Antelami - Ottobre – Domo di Parma
Il mestiere del maestro
Quale fosse l’impatto di un maestro inviato ad insegnare nelle remote località dell’Appennino lo possiamo dedurre dal racconto di Aldo Lugli sul numero 57 di REGGIOSTORIA (Nº 4, Ottobre – Dicembre 1992, pag. 14 e seguenti).
“Nessun mezzo di trasporto arrivava in quel borgo e si doveva percorrere dall’ultima fermata della corriera la bellezza di sei chilometri a piedi…”. “Debbo riconoscere, e questo per tutto l’anno scolastico, che quella gente semplice che aveva lavorato tutta la vita e aveva sofferto forse anche la fame, fu con me sempre gentile e buona e cercò di sollevarmi dalle difficoltà di quella vita primitiva”.
“Per una scala di legno si entrava nel piccolo locale disadorno: la mia aula, con una vecchia stufa a legna, i banchi uniti uno all’altro senza alcun passaggio. Un traballante tavolino serviva da scrivania”.
“I miei scolari, circa una trentina tra maschi e femmine di tutte le età, mi aspettavano e mi scrutavano come si guarda un forestiero che sarebbe stato il loro maestro”.
“I miei bambini erano molto simpatici e anche buoni e generosi come tutta la gente di montagna e cercavano di aiutarmi in tutti i modi per districarmi da quelle ristrettezze”.
Solo chi riusciva a vedere nel mestiere del maestro una missione poteva sopravvivere fino al termine dell’anno scolastico e raggiungere risultati di enorme soddisfazione, mentre chi lavorava per arrivare al ventisette del mese si preoccupava ben poco di trasmettere agli alunni il desiderio di imparare e la voglia di emanciparsi. I primi vengono ricordati ancora a distanza di tanti decenni perché riuscivano a scorgere sotto quei miseri stracci, sotto quella teste rasate a zero, un seme da coltivare e fare crescere, mentre non hanno lasciato memoria di sé i secondi, se non come causa di tempo perso.
Scolaresca di Rosano nel 1922 (Arch. Nadia Schenetti)
Le pluriclassi cui eravamo condannati rallentavano di molto lo svolgimento del programma. Ma l’insegnate accorto sapeva sfruttare l’istinto di solidarietà latente in ogni ragazzo impegnando i più grandicelli quali assistenti per seguire i piccoli, mentre il maestro cercava di procedere col programma di quelli intermedi: “Bisognava conoscere molto bene le materie di ogni classe, ma io facevo anche un po’ di confusione con la correzione dei compiti, dei temi, le interrogazioni, le spiegazioni ai più grandi, mentre i più piccoli dovevano imparare l’alfabeto: spesso i ragazzi di quinta aiutavano quelli di prima, mentre correggevo i compiti e interrogavo gli altri di terza”. In questo forse erano avvantaggiate le maestre perché guidate dall’istinto materno e, per natura, più intuitive e perspicaci. Non di raro esse dovevano sostituirsi alle mamme ove queste non arrivavano o per poca intelligenza o per mancanza di mezzi. E a noi non pareva vero essere oggetto di interesse da parte dell’insegnante.
“Essere maestro per Giuseppe Casini era un’autentica missione – ricorda Luciano Rondanini che fu suo scolaro – e insegnare significava proprio lasciare un segno… Questo attaccamento non si arrestava di fronte ad alcuna calamità”. [Da TUTTOMONTAGNA Nº 43, pag. 38].
Al bên
Santa Maria dei poveri di Bologna. La chiesa fu sede, nel 1320, dell'oratorio di Santa Maria delle Laudi.
Passò nel 1576 alla Compagnia della Regina dei Cieli, ma il popolo la definì Santa Maria dei Poveri.
La chiesa è stata ricostruita intorno al seicento mentre la facciata ha dei richiami ottocenteschi.
Madunîna d’i purèt
Il testo propone tre momenti della nostra società: il periodo anteriore al boom economico, quando il lavoro della terra dava a mala pena da sopravvivere ma non c’era altro, poi quello dopo la ricostruzione, quando arriva il benessere e la gente va ad abitare in città. Ma scompaiono valori morali importanti. In fine una supplica.
