Non so se dar credito alle coincidenze, ma ieri mattina ho incontrato casualmente un conoscente, che abita da queste parti e che mi ha chiesto, con toni un po’ preoccupati, quale fosse la mia opinione circa il drastico calo delle stalle avvenuto in questi anni, e mi ha poi fatto il conto di quelle di un tempo, unitamente al numero dei caseifici dell’epoca, ricordandomi inoltre le famiglie di reciproca conoscenza che erano allora dedite al lavoro della terra, nonché le attività commerciali che nel frattempo hanno chiuso i battenti, andando incontro alla stessa sorte delle prime, ossia delle stalle.
Dati zootecnici
Non mi è stato difficile dialogare sull’argomento col mio interlocutore, anche perché avevo appena letto un articolo di stampa che - con riferimento al nostro territorio regionale, almeno così mi è sembrato di poter intendere - parlava della chiusura, avvenuta nell’ultimo decennio, di quasi cinquemila allevamenti, tra quelli bovini, ovini e suini, con la scomparsa di oltre trecentomila capi di dette specie da reddito, e quantificava altresì il contestuale espandersi degli appezzamenti incolti rispetto ai coltivi e ai prati pascolo.
Tali dati “giornalistici” facevano peraltro il paio con quanto avevo osservato non molti giorni innanzi nel percorrere un tratto di medio ed alto Appennino, fuori dalla nostra provincia, dove mi era parso di notare un evidente e diffuso spopolamento, quanto ad abitanti, con borghi semivuoti e parecchie case apparentemente disabitate - pur se non in stato di abbandono, anzi spesso ancora ben tenute - e con pochi allevamenti ancora in funzione, per quanto si può vedere transitando lungo una strada, mentre anche colà il bosco mi è sembrato guadagnare via via terreno rispetto ai campi.
Non era del resto la prima volta che mi succedeva di fare una constatazione sostanzialmente analoga per altre aree appenniniche, zone che avevo conosciuto diverso tempo addietro in ben differenti condizioni, ossia molto popolate e piene di vita, nonché costellate di aziende agricole, e che ora non mostrano purtroppo rassicuranti segni di tenuta, e men che meno segnali di ripresa, e sufficiente ricambio generazionale, o meglio danno l’idea di rianimarsi a tratti o a “singhiozzo”, ovvero limitatamente al fine settimana e a determinati periodi dell’anno.
Una tenuta a metà
Mi viene da fare quest’ultima considerazione anche per il fatto che nonostante fossimo in pochi a desinare presso il ristorante dove ho sostato per il pranzo - ma d’altronde si trattava di un giorno feriale - ho nondimeno dedotto, conversando coi vicini di tavolo e col gestore, che per quella trattoria, come probabilmente per altri locali similari della zona, vi sono momenti o periodi che vedono un afflusso abbastanza nutrito di avventori, molti dei quali occasionali o di passaggio, del che non ci si può che rallegrare, anche perché se ne ricava che sono luoghi visitati e frequentati, vale a dire apprezzati.
Manca tuttavia una presenza stabile di residenti, ossia quel “tessuto” indispensabile per creare una comunità, coi suoi molteplici e positivi riflessi, tanto che per ricostruirlo c’è chi, memore del passato, e ritenendo che poco o null’altro sia riuscito a sostituire quel trascorso modello, vorrebbe puntare sul rilancio della zootecnia, o più in generale delle attività agricole, ma al riguardo non può ignorarsi che il loro abbandono avvenne per una concomitanza di circostanze “sfavorevoli”, economiche, sociali..., che andrebbero ora rimosse, da parte della politica e della società nel suo insieme, qualora si volesse intraprendere per l’appunto tale strada di rilancio.
Opinioni diverse
Ma si deve pure aver presente il pensiero di quanti, presumibilmente non montanari, ragionano un po’ diversamente, e sono dell’avviso che lo spopolamento della montagna non equivalga automaticamente al suo declino, perché la rinaturalizzazione di questi luoghi rappresenta a loro dire un buon investimento, che fa aumentare il numero di turisti, escursionisti…, ossia appassionati di vario genere, attratti da un ambiente più “selvaggio” e meno antropizzato, i quali porterebbero comunque economia, ancorché il loro soggiorno sia transitorio, e semmai incostante ed episodico, e non siano dunque in grado di “fare comunità”.
