Ci scrive Claudio Bucci responsabile zona montana dei Fnp i pensionati della Cisl Emilia Centrale e pubblichiamo.
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Premesso che io ho condiviso e condivido la necessità di battersi per il mantenimento dei servizi, in particolare quelli riguardanti scuola e sanità, nelle zone di montagna, vorrei segnalare (e lo faccio da tempo immemorabile ) che il tema " alla radice " dei problemi dell'Appennino è la mancanza di lavoro in loco.
I servizi sono comunque a rischio se le famiglie giovani, appunto per motivi di lavoro, sono costrette ad emigrare verso le città e le pedemontane.
Per questo motivo, e lo faccio senza alcun spirito polemico, auspico che i parlamentari eletti si adoperino per aggredire le cause dello spopolamento dell'Appennino, poichè è evidente che il tema è quantomeno regionale, ma più propriamente nazionale come nazionale è l'intera dorsale appenninica italiana.
Senza lavoro in montagna, nonchè senza una viabilità percorribile in tempi sostenibili per raggiungere città e pedemontane, sarà sempre più problematico mantenere i servizi.
Anche perchè se c'è una "scienza esatta", questa è la demografia, infatti sappiamo che con l'attuale combinato/disposto dell'indice di vecchiaia e della decrescita delle nascite non ci sarà futuro per le comunità appenniniche, specie quelle di crinale.
E pensare che l'abbandono del territorio di crinale ( nche volendo prescindere dai costi sociali) non abbia conseguenze per l'intero territorio è purtroppo frutto di una colpevole miopìa dimostrata da alluvioni, movimenti franosi e dalle conseguenti ingenti somme usate per riparare i danni anzichè prevenirli con costi "fruttuosi", che creano cioè, lavoro e occupazione nella manutenzione del territorio.
(Claudio Bucci)
Basta con il pessimismo e la sfiducia in chi lavora per lo sviluppo della montagna. A pag. 95 di106 della “Strategia delle aree interne” si affronta con tutta l’attenzione il tema del lavoro con “l’acquisto di 50 biciclette da montagna a pedalata assistita, di nuova generazione ed alta efficienza, per consolidare le sperimentazioni già in corso e favorire lo start – up di pacchetti turistici specifici a livello territoriale); allestimento di punti informativi e promozionali in relazione all’appartenenza alla Riserva della Biosfera UNESCO che diventa il nuovo marchio di riferimento per l’identità complessiva del territorio, anche per i mercati internazionali”. A cosa serviranno mai strade e servizi se possiamo puntare “alla valorizzazione della Via Matildica del Volto Santo, come direttrice che dalla pianura/collina reggiana porta nelle aree del Parco Nazionale, e la valorizzazione di itinerari strategici all’interno del Parco finalizzati a un’offerta di cicloturismo di montagna di qualità”?
(mv)
Egr. Claudio Bucci, ho sempre apprezzato i tuoi interventi e il tuo modo democratico di esporre le problematiche. Con questo tuo articolo hai centrato il vero problema della montagna, la mancanza di lavoro; già gli antichi Romani dicevano: se vuoi sviluppare un territorio portaci il lavoro. Se c’è lavoro tutto il resto è automatico, c’è gente, ci sono famiglie, si formano coppie, ci sono i servizi. Da anni sto lottando per far ripartire i lavori della Diga di Vetto che darebbe alla pianura i benefici diretti, l’acqua, e alla montagna gli indiretti, lavoro e turismo. Il progetto prevede, documenti alla mano, l’impiego di circa 500 persone per cinque anni più tutti i mezzi operativi e a lavori finiti sarebbe un cantiere perenne per tante ditte della montagna. Alla Diga di Montedoglio, qui vicino a noi e ultimata recentemente, tutti i giorni venivano distribuiti oltre 700 pasti; e oggi, a lavori finiti, una decina di Imprese lavorano tutto l’anno. Ma chi vuole la morte della montagna lotterà per impedire che ciò avvenga e la montagna morirà e molti di coloro che vogliono questo sono persone che rientreranno nei paesi dalla città 15 giorni all’anno e dicono a noi montanari cosa si deve fare e cosa non si deve fare; il risultato lo si vede; si allargamento i cimiteri, si chiudono i negozi e si mettono a rischio le scuole; ma sappiatelo: la colpa è solo di noi montanari e di chi ha sempre detto No a questa grande opera infrastrutturale.
(Franzini Lino)
Il ragionamento dell’Autore di queste righe è ineccepibile, ma a questo punto andrebbe fatto a mio vedere un passo ulteriore, per entrare maggiormente nel problema, delineando o prefigurando una strada che, almeno sulla carta e ancorché di massima, porti all’obiettivo, ossia invertire la tendenza allo spopolamento del nostro territorio, fenomeno che si porta dietro un insieme di ricadute sia per le zone montane, vedi la perdita di servizi, sia per altri ambiti come anche qui viene opportunamente ricordato.