Madunîna d’i purèt,
quêrca volta a V’srà gnû in mênt
che un puchîn i’ V’ s’arvišèma:
túta la vìta piên da stênt,
nòta e dì ch’i tribulèma,
ma, a la fîn, cun quâl efèt?
Pu’ a rivè la bèla vìta:
sôld in pú dal necesàri,
ma per chiêtre? Ansûn rispèt!
Drê a la via l’è un calvàri:
preputênsa e malavìta,
tân-c suprûš e tân-c dispèt!
Dês ‘na mân a stâr in pê
quand a piöv, quand a tempèsta!
Tgnîs in fila int al sintêr
d’una vìta sâna e unèsta!
E cul dì ch’ rivarà l’ûra
d’ fâr i cûnt cun l’ešistênsa,
Madunîna, aî pasiênsa,
m’tîs a quêrt, m’tîs al sicûr!
[Madonnina dei poveretti, / qualche volta Vi sarete accorta / che un pochino Vi rassomigliamo. / Tutta una vita pieni di stenti, / notte e giorno a lavorare, / ma, alla fine, con quale risultato? / Poi arrivò l’abbondanza: / soldi in più del necessario, / ma per gli altri? Nessun rispetto! / Lungo la strada è un calvario: / prepotenza e malavita,/ tanti soprusi, tanti dispetti! / Dateci una mano a restare in piedi / quando piove, quando grandina! / Manteneteci saldi sul sentiero / di una vita sana e onesta. / E quel dì che verrà l’ora / di fare i conti con l’esistenza, / Madonnina, abbiate pazienza, / metteteci al coperto! Metteteci al sicuro]!
Filastrocca
La campâna d’ San Simûn
Din, dûn, din dûn,
la campâna d’ San Simûn.
I’ èra me ch’i’ la sunêva:
pân e vîn i’ m’ guadagnêva.
I’ m’ guadagnêva un pâr d’ capûn
da purtâr al mi’ padrûn.
‘l mi’ padrûn l’èra sòp
ch’a gh’ caschêva la stanga adòs.
[Din don, din don, / la campana di San Simone. / Ero io che la suonavo: / pane e vino mi guadagnavo. / Guadagnavo un paio di capponi / da portare al mio padrone. / Il mio padrone era zoppo / e gli cadeva la pertica addosso ...].
In una versione diffusa più verso Felina e Carpineti, proposta da Giovanelli, troviamo questa variante:
‘l mi’ padrûn l’è tanto màt
ch’a m’ dà adrê cun un rambà-c,
e la serva malandrîna
la m’ dà adrê cun la sampîna;
e me salta šú per l’ôrt:
i’ m’incûntre un cavàl môrt;
e me s-ciàpghe ‘l gamb deddrê
e po’ fàgh dû scavercê;
e po’ int al gamb de dnâns
i’ gh’ho fat un pâr ‘d guânt.
[Il mio padrone è tanto matto / che mi rincorre con un randello, / e la serva malandrina / mi corre dietro col ferro della stufa. / E io salta giù per l’orto: / m’incontro un cavallo morto. / E io gli spacco le gambe posteriori / e poi le uso per costruire due trampoli; / e poi dalle gambe anteriori / vi ho ricavato un paio di guanti].
Con questa puntata termina la serie di riproposte dal volume Il profumo della mia terra.
Ringrazio tutti coloro che hanno avuto la pazienza di leggere quanto proposto
e chiedo scusa se a volte sono stato noioso.
Grazie, Savino, per l’impegno messo nel cercare di conservare vivi i ricordi del tempo che fu. Chi non ha radici non ha futuro.
(Ivano Pioppi)
Grazie a Lei, Ivano. Il mio impegno è quello di tenere vivi i valori dei nostri antenati: onestà, rispetto, laboriosità e solidarietà. E a loro tutto questo comportava molti più sacrifici che a noi.
(Savino Rabotti)