A fronte di queste due impostazioni, abbastanza dissimili tra loro, se non distanti, la politica e la collettività, ossia tutti noi, dovrebbero fare a mio giudizio una scelta, decidere cioè quale dell’una o altra opzione sia maggiormente da appoggiare e sostenere, ancorché il mettere in campo una progettualità concreta e realistica in materia possa non rivelarsi semplice, ma se ci si affida e ci si abbandona al fatalismo non dovremo poi stupirci e rammaricarci, in avvenire, se lo spopolamento della nostra montagna continuerà il suo corso, fino a divenire inarrestabile e irrimediabile.
(P.B.)
Per PB : http://www.redacon.it/2018/01/22/bologna-la-regione-presentato-documento-sul-progetto-montagna-del-latte-strategia-darea-dellappennino-emiliano/
(Enrico Bini)
Per Enrico: fornite un esempio pratico della ricaduta della strategia. Cordiali saluti.
(MA)
Gentile signor P.B, il 31 marzo del 2017 esce su Redacon l’articolo, “Sanità & dintorni in Appennino / Scoppia ora la bagarre del nuovo forno crematorio a Gatta”. In quell’articolo, tra l’altro, si legge: “La Regione Emilia-Romagna ha così individuato in Appennino il luogo idoneo per la realizzazione di un forno crematorio a basso impatto ambientale. Tra le motivazioni citate in progetto:
“a) la ridotta incidenza di abitanti per chilometro quadrato (da leggersi forse come agevolatore sinonimo di ridotte proteste, ndr?);
b) l’età media dei residenti piuttosto elevata (si stima che entro il 2050 saranno almeno 25.000 i montanari deceduti);
c) il contesto ambientale già degradato e non utilizzato (area artigianale di Gatta a ridosso di Poiatica);
d) le prospettive occupazionali che questo impianto genererebbe, pari a 8 unità lavorative (in sintonia con quanto previsto dalla ‘Strategia per le aree interne’);
e) la disponibilità della limitrofa discarica di Poiatica per lo stoccaggio delle ceneri residue dal ciclo di lavorazione (rifiuti speciali)”. All’item b) si dà un dato. Entro il 2050 saremo almeno in 25.000 a salutare. Da un articolo di ieri, che nel primo commento viene richiamato, apprendiamo che in montagna siamo in 34mila e sappiamo che hanno chiuso il punto nascita sull’ultimo dato che, se non ricordo male, erano le 153 nascite del 2015. Fatta questa premessa, è solo aritmetica: 153(prendendo l’ultimo dato in modo ottimistico) x 32 = 4.896, facciamo 5.000. Nel 2050 questa montagna avrà 14.000 abitanti. All’item d) c’è uno specifico riferimento alla “Strategia per le aree interne”. Ha letto le 106 pagine di quel pdf? Il 10% del finanziamento (2.900.000 euro) è stato destinato:
a) incremento del numero di visitatori annui dell’area;
b) incremento del numero di visitatori della riserva MAB Unesco”.
A pagina 44 di 106 di quel pdf. indovini cosa c’è… si ringraziano tra di loro. “Sereni”, come diceva uno di Firenze, nessuna rassegnazione. Hanno già tutto programmato sui loro ben definiti “percorsi” e ne fanno propaganda.
(Mv)
—–
Forse giova ricordare che l’articolo del 31 marzo 2017, cui fa riferimento il Lettore, per quanto verosimile, era il pesce d’aprile della redazione.
(red)
Circa l’articolo cui fa riferimento il sindaco-presidente, sempre su Redacon e dal titolo “A Bologna la Regione ha presentato il documento sul progetto Montagna del latte”, c’è da osservare che le due prime e relative opinioni sono abbastanza eloquenti ed indicative del clima di sfiducia e disincanto che si è andato via via diffondendo riguardo ad ogni tipo di annuncio, nel senso che la disillusione accumulata in questi anni fa sì che si attenda ormai di vederne materialmente il seguito, così da capire se e come si passerà poi dalle parole ai fatti (salvo minimizzare significato e peso di questi commenti, ma lo riterrei un errore). Per quanto mi concerne, io non voglio perdere l’ottimismo, o non essere quantomeno troppo pessimista, ma la prudenza è comunque d’obbligo e vale anche per me il principio di aspettare e comprendere come il progetto regionale si svilupperà nel concreto, e come inciderà sulla economia locale, essendo personalmente del parere che un territorio senza una economia consolidata e plurale, fatta cioè anche di un sistema produttivo e di attività primarie, con annesso indotto, rischia di indebolirsi e recedere, e semmai impoverirsi, fino a pregiudicare il proprio futuro.