E in tal senso a me sembra che una prima via percorribile sia quella di affidarsi all’iniziativa privata – che deve ovviamente muoversi all’interno di precisi parametri, vedi la compatibilità ambientale – da incoraggiare e sostenere con meccanismi incentivanti, quali ad esempio i benefici fiscali, le cui forme possono essere varie e diverse a seconda dell’attività svolta, ovvero essere invece le Istituzioni, e sarebbe la seconda via, a programmare e “selezionare”, e quindi sostenere, le tipologie di intervento (più confacenti alle caratteristiche di questo comprensorio).
Va da sé che già la manutenzione del territorio può creare lavoro ed occupazione, e non è di certo poca cosa, ma una comunità ha comunque bisogno di articolare e diversificare le proprie attività e mansioni, vuoi per tener vivo e vitale il tessuto sociale, vuoi anche per assecondare e valorizzare quanto più possibile le attitudini e vocazioni individuali, all’uno o altro mestiere, e credo pertanto che possa valere il discorso che facevo sopra (con decisioni che spettano alla politica, ma anche le Associazioni e Organizzazioni, e più in generale i corpi sociali intermedi, possono fare la loro parte, se non altro fornendo indicazioni e suggerimenti in proposito).
(P.B.)
I servizi sono a rischio, se non c’è lavoro. Sono d’accordo. Quindi il problema è creare lavoro, occupazione. Sul come creare lavoro, ci sono due correnti: il lavoro lo crea l’Offerta (gli imprenditori aprono fabbriche perché gli operai sono flessibili e costano poco, quindi produrre è più conveniente) oppure il lavoro lo crea la Domanda (i lavoratori hanno soldi per comprare prodotti, quindi gli imprenditori producono per soddisfare la domanda; per produrre di più, dunque, assumono lavoratori). Possiamo osservare, fin da subito, che, se seguiamo gli Offertisti, gli imprenditori dovrebbero mettere sul mercato un sacco di prodotti perché produrre costa poco (mercato del lavoro flessibile, eccetera; Jobs Act, insomma). Il problema, si osserva, è che se i lavoratori hanno pochi soldi in tasca (stipendi bassi, lavoro precario, tasse alte, salario integrativo – cioè welfare – basso; oppure, peggio ancora, sono disoccupati), anche se i prodotti sono convenienti, non avranno i soldi per comprarli; a questo punto, i produttori non hanno motivo di produrre, se nessuno compra. È la cosiddetta ‘crisi da domanda’, quella nella quale ci dibattiamo dal 2011, cioè da quando Monti ha ‘distrutto la domanda interna con il consolidamento fiscale’ (sono le parole che ha usato egli stesso in un’intervista). Come si esce da una ‘crisi di domanda’? Con il volano della spesa pubblica, comprensivo del relativo ‘moltiplicatore del PIL’; ogni punto di PIL di spesa pubblica, produce un aumento di 1,5 volte del PIL complessivo (cioè del reddito nazionale). Concretamente, questo vorrebbe dire, per esempio, soldi pubblici per sistemare la viabilità, manutenzione ordinaria e straordinaria dei versanti in dissesto, opere pubbliche di presidio e sistemazione idrogeologica, eccetera. Tutte cose di cui abbiamo estrema necessità. Perché non lo si fa? È importante, a questo punto, inquadrare queste dinamiche nel loro contesto, cioè i trattati europei. Se i lavoratori hanno soldi per comprare, aumenta la domanda di prodotti, quindi aumenta l’inflazione, e i prodotti nazionali diventano meno competitivi sul mercato estero. Inoltre, se i prodotti nazionali sono meno competitivi, gli italiani compreranno all’estero (per esempio, le automobili; avete mai visto in giro tante Audi e Volkswagen come in questo periodo?) e quindi i produttori nazionali saranno in difficoltà e, alla peggio, dovranno chiudere. Inoltre, la bilancia dei pagamenti andrà in saldo negativo, e lo spread, quindi, salirà. Quindi, dovrà tornare un altro ‘governo tecnico’ a togliere i soldi dalle tasche degli italiani, per farli smettere di comprare all’estero. E si torna da capo, alla crisi di domanda. Non è un bel gioco? Come se ne esce? Il problema è nato con la moneta unica (l’euro), cioè un sistema di cambi fissi. Non potendo svalutare la moneta, seguendo le dinamiche economiche interne, si deve svalutare il lavoro, cioè il salario, e quindi si crea una crisi di domanda sul mercato interno. Svalutando il salario, si diventa più competitivi sui mercati esteri, si esporta di più, ma i lavoratori si impoveriscono. Più tagli i salari, più sei competitivo, più esporti, più i lavoratori si impoveriscono. Il mercato interno crolla; sopravvivono solo le produzioni per l’estero. Le fabbriche che producono per il mercato interno chiudono, e i lavoratori disoccupati, se vogliono lavorare, si accontenteranno di salari tagliati, o emigreranno all’estero, dove producono le auto che poi vendono a noi, per esempio. Infatti, sono emigrati all’estero 500.000 giovani italiani in pochi anni, quelli più istruiti, tra l’altro, cioè il futuro del Paese. Queste dinamiche sono state fortemente volute dai trattati europei: Maastricht ha liberalizzato la circolazione di capitali e merci; Schengen ha liberalizzato il transito dei lavoratori-merce (che devono seguire capitali e merci). Queste dinamiche, tra l’altro, sono più acute nelle aree marginali, come la montagna, appunto. Quindi, per concludere, bisogna creare lavoro: come? L’unico modo concesso dai trattati europei è agevolando l’Offerta (cioè tagliando i salari e precarizzando il lavoro). Dentro l’euro, l’Appennino è condannato, e l’Italia non è messa molto meglio.
