ne ha ancora di energie da spendere nel suo apostolato”.

Entrata in questa chiesa millenaria, ripenso alla leggenda di questo Santo, che era un prescelto da Dio quando l’hanno battezzato ha risposto amen alle varie invocazioni. Figlio di re ha donato tutto ai poveri e ai malati per curarli, amato e rispettato dalle bestie feroci, lambito senza essere intaccato dalle fiamme, morto dentro al buco di una quercia dopo aver combattuto tutta la vita contro i demoni della neve, della grandine e del freddo che attanagliavano i pellegrini che percorrevano quella selva per raggiungere la Toscana e viceversa. Raccolsero le sue spoglie e le deposero su un carro tirato da due torelli, perché decidessero loro dove seppellirlo, questi si fermarono proprio sul confine fra l’Emilia e la Toscana e lì venne eretta questa chiesa.

Vedo che c’è un vecchio confessore a disposizione, vado da lui a vuotare il sacco, ora cercano lo psicologo, lo psichiatra non sanno che una sana confessione ti solleva l’anima.

Alla fine il pranzo nel sagrato della chiesa ricordando il prof Beppe Regnani col suo famoso “brindisino” cantato e bevuto allo stesso modo. Questo gruppo di ragazzi è pronto per recarsi a Roma ad incontrare Papa Francesco.

Durante il ritorno ci sorprende una furiosa grandinata che ci fa cercare riparo sotto le fronde fitte degli alberi che coprono la carreggiata, da Piandelagotti a Civago la strada è bianca, ai lati cumuli di grandine che sembra neve. I demoni di San Pellegrino si sono rifatti vivi.

(Elda Zannini)

 

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