Tre territori di montagna, Lamon nel bellunese, Valgrisenche in Valle d’Aosta e Corniglio nel parmense sono singolarmente impegnati nella salvaguardia di altrettante razze autoctone di pecore: Lamon, Rosset e Cornigliese. Questi ovini, un tempo allevati in gran quantità, rasentano l’estinzione e con loro rischiano di scomparire le comunità locali, le filiere produttive e i saperi di territori montani.
Per non rassegnarsi a questa perdita di biodiversità, i Comuni di Lamon, Valgrisenche e Corniglio, insieme al Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano, Riserva di Biosfera UNESCO - che ha sostenuto l'iniziativa dell’ideatrice del progetto Anna Kauber e ne è diventato soggetto promotore - firmeranno un protocollo d’intesa per la valorizzazione delle tre razze ovine.
Il gemellaggio sarà sottoscritto sabato 2 giugno a Lamon, durante la rassegna annuale Pecora di razza Lamon nell’ambito di un incontro pubblico organizzato dall’associazione Fea de Lamon con il supporto del Comune e della Pro loco. Saranno presenti alla cerimonia delegazioni dall’Emilia Romagna e dalla Valle d’Aosta.
Il protocollo d’intesa, pensato nel segno della salvaguardia dall’estinzione, ha l’obiettivo di creare una piattaforma comune di lavoro, di scambio e di reciproco sostegno, i cui benefici possono interessare sia gli allevatori, i trasformatori della carne e della lana, sia Enti di ricerca e Università e infine di movimento turistico, ambientale e gastronomico (fiere e incontri). I territori e il Parco Nazionale si propongono in tal modo di lavorare congiuntamente alla valorizzazione degli aspetti lavorativi, culturali, sociali e ambientali collegati alla conservazione delle tre razze ovine, attraverso l’ideazione, lo scambio e la condivisione di strategie e strumenti collettivi per la comunicazione e la promozione delle azioni dei relativi territori. Diversi i campi d’azione comune: dallo sviluppo delle filiere relative del latte, della carne e della lana, con attenzione e controllo della loro tracciabilità, al il ripristino dei pascoli e mantenimento dell’equilibrio agro-silvo-pastorale e della bellezza del paesaggio; dalle valutazioni dell’impatto del lupo sui territori e analisi delle possibili strategie di convivenza all’ideazione, scambio e condivisione di strategie e strumenti collettivi per la comunicazione e la promozione delle azioni dei relativi territori.
Al fine di allargare la base di partecipazione e interesse, le proposte contenute nel protocollo d’intesa sono state presentate alle relative Amministrazioni Regionali, alle associazioni di categoria, ai diversi Enti Parco dei territori e degli areali di distribuzione degli animali, così come alle Università e agli Istituti che seguono i diversi progetti di recupero. Fondamentale sarà, inoltre, il coinvolgimento delle associazioni degli allevatori e dei trasformatori, locali ma anche nazionali, attente a queste tematiche.
“L’idea del progetto – spiega la curatrice Anna Kauber – è nata durante un viaggio di studio che ho intrapreso attraversando la nostra bella Penisola. Lungo la dorsale montuosa dagli Appennini fino all’Aspromonte, la mia ricerca ha riguardato le donne pastore, e in particolare la specificità di genere in quella cultura storicamente maschile e di impronta patriarcale. In circa due anni ho raccolto centinaia di storie di donne, ma anche di gruppi familiari e delle piccole comunità montane; ho condiviso cibi e memorie, così come le lunghe giornate di lavoro quotidiano dedicato alla pastorizia e alla filiera che ne deriva. Il mestiere del pastore ha una funzione fondamentale per la tutela dei territori, sia dal punto di vista ambientale che idrogeologico. La loro attività è un formidabile contributo al mantenimento - o addirittura, al ripopolamento – dei luoghi svantaggiati della montagna. Non ultimo, garantisce la sopravvivenza della straordinaria biodiversità vegetale e animale del nostro Paese, incaricandosi indirettamente di mantenere anche l’equilibrio e l’armonia dei paesaggi montani. Nonostante, però, le riconosciute ricadute positive di questo mestiere millenario, in Italia da decenni assistiamo alla progressiva scomparsa dei pastori e, conseguentemente, di numerose razze autoctone di animali allevati. Durante i due anni di ricerca - continua la Kauber - ho avuto modo di incontrare molte realtà territoriali impegnate in vario modo al recupero e alla valorizzazione delle proprie varietà locali di specie ovina. Alcune comunità e amministrazioni, come nel caso delle razze Lamon, Rosset e Cornigliese, hanno intrapreso singolarmente azioni per la loro conservazione e valorizzazione ai fini del mantenimento dell’agrobiodiversità allevata nonché della cultura e tradizioni locali associate a piccole filiere economiche locali. Spesso, però, le attività promosse, molte delle quali anche di ottimo livello, restano limitate nella diffusione al proprio stretto territorio, e al breve termine nelle ricadute. In un mondo connesso, per non disperdere le energie e l’impegno delle singole comunità di montagna una possibile strada può proprio essere quella della ‘rete’, della collaborazione far i diversi soggetti per il comune obbiettivo. Ho così chiesto al Parco Nazionale - sempre molto sensibile a queste tematiche e aperto alle esperienze delle diverse aree montane – di farsi promotore di un Gemellaggio fra Enti e Comuni molto particolare, di notevole portata culturale e sicuramente inedito: il Gemellaggio delle tre pecore”.
C’è da auspicare caldamente che abbia successo l’iniziativa di salvaguardia e recupero delle tre razze ovine autoctone, vuoi per la biodiversità vuoi perché sono simboli di identità territoriale, entrambi aspetti di non poco conto, ma per non rischiare che abbiano a ”scomparire le comunità locali” occorrono occupazione, economia e produzioni, e dunque una certa qual consistenza di animali da reddito e relative aziende (se si ritiene che la zootecnia, in una col suo indotto, possa dare una mano contro lo spopolamento e l’abbandono della montagna). E’ quindi augurabile che il patrimonio ovino, visto che di questo stiamo parlando, torni a crescere, e possa riguadagnare numeri abbastanza significativi – pur se, verosimilmente, le forme di allevamento non saranno più quelle di un tempo – così da preservare stabilmente “le filiere produttive e i saperi di territori montani”, a meno di pensare che la difesa dei prodotti tipici vada ricercata solo nelle lavorazioni e dimensioni di nicchia, ma resta da vedere se e come queste possano poi dar luogo ad una “comunità locale” (come per solito la intendiamo).
(P.B., 15.5.2018)