(commento firmato)
Voglia perdonare tutta mia ignoranza in fatto di economia e massimi sistemi. Leggendo il Suo commento e premesso che Audi e Volkswagen sono prodotte in Europa, in Paesi dove la moneta è l’euro, dove i salari tedeschi sono più alti dei salari italiani, mi viene la domanda: abbiamo firmato trattati senza sapere cosa stavamo firmando?
(mv)
Scriveva Scalfari nel 1978 (si trattava di scegliere se aderire allo SME, il sistema di cambi quasi fissi, predecessore dell’euro): “Tra la nostra inflazione e quella della CEE c’è dunque uno scarto di sei punti; rispetto all’inflazione tedesca lo scarto è di undici punti. Una volta agganciati allo SME, noi ci troveremo in questa paradossale situazione: saremo l’unico paese al mondo con un altissimo tasso di inflazione che, invece di svalutare la propria moneta, subirà una rivalutazione. Perché tutti comprendano: ciò significa che il potere d’acquisto interno della lira continuerà a diminuire, i costi di produzione ad aumentare e le nostre merci a costare di più rispetto alle concorrenti merci straniere. Come si vede, è una forbice tra le cui lame si può venire stritolati”. I politici sapevano benissimo quali sarebbero state le conseguenze per la nostra economia; soprattutto la sinistra di allora lo sapeva benissimo, che il cambio fisso avrebbe avuto come conseguenza il taglio dei salari dei lavoratori. I comunisti votarono contro l’adesione allo SME. Ma poi Napolitano fece il famoso viaggio in America, ci fu il rapimento Moro, e da quel momento la sinistra italiana cambiò atteggiamento: invece di difendere il salario (cioè i lavoratori), inizio a difendere il potere d’acquisto (cioè la finanza, i creditori). Tutto questo, in cambio di? Ditemelo voi. Per i tedeschi, l’euro è un marco sottovalutato, per l’Italia, l’euro è una lira sopravvalutata. Quindi, a noi conviene comprare merci tedesche, ai tedeschi non conviene comprare merci italiane. Chiudiamo le fabbriche, e andiamo tutti a lavorare in Germania. Ci piace, così? Il fatto è che tedeschi e francesi stanno nell’euro per fare i loro interessi; noi ci stiamo per fare gli interessi dell’Europa, cioè i loro interessi. Alla fine ci compreranno a prezzi di saldo. Va bene così? Ditemi voi…
(commento firmato)
La ringrazio per la punuale e dettagliata risposta anche se non mi ha messo di buon umore. No, non è stato un gran buongiorno ma, ancora grazie.
(mv)
Aggiungo solo che Luciano Barca, del PCI, alla vigilia dell’adesione allo SME, dichiarò senza mezzi termini che: “Europa o non Europa questa resta la mascheratura di una politica di deflazione e di recessione antioperaia”. Sapevano.
(commento firmato)
Analisi ineccepibile del sig. Bucci, mi permetto di aggiungere un mio pensiero.
Rifacendomi proprio a quanto scritto dal sig. Bucci, e volendo davvero promuovere il territorio montano, con lavoro, nuove coppie, turismo ecc. bisognerebbe avere il coraggio di chiedere, e, la lungimiranza di concedere, da parte di chi deve, lo status di “area svantaggiata”, come già attuato ad esempio a Livigno e dintorni negli anni 50. Questo aprirebbe un ventaglio di opportunità importante per tutto il crinale appenninico, non solo emiliano-romagnolo, ma l’intero crinale e forse davvero permetterebbe il ritorno delle persone sul territorio e la riapertura di tutte le case chiuse e abbandonate che ci sono.