(P.B.)
Visto che si parla di zootecnia, riporto un dato: prezzo latte crudo alla stalla in Baviera 2017 35,33 € cent/litro. Prezzo latte crudo alla stalla in Lombardia 2017 38,5 € cent/litro. Questo accade con l’Euro (che ha bloccato il cambio Lira/Marco a circa 1.000 lire per marco tedesco (per la precisione: DM 1,95583 ECU; Lira 1936,27 cioè 990 lire per un marco). Con ritorno al cambio a 1.200 lira/marco: prezzo latte crudo alla stalla Baviera 829,19 lire/litro; prezzo latte crudo alla stalla Lombardia 745,46 lire/litro. Fonte dati : Osservatorio CLAL. Lo sapete, vero, che l’Euro non è altro che un sistema di cambi fissi tra i Paesi dell’Unione Monetaria? Ora, mi sembra evidente che, per capire i termini della questione, sia necessario allargare il punto di vista. Il Trattato di Maastricht è un trattato di libero scambio; la caratteristica del libero mercato è di agire sulla base dei “vantaggi competitivi”, per cui ci sarà chi vince e chi perde. In parole povere: chi vince si prende tutto, chi perde diventa un “fornitore di manodopera” per il vincitore; fornire manodopera, in questo contesto, significa emigrare. E’ quello che è accaduto, per dire, dopo l’Unità d’Italia, tra Nord e Sud. Sapete che sono emigrati, di recente, in cerca di un lavoro dignitoso (come stabilisce la Costituzione), 500.000 (cinquecentomila!) giovani italiani diplomati e laureati? Considerando, appunto, i “vantaggi comparati”, il principale concorrente della Germania è l’Italia. Se non si è ancora capito, questa è una guerra (commerciale, per ora, ma pur sempre guerra) con morti e distruzioni. La perdita di PIL subita dall’Italia dopo l’ultima crisi internazionale e la successiva crisi determinata dall’austerità di Monti, è incomparabilmente superiore ai danni dell’ultima Guerra Mondiale, da cui ci siamo ripresi in pochi anni. Oggi, al 2017, dopo dieci anni, non siamo ancora ritornati ai livelli pre crisi. Lo spopolamento dell’Appennino non è che uno dei fenomeni legati a queste dinamiche economiche; essendo un’area più debole, la crisi arriva prima, e si paga con l’emigrazione.
(Commento firmato)
Dalla “fotografia” che ci consegna “Commento firmato” saltano inevitabilmente fuori concetti come libero scambio e libero mercato, concorrenza commerciale, ossia le regole non “protezionistiche” che regolano oggi i rapporti fra gli Stati sul piano economico, salvo poi avere non di rado l’impressione o sensazione che vi siano Stati che rispolverano alla bisogna l’interesse nazionale, la cosiddetta sovranità, il valore dei confini, ecc., lasciando di fatto gli altri col “cerino in mano”, come si usa dire.
(P.B.)
I trattati europei (Maastricht e Schengen) non sono altro che l’applicazione all’Europa dei principi classici del liberismo economico: libertà di circolazione di capitali, merci e lavoratori-merce. Il punto 3 del TFUE recita: “economia sociale di mercato fortemente competitiva”, dove il termine “sociale” sta lì come specchietto per le allodole dall’anima candida. Nel commento di P.B. non è chiaro se “rispolverare l’interesse nazionale” sia un passaggio positivo o negativo. La questione, fondamentale, è che i trattati europei, concepiti come applicazione del liberismo economico, si vanno a scontrare frontalmente con i principi della Costituzione Italiana. Se vogliamo pensioni, sanità, scuola, sicurezza, lavoro per tutti, seguiamo la Costituzione, che ci indica come fare per averli. Altrimenti, seguiamo pure i trattati europei, costruiti ad immagine della finanza internazionale. Basta osservare con attenzione chi li difende: J.P.Morgan, Goldman Sachs, il FMI, Confindustria, i proprietari dei principali giornali (ovvero, i grandi industriali). Se siamo convinti che gli interessi della maggioranza dei cittadini – che sono lavoratori dipendenti – coincidano con i loro, seguiamoli con fiducia. Altrimenti, poniamoci il problema. A proposito del “cerino in mano”: tra i più sfegatati sostenitori del libero scambio, c’è la Germania; ma la Costituzione tedesca è ancora più rigida di quella italiana, in materia di sovranità nazionale. In pratica, c’è chi fa il liberista (e ci guadagna) col cerino degli altri.
