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Quattro passi sull’Altopiano: nel ricordo dei nostri caduti

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Mi ritrovo un’altra volta in pullman con l’associazione fanti Castelnovina, assieme a una vecchia e cara amica d’infanzia. I fanti? Direte voi, perché? Forse, perché sono sempre stata attratta dalla divisa militare, forse, perché mio padre è stato un fante, eroe della Grande Guerra (decorato con medaglia d’argento al valore militare) forse perché mio marito portava la divisa, bene io con in questa associazione mi trovo a mio agio.

E’ la seconda volta che vengo ad Asiago con loro, guardo e ascolto con più attenzione. Il viaggio è lungo più di quattro ore, questa volta sono stati riempiti due pullman di Borghi nelle varie fermate prima della città. Usciti dall’autostrada cominciamo a scalare la montagna, lunghi tornanti con precipizi ai lati e un panorama mozzafiato, buona parte della pianura Veneta si stende sotto di noi. Finalmente l’altopiano dei sette comuni, prima Caltrano poi Roana e ancora su verso Treschè Cesuna. Belle case stile Trentino (siamo a circa cinquanta chilometri da Trento) con tetti spioventi fin a coprire le entrate e ridenti abbaini coi davanzali pieni di gerani cadenti, agli angoli i così detti “bovidi”, specie di torrette esagonali e sulle facciate affreschi di queste montagne. Gli occhi hanno tanto da cogliere e fissare nella mente.

Arriviamo nella valle che annualmente accoglie questo raduno interregionale per ricordare i caduti della Grande Guerra che in questa valle sono stati sepolti a migliaia e quest’anno ne ricorre il centenario. Tantissime uomini e donne con le loro divise delle varie associazioni e non solo fanti, ma anche alpini, bersaglieri, avieri, marinai, paracadutisti coi loro labari portati con orgoglio si assiepano attorno al grande muro che circonda questo luogo sacro. Vecchi soldati della seconda guerra con le loro medaglie sul petto, chi appoggiato a un bastone, chi seduto in carrozzella spinto da un nipote, al suono della tromba che dà l’avvio alla sfilata delle varie rappresentanze si mettono sull’attenti con lo sguardo fiero come lo era una volta.  Poi entrano sorrette da braccia robuste centinaia di bandiere che sventolano alte sopra le teste e piano piano vanno a ricoprire tutto il muro di cinta. Al centro un altare dove un cappellano militare celebrerà una messa da campo, ai lati rappresentanti politici e un’infinità di sindaci con tanto di fascia tricolore, poi un drappello con le divise di quel tempo e le crocerossine. Davanti al cancello d’entrata due carabinieri impettiti, ma anche loro con la divisa del 15-18.

All’interno di questo luogo del ricordo centinaia di abeti, mozzati e dipinti di bianco e su ognuno una piastra di ottone con su scritto quattro nomi con rispettivo cognome, i pochi che hanno potuto essere riconosciuti, moltissimi i senza nome sepolti lì anche con divisa diversa da quella Italiana, poveri ragazzi come i nostri mandati lì a morire da (qualche politico per chissà quale ragione), anche loro giovanissimi e spaventati come lo erano i nostri e che sotto questa terra avranno trovato conforto e pace.

Poi l’onore alle sei bandiere rappresentanti i caduti di sei diversi stati su questo altopiano: Gran Bretagna, Stati Uniti, Austria, Ungheria, Slovenia e per ultima l’Italia. Allora mi sposto e vado sul pendio di fronte dove sorge il cimitero militare inglese di Vali Magnaboschi, ordinato, con lapidi tutte uguali in file perfette con su scritto nome cognome e grado, certe con fiori freschi forse figli o nipoti erano presenti quel giorno. Cominciano i discorsi di prammatica e colpisce la mia attenzione un personaggio che parla in Portoghese è un Brasiliano che rappresenta i soldati emigrati in Brasile dopo la Grande Guerra qui a loro non era rimasto nulla solo miseria, in special modo ricordava (i travaglianti di Manaus).

Durante la messa il cappellano, nell’omelia ha ricordato tutte le opere di queste associazioni di fanti specialmente il volontariato come fanno anche i nostri Castelnovesi, nella croce verde, nella croce rossa e l’aiuto ai terremotati. All’ingresso di questo luogo del ricordo sorge una piccola chiesetta eretta in memoria dei nostri soldati caduti per difendere la loro patria che poi è anche la nostra. A fine conflitto poi vennero collocate delle colonne Romane per ricordare il primo sfondamento dell’esercito Austro Ungarico: a passo San Lorenzo, sul massiccio del Monte Grappa, a Bate, a Colle Moschin, all’altopiano di Baisizza e Valbello e una l’avevo lì di fronte a me, sull’altopiano dei sette comuni, proprio nel campo di Magnaboschi, messa come simbolo di consacrazione dell’ex campo di battaglia ora campo di riposo eterno.

Alla fine, la straziante lettura di una missiva di uno di questi soldatini alla sua donna che aspettava il suo primo figlio e lui che le diceva: “Maria, mi perdonerai mai?  Ho ucciso due ragazzi come me, uno dopo l’altro, spaventati come lo ero io, solo che portavano una divisa diversa dalla mia, l’ho fatto prima che una gran luce rossa mi ricoprisse e mi togliesse l’uso delle gambe, che ora mi hanno amputato inutilmente, l’infezione avanza, mi resta poco da vivere”.

Ripartiamo coi pullman e saliamo alla Malga, dove ci attende un pranzo luculliano che ci rifocilla, ma non ci fa scordare ciò che abbiamo visto e sentito e ci fa riflettere molto. E’ mai possibile che queste guerre anche se adesso si fanno in modo diverso, non abbiano mai fine? Non ci sarà mai pace in questo mondo bellissimo che Qualcuno ci ha regalato? A ottant’anni forse si riflette troppo e ti assalgono tanti perché ai quali non trovi risposta. Noi Italiani viviamo in pace ormai da settantadue anni e non sono pochi, specialmente per noi che abbiamo vissuto e subito la seconda Guerra Mondiale, abbiamo visto la distruzione di un popolo e di uno stato. Ora nella mia ignoranza e ingenuità mi rivolgo a tutti quelli che si interessano di politica: “State attenti ci vuole poco ad accendere la miccia”.

Dopo il pranzo risaliamo in pullman e scendiamo ad Asiago con breve visita alla cittadina tradizionalmente conosciuta da sempre, specialmente da noi che leggiamo, perché ha dato i natali a Mario Rigoni Stern, che ce l’ha raccontata e descritta nelle sue opere facendoci anche conoscere la famosa ritirata in Russia.

 

(Elda Zannini)