Sarebbe opportuno che le Amministrazioni Comunali incentivassero l’insediamento di attività produttive con accordi mirati di abbattimento o AZZERAMENTO di oneri, tasse e balzelli, (per periodi concordati, ex 10 anni), in cambio di assunzioni di personale e investimenti in loco.
Da ultimo, ma non per questo meno importante, ricordo che negli anni passati la Regione Emilia Romagna aveva varato la “legge sulla montagna” e se non ricordo male questa impegnava l’Ente Regionale a impiegare una parte del bilancio esclusivamente per i territori montani, però mi pare che sia rimasta solo una bella intenzione.
(Massimo Bonini)
Da decine di anni si leggono fiumi di belle parole, defiscalizziamo la montagna, la politica aiuti la montagna, le associazioni devono fare, si devono garantire i servizi, curiamo il territorio e tanto altro; parole e paroloni che riempiono pagine e pagine, dimenticando che se defiscalizziamo la montagna si deve defiscalizzare due terzi dell’Italia. Con le belle parole e le varie teorie imprenditoriali i Comuni del nostro Appennino si sono ridotti allo stato attuale, vedi a Vetto quante attività commerciali sono state chiuse; forse una decina.
Sarebbe ora che si cominciasse a dire nome e cognome delle persone e dei Partiti che si sono opposti allo sviluppo di questa montagna, che aveva tutte le carte in regola per essere un territorio con tanto lavoro.
Ricordo che la ferrovia doveva arrivare a Vetto e a Castelnuovo, ma si è fermata a Ciano; ricordo che i lavori della fondovalle Val d’Enza partirono ma furono sospesi, l’autostrada Parma Spezia doveva passare lungo la Valle dell’Enza, cosa logica per chiunque ma è stata fatta sulla Val Taro; il famoso Bacino Grisanti o progetto Marcello della Diga di Vetto a lavori avviati è stato fatto sospendere e mai ripreso; come dice Claudio Bucci sulla nostra montagna servono lavori e non parole o giochi di parole; ma se qualcuno progetta lavori e altri progettano come farli sospendere o farli altrove, vale il detto che a demolire si fa prima che a costruire. La nostra montagna faccia mea culpa e iniziamo a guardare di chi è la responsabilità di questi mancati lavori.
(Davide)
Come fare? Aprire una discussione insieme alle atre associazioni di categoria con le Istituzioni a tutti i livelli per arrivare alla definizione di un “Patto”che ci consenta di individuare una progettualità condivisa per questo nostro bellissimo territorio; solo attraverso la partecipazione e il coinvolgimento reale di tutti i portatori di interesse si può parlare davvero di coesione sociale e di sviluppo socio- economico. Come Organizzazioni Sindacali e’ da tempo che chiediamo di poter realizzare questo per provare a costruire una vision per futuro.
(Luca Ferri (Cisl Emilia Centrale))
La ‘vision’ delle organizzazioni sindacali è cambiata a partire dal 1992, quando concertarono con il governo Amato la cosiddetta ‘politica dei redditi’. Invece della difesa del salario attraverso i contratti, iniziarono a concordare con il governo il contrasto dell’inflazione. A tutt’oggi, mi risulta che i sindacati sostengano che “l’inflazione è la tassa più iniqua”. L’inflazione si tiene bassa tagliando i salari, tagliando il salario integrativo (cioè lo Stato sociale) e tagliando il salario differito (cioè le pensioni). Ci guadagna la finanza, che difende in questo modo i suoi crediti dal calo del potere di acquisto. Tagliare i salari ha come conseguenza di tagliare i consumi (Monti lo sapeva benissimo) e quindi le fabbriche che producono per il mercato interno chiudono. Questo, al di là delle parole, è ciò che accade nella vita reale, è il nostro modello di sviluppo. Se vi va bene così…
(commentofirmato)
Nel mio precedente commento dicevo di “entrare maggiormente nel problema”, e mi verrebbe da dire che “commento firmato” lo ha sicuramente fatto, ma con una risposta che sembra rimanere a mezz’aria, o a metà che dir si voglia, a meno che dalle sue parole debba intendersi che il nostro problema occupazionale, e salariale, resterà irrisolto, anzi destinato a peggiorare, fino a quando il Belpaese non uscirà dalla moneta unica, e dai vincoli europei.