(Commento firmato)
Il volere “pensioni, sanità, scuola, sicurezza, lavoro per tutti” è sicuramente un’idea nobile e largamente condivisa, ma poi occorrono le relative risorse, e qui si fronteggiano e scontrano due diverse visioni o “filosofie”, l’una di segno ”liberista” e l’altra di stampo “statalista”, per usare due categorie di pensiero convenzionali e ben distinguibili, la prima delle quali non sembra entusiasmare “Commento firmato”, ma se, come lui dice, la maggioranza dei cittadini è rappresentata da lavoratori dipendenti, si può “tifare” per loro quanto si vuole, ma per avere occupazione sono comunque necessari i datori di lavoro. I quali datori di lavoro, se escludiamo la parte pubblica, non sono solo i grandi industriali, ma pure i titolari di medie e piccole imprese e attività di vario genere sparse sul territorio, rendendolo vivo e vitale, i quali “chiudono bottega” se vengono a mancare le condizioni economiche, fiscali, sociali, ecc., per poter andare avanti, portandosi semmai dietro in questo loro destino un corollario di mestieri esercitati in maniera autonoma, con tutte le note e indesiderabili conseguenze occupazionali, specie per le zone più deboli. Trovare l’equilibrio e la quadra tra le varie esigenze ed aspettative in campo non è sicuramente facile, ma io ricordo un tempo in cui si era riusciti a raggiungere un discreto bilanciamento e una certa qual compensazione tra le spinte o tendenze “liberiste” e quelle “stataliste”, con un benessere abbastanza diffuso, e dove la competizione e le “eccellenze” riuscivano a convivere con la “normalità”, e riguardo al cosiddetto” interesse nazionale” io credo che non faccia male, sempre nella giusta misura e dose, anche perché può aiutare a non rimanere col “cerino in mano”.
(P.B.)
Il tempo di cui si ricorda il signor P.B. è il tempo della Costituzione, fondata, appunto, sul lavoro. La Costituzione si fonda sul lavoro e prosegue enunciando una serie di articoli, che gli specialisti chiamano la “Costituzione economica”; è la parte in cui i principi vengono declinati in una serie di strumenti adatti ad applicarli. Tra questi articoli, per esempio, non c’era il “pareggio di bilancio” (aggiunto poco tempo fa). Quel tempo è finito (basta dare un’occhiata ai fondamentali macroeconomici) nel momento in cui è stata adottata la moneta unica, cioè un sistema di cambi fissi tra le valute europee. Nel momento in cui si verifica una crisi esterna, non potendo svalutare la moneta per riprendere competitività sui mercati internazionali, bisogna fare la cosiddetta “svalutazione interna”, cioè abbassare i salari. L’Italia è da sempre un paese manifatturiero esportatore; con le esportazioni si guadagnano i capitali necessari per comprare le materie prime e l’energia e rimane in sostanziale equilibrio nella bilancia dei pagamenti. Dunque, non potendo regolare il cambio, per sopravvivere e far riprendere le esportazioni, deve svalutare i salari, cioè “fare le riforme”. A questo scopo sono servite le modifiche nel mercato del lavoro: il jobsact innanzitutto, cioè la precarizzazione del rapporto di lavoro, in modo da “convincere” i salariati ad abbassare le pretese. Allo stesso scopo, è necessario tagliare i salari della pubblica amministrazione, nonché il salario differito (cioè le pensioni) e integrativo (cioè la sanità, il welfare). Tagliando i salari si riprende competitività e le esportazioni ripartono. Purtroppissimo, se la gente ha meno soldi in tasca compra di meno sul mercato interno, cioè, come si dice, cala la “domanda integrata”, quindi le imprese che lavorano per il mercato interno producono di meno, sapendo di non vendere, quindi si crea disoccupazione e i disoccupati hanno