“Domani ti porterò in Garfagnana, voglio farti vedere dei posti che ti piaceranno”. Così il giorno dopo, puntualissimo, il mio accompagnatore si trovava con la macchina davanti al cancello, e cominciava il nostro viaggio: la strada era tutta curve, piena di buche e smottamenti con sensi unici regolati da semafori, Busana, la Giarola, Cinquecerri e Ligonchio.
Qui mi fa fare un giro attorno al lago artificiale e io gli chiedo di fermarsi vicino al cimitero, dove lì davanti si trova la Cappellina dove tolsero la vita a mia sorella, nel lontano 29 giugno del 1944.
Mi fermo per dire una preghiera e i ricordi mi gonfiano il cuore, aveva l’età che ora ha appena compiuto mia nipote e questo mi fa male, ricaccio dentro le lacrime e risalgo in macchina. Il mio accompagnatore per un po’ rispetta il mio silenzio, poi ricominciamo a parlare di tutto, ma non di questo. Era una gita per vedere posti nuovi che a ottant’anni non avevo mai visto, anche se poco distanti da casa.
Di solito col pullman e le varie associazioni si fanno giri lunghissimi per vedere laghi noti, ma per niente più belli di quelli che ho visto in quel giorno. Dopo Ligonchio, Le Vaglie e qui mi fa osservare la vecchia strada che univa i due paesi, interrotta da una frana, ormai da anni, e mai ripristinata, così per arrivarci gli abitanti devono fare un giro lunghissimo, poi Ospitaletto, una volta luogo di turismo con le sue piste da sci frequentate dagli amatori, sia di qua sia di là dal Crinale, e ora abbandonata come il paese.
Ecco il valico di Pradarena e cominciamo a scendere in Garfagnana. Dopo qualche chilometro una visione da favola, un piccolo lago alimentato da una grossa fonte che scorre in mezzo a tronchi scavati e posti su un graticcio di legno che arriva quasi a metà lago. Una baita in legno a forma di villetta sullo sfondo con tanto di bar e spaccio. Attorno a questo lago, nascosto in mezzo a un bosco di faggi, un campeggio con roulotte, tende e un grande parcheggio e penso: “Gente in gamba che ha saputo sfruttare in questo modo ciò che offre la natura”. Questo posto viene chiamato oasi di Lamastrone. Continuiamo a scendere, la strada è tutta curve, ma l’asfalto è buono e vedo che i lati della strada hanno l’erba falciata e rastrellata, gli alberi potati e i cespugli tagliati, le cunette pulite come se lì esistessero ancora i cantonieri.
Poi ecco arrivati in fondo alla valle un altro lago enorme, il Gramolazzo, anche questo artificiale, si perché sono quelli che producono energia elettrica come quello di Ligonchio. Qui ci fermiamo, una pista pedonale lunghissima liscia come l’olio accompagna tutta la riva, con panchine di marmo con tanto di schienale che se ti siedi ti pare di stare in poltrona, una pensilina e un pontile dove un pescatore sta buttando la lenza. Qui conosciamo una coppia di Olandesi che cominciano a dialogare col mio accompagnatore, naturalmente in inglese. Era una settimana che giravano per la toscana, ma questo lago così azzurro, così limpido, poi la pulizia e l’ordine li affascinava. Ripartiamo ormai eravamo vicini alla nostra meta “Campocatino”.
Ci arriviamo dopo quindici minuti di salite e curve, ma la strada è tenuta bene e gli argini rasati, le palizzate nei punti cruciali la fanno apparire più larga, al posto dei paracarri, grossi blocchi di marmo bianco (siamo vicini alle cave). Quando arriviamo resto ammagliata dal borgo che mi trovo davanti. Tutte casette e ovili di vecchi pastori, tutte ristrutturate senza intaccare minimamente la loro origine, i muri, i finestrini, i portoncini, i tetti di sasso le famose “piagne”, i comignoli, tutto ripristinato senza spostare una virgola.
Parcheggiamo la macchina in alto vicino a una fontana e dietro questa noto l’immagine di un santo a me sconosciuto “San Viviano” poi mi spiegano che a venti minuti di cammino a piedi c’è un santuario sotto la montagna: “tornerò un’altra volta per arrivarci”. Mentre io guardo queste casettine perfette adornate da gerani colorati, ci incamminiamo per arrivare al bar ristorante che si presenta piccolo come le altre strutture, ma all’interno scavato nella montagna, per non deturpare il paesaggio, grande sala, cucina, servizi, sala convegni ecc.
Nel frattempo arriva l’ideatore e proprietario di tutto questo: un Castelnovino puro, che io ricordo ancora ragazzino con gli sci da fondo ai piedi e col fratello, scivolare o arrancare sulle piste del nostro Appennino impegnato in varie gare. Ora ha la barba brizzolata, la stretta di mano è forte, mani che hanno lavorato e continuano a farlo, ma gli occhi gli stessi di allora, vivi, intelligenti. (Poi dicono che in Italia c’è la fuga dei cervelloni) bene noi ce ne siamo lasciato scappare uno in Garfagnana.
Pranziamo in quel posto (polenta e cinghiale) mai sentito niente di più delicato e gustoso di quella carne, il cuoco è anche lui nostrano di Vallisnera insegnante all’alberghiero di Castelnuovo (altra fuga?).
Dopo pranzo scendiamo a Vagli, che è diviso in due parti: Vagli di sopra e Vagli di sotto, anche questo paese si trova su un grande lago. Altre meraviglie da vedere sempre ideate dal nostro conterraneo, il ponte “tibetano” sospeso sul lago poi a Vagli si vola sopra l’acqua, attaccati a un grosso cavo che parte dall’alto di un dirupo con arrivo sulla sponda opposta del lago e si può fare anche in tandem.
Non ci resta che tornare, ma facendo una strada diversa arriviamo a Castelnuovo Garfagnana, poi su verso Castiglione, poi su un ponte stretto con parapetto basso, arriviamo a Corfino per proseguire verso il parco dell’Orecchiella, qui troviamo le case col tetti ricoperti di paglia, che fanno molto capanna, poi la grande abetaia, di seguito il faggeto e infine il castagneto con la Madonnina dentro al buco di un grande castagno. Infine arriviamo a un altro lago, quello di Vicaglia la strada passa proprio sopra la diga imbuchiamo due o tre gallerie quelle strette e buie di una volta e arriviamo a Soraggio, poi Sillano, le capanne e nuovamente Pradarena.
Stavolta scendiamo da Piolo, Carù e giù fino al Secchia, con la strada tutta buchi e solchi, con smottamenti e boschi folti e tetri invasi dalla vitalba (gusedre), dall’edera e razze in quantità che fanno morire gli alberi ad alto fusto, ma fanno la felicità dei nostri bravi naturalisti, che ancora non hanno capito che la natura se vuoi che viva devi aiutarla.
Aiutatela facendo lavorare la gente, se qualche giovane ha qualche idea non fatevelo scappare. Se c’è lavoro la gente non abbandonerà la montagna come già sta facendo ormai da parecchio tempo, forse troppo.
(Elda Zannini)