Su una tale ipotesi si stanno da tempo confrontando, e dividendo, politici ed economisti di casa nostra, talora anche con posizioni un po’ ondulanti, e la questione ha in ogni caso risvolti ed implicazioni internazionali, posto che sono chiamati giocoforza in causa i rapporti con gli altri Paesi dell’eurozona, sia che vi si rimanga ancorati, anche saldamente, come suggerisce una tesi, sia che la si lasci, o si allenti il legame, come invece vorrebbe chi è di parere opposto.
Ma c’è anche una seconda dimensione, molto più interna, che dipende sostanzialmente da scelte nazionali, ed è quella riguardante il meccanismo fiscale, in ordine al quale confliggono pure qui due linee di pensiero, l’una favorevole alla defiscalizzazione , quale via per dar fiato e spinta alla nostra economia – e recuperare poi, e di riflesso, le entrare fiscali apparentemente perse nella fase iniziale – mentre l’altra teorizza invece il contrario, preoccupata degli eventuali minor incassi fiscali.
C’è da supporre che la defiscalizzazione, applicata alle zone montane, possa giovare alle attività quivi svolte, vuoi per mantenerle e semmai incrementarle, così da frenare o contenere lo spopolamento, o addirittura invertire la tendenza, e varrebbe quindi la pena di sperimentare il metodo, onde vedere che risultati da ma si tratta di una decisione che compete alla politica, così come, più in generale, spetta alla politica mantenere la tassazione progressiva, o introdurre invece l’aliquota unica, ossia la cosiddetta “flat tax” (ho lasciato fuori dal mio discorso gli interventi pubblici per la viabilità, il presidio e la sistemazione idrogeologica, ecc…., perché interessano l’intero territorio, non solo quello montano).
P.B. 14..04.2018
(P.B.)
La politica fiscale è l’unica politica rimasta a discrezione dei singoli Paesi dell’eurozona. Il tasso di cambio la decide la BCE (indipendente), la quantità di moneta la decide la BCE (indipendente), il tasso di interesse lo decide la BCE (indipendente). Poi abbiamo i vincoli di bilancio dettati dalla Commissione Europea (deficit e debito), e il pareggio di bilancio messo in Costituzione. Infatti, la manovra di Monti, che aveva come scopo di diminuire il deficit nella bilancia dei pagamenti, cioè il debito con l’estero (leggi Germania), ha utilizzato la leva fiscale, perché non poteva utilizzare altro. Con questo quadro, sarebbe anche possibile defiscalizzare in montagna, ma questo, in pareggio di bilancio, cioè senza poter fare deficit, vuol dire togliere risorse alle altre aree più popolate. Ricordo che più popolo significa più voti. Quindi, quale amministratore deciderebbe volontariamente di perdere voti nelle aree più popolate per favorire una manciata di voti in Appennino? Siamo realisti: al massimo, saranno briciole. Di norma, saranno provvedimenti ‘a costo zero per l’amministrazione’ come si usa dire. Tipo il Parco che, comunque, ringraziando, dà lavoro a qualche funzionario (e questo, mi pare, è quasi tutto il PIL che produce). Queste politiche si possono fare se non c’è un patto di stabilità interno. Il patto di stabilità è stato inventato apposta per impedire che i risparmi di spesa a livello statale, venissero vanificati dalle spese a livello locale. Quanto all’euro, salterà comunque, prima o poi, perché ha esasperato le differenze di struttura economica dei paesi membri, invece di favorire le convergenze. I paesi del ‘nord’ hanno accumulato surplus stellari nella bilancia dei pagamenti, mentre i paesi del ‘sud’ hanno, simmetricamente, accumulato deficit paurosi, prendendo a prestito dai paesi del ‘nord’. La Grecia è l’esempio più chiaro degli esiti di queste dinamiche. Le implicazioni internazionali dell’euro, d’altra parte, sono legate agli equilibri geopolitici. L’Europa è un feudo degli Stati Uniti, che ha vinto la guerra, e l’euro crollerà quando per l’America mantenerlo in vita sarà più costoso, in termini complessivi, che farlo cadere. Perché la ‘pace’ in Europa non viene dall’euro; viene dalle basi NATO.
(commento firmato)
Il discorso delle cifre non fa una piega, e le aree più popolate sono verosimilmente destinate ad avere la precedenza su quelle che lo sono meno, dal momento che più abitanti corrispondono a più voti, ma è anche vero, o almeno dovrebbero esserlo, che la politica, specie quella delle moderne democrazie, ha storicamente e tradizionalmente mediato per compensare le disparità “sociali”, ossia per non far sì che le classi “dominanti”, per ricchezza o per numeri, avessero il sopravvento e la supremazia sulle altre, e lo stesso ed eguale principio andrebbe pertanto applicato anche ai territori, attraverso forme di solidarismo ma pure di compensazione (se ad esempio la pianura necessita dell’acqua della montagna, tanto da auspicare la creazione di invasi per la sua raccolta e successiva distribuzione, alla seconda andrebbe riconosciuto di riflesso un qualche “ritorno”)..