ancora meno soldi in tasca dei salariati con meno salario. È palesemente un circolo vizioso, in cui sopravvivono solo le imprese esportatrici, ma non i lavoratori che vi sono impegnati, perché hanno il lavoro, ma il salario è calato. Indovinate chi ci guadagna, in tutto questo giro? Chi ci rimette, invece, è del tutto evidente: i lavoratori dipendenti, che avranno meno salario, meno pensione, meno welfare, condizioni di lavoro più pesanti, lavoro precarizzato. Quindi ci sarà meno risparmio, non si farà il mutuo per la casa, i giovani non metteranno su famiglia, ovvero emigreranno per cercare un lavoro dignitoso, in un altro Paese che non è il loro. A questo serve, appunto, Schengen: a garantire la libera circolazione del lavoratore-merce. In realtà, la moneta continua a svalutare-rivalutare; ma lo fa a livello europeo: nel 2014 l’Euro ha svalutato sul Dollaro, in pochi mesi, di circa il 30%. Ve ne siete accorti? Gli stipendi sono calati improvvisamente del 30%. I prezzi sono aumentati improvvisamente del 30%. Il problema è che l’Euro non risolve gli squilibri interni all’Eurozona: per la Germania, l’Euro è un Marco svalutato; per l’Italia, è una Lira sopravvalutata. Quindi, per noi è conveniente importare dalla Germania, mentre per la Germania non è conveniente importare dall’Italia. Dunque, anche su questo fronte, le nostre imprese chiudono; importiamo Audi in quantità e la Fiat chiude Mirafiori e va in America. Non è bellissimo? È l’economia di mercato fortemente competitiva, come dice il trattato di Maastricht. È l’economia in cui, per sopravvivere, devi distruggere l’economia del tuo vicino e il tuo mercato interno. Tecnicamente, si chiama “mercantilismo”. In queste condizioni trovare la quadra e ritrovare i bei tempi del “discreto bilanciamento” è un’impresa disperata. Le risorse ci sarebbero, perché un Paese sovrano stampa moneta, fa debito quando è necessario per far ripartire l’economia, lo diminuisce quando l’economia tira. Ma tutto questo, con l’Euro, non si può fare; l’Euro lo stampa la BCE (ne sta stampando migliaia di miliardi, attualmente, con il QE); quella stessa BCE che ci fa la morale per il deficit al 3%, mentre la Francia ne fa di più da anni. Quindi, dalla fine del discorso, come sempre, possiamo scegliere, perché fino a che esiste la politica, si può scegliere: l’Euro e lo spopolamento, oppure uscire, e ritrovare i bei tempi del “bilanciamento”, della normalità, del benessere diffuso.
(Commento firmato)
L’epoca cui mi riferivo non è quella che intende “Commento firmato”, ma per approfondire l’argomento entreremmo a piè pari nelle questioni politiche, cui di certo non mi sottrarrei, senonchè non mi parrebbe opportuno che queste mie riflessioni sullo spopolamento della montagna si tingessero di politica, o se ne tingessero troppo, vuoi perché il discorso è a mio parere più ampio e articolato, vuoi perché, riguardo alla politica, non mancheranno di sicuro le occasioni per tornarvi sopra.
(P.B.)
Mi riferivo agli anni compresi tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni ’70. Dall’inizio degli anni ’80 si manifestano le politiche liberiste e globalizzatrici, da una parte e, dall’altra, il loro recepimento nella politica italiana; vedi, ad esempio, il famoso “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, che avrà come conseguenza (lo testimonia Andreatta, padre del “divorzio”, in una famosa intervista) l’aumento progressivo del debito pubblico. Ad ogni modo, nel caso, ci torneremo sopra perché, fino a che ci saranno alternative, ci sarà politica. Il problema nasce quando qualcuno afferma che “non c’è alternativa”. A quel punto, la politica è morta e inizia il “regime”.
(Commento firmato)