Ma a parte questo aspetto “etico”, peraltro non secondario, se consideriamo la sproporzione numerica delle attività svolte in montagna rispetto a quelle della pianura, ossia la gran minore quantità delle prime, la loro defiscalizzazione non dovrebbe togliere un granché di risorse alle aree più popolate, e potrebbe anche essere, a conti fatti, proprio a costo zero, vista sul mero piano economico, perché il permanere nelle zone montane di attività che diversamente rischierebbero di “chiudere i battenti” riporterà poi introiti alle casse pubbliche, secondo la pari logica di chi vedrebbe con favore l’applicazione generalizzata dell’aliquota fiscale unica, al posto di quella progressiva, logica che troverebbe conferma nella avvenuta introduzione della cedolare secca per gli affitti abitativi la quale, da quanto ne so, avrebbe significativamente incrementato in quel settore le entrate fiscali – tanto che non manca chi vorrebbe vederla estesa anche agli affitti di natura commerciale, ecc…., cioè non solo abitativa – e a mio avviso sarebbe interessante conoscere l’opinione in merito delle Associazioni di categoria (visto che sono quotidianamente a contatto coi problemi dei rispettivi aderenti).
P.B. 15.04.2018
(P.B.)
La defiscalizzazione è un provvedimento che favorisce l’offerta. In Italia, e in montagna in particolare, c’è una crisi di domanda (pochi soldi in tasca, oppure disoccupazione; la gente non consuma). Se sono disoccupato, e quindi NON POSSO consumare, il fatto che ci siano più esercizi pubblici in zona non mi risolve il problema. Gli esercizi pubblici aumenteranno quando aumenteranno i potenziali consumatori, cioè la gente avrà un lavoro dignitoso, come dice la Costituzione, e soldi in tasca per consumare; non certo un ‘reddito da cittadinanza’ – meglio definibile ‘reddito della gleba’ – che è inferiore alla previgente indennità di disoccupazione e, di certo, non consente di vivere dignitosamente. Ma vorrei che fosse chiaro che la crisi di domanda ci sarà sempre: si chiama austerità, ed è il corollario necessario per tenere bassa l’inflazione, che deve essere bassa per favorire la competitività, che serve all’industria per esportare, altrimenti chiude. Il trattato di Maastricht la definisce: ‘economia di mercato fortemente competitiva’. Hitler, più semplicemente, la definiva così: “Popolo tedesco, esporta, o morirai”. In attesa di sentire le associazioni di categoria, intanto, il dato della GDO (Grande Distribuzione Organizzata) cioè i supermercati, segnala consumi in calo, chissà perché.
(Commento firmato)
L’aspetto etico dello Stato, che ha storicamente permesso di “mediare per compensare le disparità sociali”, è accuratamente descritto nella nostra Costituzione, prima nei principi fondamentali, poi nella cosiddetta ‘Costituzione economica’, che presenta le modalità per realizzare i principi enunciati. Non a caso, è fondata sul lavoro, perché è con un lavoro ‘dignitoso’ che il cittadino può sentirsi veramente tale (a meno che non viva di rendita, beato lui). Purtroppissimo, i trattati europei sono in palese conflitto, guarda caso, con la Costituzione. Non a caso, di recente, la Costituzione ha subito una serie di attacchi, con l’obbiettivo di neutralizzarne, appunto, la parte etica; il principale di questi attacchi è stata l’introduzione del pareggio di bilancio. Se oggi non sono possibili politiche di solidarietà volte ad eliminare le disparità sociali, è anche grazie a questi attacchi, non a caso sostenuti dalla grande finanza internazionale.
(commento firmato)
Mi sono fin qui astenuto dall’intervenire di nuovo perché non sembrasse esser diventato un confronto a due, tra lo scrivente e “commento firmato”, ma visto che nel frattempo nessun altro ha ritenuto di dire la sua, e dal momento che argomenti come lavoro ed economia mi paiono decisamente importanti, riprendo la parola per una ulteriore riflessione, in questo scambio di considerazioni col mio interlocutore.
Quando si discute di Europa entriamo nei cosiddetti “massimi sistemi”, tutt’altro che semplici da affrontare, e non a caso le opinioni in merito sono piuttosto articolate e spesso divergenti, anche per bocca degli esperti in materia, e volendo schematizzare le categorie di pensiero c’è chi la preferirebbe a due velocità, chi vorrebbe uscirne e chi invece non ha dubbi sul dovervi restare, e chi condizionerebbe la permanenza in Europa alla rinegoziazione degli accordi.
Proprio a quest’ultimo riguardo, e visto che è stata evocata Maastricht, mi sovviene di una personalità politica della Prima Repubblica che, temendo per le future sorti del Belpaese, propendeva per la revisione di quei trattati, e per venire ai tempi più recenti mi sembrano esservi Stati membri che si ritagliano spazi di sovranità, il che significa che un qualche margine di autonomia esiste ancora per le politiche nazionali.
Sempre in tema di occupazione, mi è capitato poi di leggere che in un Paese europeo andato da poco al voto i salari sarebbero aumentati del 10% e oltre, nell’arco degli ultimi anni, e una tale notizia, qualora avesse fondamento, varrebbe da conferma che possono promuoversi e prodursi condizioni per aumentare il reddito delle famiglie, e il loro potere di acquisto, e quindi far crescere la “domanda” interna (naturalmente bisognerebbe capire se i meccanismi produttivi di quel Paese sono adottabili pure da noi).
Da ultimo, è sicuramente vero che quando una comunità vede ridursi la propria capacità di spesa, ne soffrono di conseguenza anche i suoi esercizi pubblici e i cosiddetti negozi di vicinato – la cui presenza non è di certo ininfluente anche riguardo alla tenuta del tessuto sociale – al punto che qualcuno di questi può trovarsi costretto a dover “chiudere i battenti”, ma una volta erano in buon numero pur se v’era poca liquidità e il tenore di vita non era generalmente alto, forse per il motivo che i locali erano per solito di proprietà dell’esercente e le spese di gestione più contenute rispetto ad oggi, e si tratterebbe dunque di riproporre un po’ le condizioni di allora, giustappunto tramite la strada della “defiscalizzazione”.
P.B. 25.04.2018
(P.B.)
Se allarghiamo un poco la prospettiva, la defiscalizzazione di qualche onere è una goccia nel mare. E’ un po’ come dire che l’economia italiana sta crescendo. E come no? Di qualche zerovirgola per cento, dopo essere crollata ai livelli del secolo precedente. I ‘massimi sistemi’ non sono poi così complessi, se esaminiamo le strutture principali. Per quanto riguarda l’Europa, un buon numero di premi Nobel di Economia ha da tempo dichiarato che la moneta unica è disfunzionale e avrebbe quindi causato problemi politici. L’Europa dei trattati si basa sulla compressione dei salari e quindi dei diritti dei lavoratori, che sono la maggioranza della popolazione; quindi, perché regga politicamente, si dovranno comprimere anche i diritti politici. Di fronte a questa prospettiva, i dettagli perdono importanza. Il problema è che l’Europa ci è stata propagandata come un sogno intrinsecamente positivo, per cui ogni passo avanti (ci vuole più Europa, dobbiamo cedere sovranità) dovrebbe essere in sé positivo. La realtà, esaminata nelle sue strutture economiche, è molto diversa. A forza di sognare, ci sveglieremo in un incubo.
(commento firmato)
Sono d’accordo con “commento firmato”: una defiscalizzazione leggera non basta… dovrebbe essere una defiscalizzazione “massiccia”, e non solo alle imprese, ma anche alle famiglie. Mi spiego meglio: chi decide di vivere in montagna deve sostenere oneri molto alti, ad esempio, per raggiungere i luoghi di lavoro (carburante, auto ecc.) e i servizi sanitari e scolastici. Una manovra “massiccia” potrebbe essere appunto quella di abbassare consistentemente l’addizionale irpef statale per le famiglie che risiedono e hanno il domicilio effettivo nei territori montani. Per le imprese: nel nostro Appennino abbiamo (non solo quella) un’area artigianale comprensoriale da poco ampliata e urbanizzata: Fora di Cavola. Un programma di incentivazione/defiscalizzazione per imprese che vogliano insediarsi, eventualmente evitando tipologie troppo inquinanti, potrebbe avere successo (in passato e’ avvenuto per la Panaria, che da 20 anni da’ lavoro stabile a quasi 200 persone). Certo, per fare queste cose occorrono fondi importanti e soprattutto la volonta’ politica di salvare i territori montani, evitando al contempo l’eccessivo congestionamento di quelli di pianura.
(Michele Lombardi)
Un articolo di stampa di questi giorni riportava i dati forniti dal Centro Studi della Camera, riguardo agli sgravi fiscali in materia di recupero, ristrutturazione e riqualificazione energetica del patrimonio edilizio, e in quelle righe veniva pure indicato il sito consultabile al riguardo (si può ricercare tramite la voce “Dossier Am0051d”).
Stando alle relative cifre e stime, gli effetti di tale “defiscalizzazione” mi sembrano andare ben oltre una “goccia nel mare”, vuoi in termini di entrate per lo Stato, dal momento che si parla di un saldo attivo di miliardi di Euro, vuoi sul piano lavorativo visto l’alto numero degli occupati negli interventi messi in moto da tale incentivazione fiscale.
Gli effetti positivi sarebbero fra l’altro cresciuti in modo proporzionale alla maggiorazione delle aliquote detraibili, il che starebbe a dire che vi è diretta corrispondenza tra l’entità della defiscalizzazione e il beneficio indotto sul cosiddetto “Sistema Paese”, e proprio sulla falsariga di questo “esempio” concreto ritengo che il meccanismo andrebbe allargato.
Poi potremo ragionare di Europa, se uscirne, se starvi e come starvi, e potremo anche augurarci una defiscalizzazione “massiccia”, ma nel frattempo, se abbiamo uno strumento già collaudato, a portata di mano e che funziona, non vedo ragione per non impiegarlo nella maniera più ampia ed estesa possibile.
E naturale che qui occorre “innanzitutto la volontà politica”, perché di questo si tratta essendo la politica che stabilisce l’impianto normativo, ma qui saltano allora fuori due linee di pensiero abbastanza note e differenti, l’una favorevole alla riduzione del livello e prelievo fiscale, e l’altra di segno opposto (tanto da ipotizzare una tassa patrimoniale).
P.B. 27.04.2018
(P.B.)
Una defiscalizzazione massiccia avrebbe sicuramente effetti notevoli. Defiscalizzare significa che i cittadini hanno più soldi in tasca, e quindi consumano di più, quindi il PIL (il reddito complessivo della Nazione aumenta). Defiscalizzare, peraltro, significa anche meno entrate fiscali per lo Stato. Teniamo presente, però, che Monti è stato messo a governare, al contrario, proprio per ‘fiscalizzare’: doveva ‘distruggere la domanda interna, attraverso il consolidamento fiscale’. Quindi, defiscalizzare, significherebbe fare il contrario di ciò che ha fatto Monti. I casi sono due: o non ci sono più le condizioni che stavano alla base dell’intervento di Monti, oppure, defiscalizzando, si ripeteranno a breve le condizioni che hanno causato l’arrivo di Monti e, con lui, dell’austerità. Perché è arrivato Monti? Perché l’Italia era in crisi di debito estero (privato), cioè gli acquisti di merci tedesche superavano di gran lunga le esportazioni verso la Germania. L’unico modo di risolvere il problema, che, per inciso, prima dell’euro si risolveva riaggiustando i rapporti di cambio, ora bloccati dalla moneta unica e dalla BCE ‘indipendente’, si può risolvere solo con la politica fiscale, cioè impedendo ai cittadini di ‘consumare’; senza più soldi in tasca, smettono di comprare merci tedesche, la bilancia dei pagamenti torna in pareggio, e il problema è risolto. Infatti, è stato risolto. I cittadini sono tutti più poveri (soprattutto i meno abbienti, che diventano davvero ‘poveri’, come certifica l’ISTAT), ma non abbiamo più il debito estero. Alcuni modelli economici indicano che, se l’Italia cresce oltre lo 0,6% del PIL, a causa della cosiddetta ‘elasticità alle importazioni’, il problema puntualmente si ripresenterà; inoltre, l’aumento dei consumi farà aumentare i prezzi al consumo (cioè l’inflazione), rendendoci meno competitivi nelle esportazioni (in un regime di cambi fissi) e saremo daccapo. Perché prima degli anni ’80 il problema non esisteva e l’Italia, pur con una inflazione piuttosto alta, cresceva, fino a diventare la quarta potenza economica del mondo? Perché aveva a disposizione tutti gli strumenti tipici della politica economica: il tasso di cambio, la quantità di moneta, il tasso di interesse sul debito pubblico, la politica fiscale. Combinandoli insieme, si faceva fronte ai problemi e li si risolveva. Ora, con l’euro e la BCE indipendente, abbiamo a disposizione solo la politica fiscale. Ma, come è evidente, la politica fiscale, senza gli altri strumenti, non è in grado di risolvere i problemi, perché ne causa altri. Gli strumenti che, invece, ci mettono a disposizione Maastricht e Schengen sono rispettivamente la disoccupazione e l’emigrazione. Se un Paese europeo non è ‘competitivo’, importa merci e le sue fabbriche chiudono. I lavoratori saranno disoccupati, e quindi saranno disponibili a salari più bassi, oppure emigreranno all’estero, tanto, c’è Schengen apposta per questo. Questo è il meccanismo di aggiustamento previsto dai trattati europei. Quindi, quando parliamo di ‘defiscalizzare’ o di ‘consolidamento fiscale’, sotto ci sono questi meccanismi. Se vi piace…
(commento firmato)