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Il profumo della mia terra / Ottobre 1ª parte

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Ottobre (Duomo di Otranto)

 Il mese della semina, il mese che programma un anno di lavoro e di speranze. La coltura, con la pioggia e il sole, è diventata più farinosa. Una passata con l’erpice per asportare le erbacce rimaste in superficie e dare al terreno un andamento più uniforme. Uno sguardo indagatore verso l’uva ormai pronta. E, quando il lavoro dei campi lo permette, via a raccogliere qualche cavàgn di castagne.

Con ottobre arrivava anche l’inizio della scuola. L’entusiasmo, per la maggior parte di noi, non era al massimo, un poco per colpa di quel modo di fare degli adulti che consideravano la scuola più un perditempo che altro, e un po’ anche per quel clima annoiato che il tempo ci propinava.

La  semina

Appena il terreno risultava idoneo si partiva: davanti il rešdûr con appeso al braccio sinistro il minèl pieno di semente e il braccio destro che vi si immergeva, raccoglieva una bella presa di grano e poi la spandeva a semicerchio, precisa, uniforme. Un pògn a spàj ogni dû pàs, ci ricorda Lidia Grisanti, un pugno ogni due passi, a ventaglio. E anche per questo attività contava l’esperienza, la capacità di sciogliere lentamente le dita per permettere alla semente di defluire in quantità costante.

Quando il seminatore era avanti un bel tratto si partiva con le mucche e l’erpice, quello dai denti piccoli, chiamata Rebghîna, che, smuovendo il terreno solo in superficie, copriva i semi quel tanto che era necessario perché il grano potesse germogliare e gli uccelli non se lo mangiassero. Dopo che tutto il campo era stato passato, magari completando col rastrello o la zappa i punti ove non era arrivato l’erpice, si sganciava quest’ultimo sostituendolo col l’aratro di legno, (l’Arâ da la pèrdga), e si tracciavano dei solchi in obliquo per fare defluire l’acqua piovana ed evitare frane e smottamenti, più facili in un terreno appena arato.

È   ora   di   vendemmiare

Oggi la vendemmia l’abbiamo dovuta anticipare parecchio. Un tempo, almeno da noi a metà collina, la si faceva tra settembre e ottobre. E che l’uva è matura se ne sono accorti anche gli uccelli che corrono a stormi sui filari causando le ire del padrone della vigna, costretto a scacciarli con urli, spari e altri rumori.

Nelle aie o sulla strada davanti a casa compaiono botti e tini, mastelli e barili che vengono messi a bagno perché diventino stagni al momento dell’utilizzo. Bisogna partire per tempo, in modo che il legno si impregni bene e si dilati impedendo qualunque trasudazione o perdita. Poi si sistema la cantina: Botti tutte in fila, tino al loro fianco e a disposizione söj, bigonce, mastelli, lûdra, ludrèt, cavalletto per tenere in equilibrio la ludra sopra le botti, e quant’altro può essere necessario o anche solo utile.

Il signor Vighi bagna i tini per renderli stagni – 1970 circa – (Foto Ave Govi).

 Oggi l’operazione della vendemmia è facilitata dalla tecnologia e dal modo diverso di coltivare la vite. Una volta era più laboriosa. Stabilito quando partire si preparavano gli utensili necessari. Sul bersiòt veniva montato il tinèl fissandolo, in piedi, con le funi. Normalmente il tinello era munito nella parte superiore di tre orecchie che permettevano di bloccarlo al rudimentale biroccio. Per rendere più solidali i due elementi le funi di ancoraggio venivano ritorte con bastoni lunghi una trentina di centimetri abilmente fermati al recipiente stesso.

Il tinello altro non era che un piccolo tino, più pratico degli enormi tini entro cui si metteva l’uva a fermentare. Nell’Appennino più a sud lo chiamano tinella. Era sfruttato almeno per due funzioni. La prima era di trasportare dal campo alla cantina l’uva appena vendemmiata, quella rossa per fare il vino da tutti i giorni. Esaurito il compito di mezzo di trasporto lo si riportava sui tralicci a fianco dei grandi tini e vi si poneva dentro l’uva bianca, quella speciale, normalmente in quantità minore, insufficiente a riempire un tino normale.

Un buon bicchiere di moscatello richiedeva maggiore attenzione del lambruschino comune. Ma diventava poi il vanto del cantiniere quando ne poteva offrire un assaggio agli amici i quali, o per convinzione o per opportunità, ne tessevano l’elogio e lodavano il produttore. E questi a volte si commuoveva a tal punto da offrire un bis agli ospiti per verificare se quanto detto era autentico.

Lungo i filari si potevano osservare gli scalèt, tipici, a tre piedi, con appeso il canestro trattenuto da un gancio di legno, il rampîn. I grappoli venivano posti con cura all’interno del canestro fino a farlo quasi traboccare, ma facendo attenzione che non si schiacciassero. Quando era pieno lo si andava a versare dentro il tinello. Qui non occorreva più tanta cura: il tinello tratteneva l’eventuale liquido dovuto allo schiacciamento e, a casa, lo si recuperava coi mastelli o i secchi. Le cassette disposte lungo i filari sono arrivate poco dopo; oggi addirittura le si lasciano sul rimorchio e la vendemmia viene fatta col trattore in movimento, (logicamente con le ridotte), lasciando le persone sul carro a staccare i grappoli e riporli nelle cassette.

Le complicazioni arrivavano al momento di vuotare il tinello: tutto il contenuto doveva essere travasato nel tino evitando il minimo spreco. Allora si ricorreva ai Söj. Ma anche qui le tecniche cambiano a seconda delle località, della cultura locale, delle materie prime a disposizione, dell’inventiva dei residenti nel costruire attrezzi finalizzati a diminuire la fatica.  Mentre da noi predominavano i grandi mastelli (detti Söj o Söja), che richiedevano due persone per sollevarli, in altri posti si parla di Bigonce (o Bigûnge), molto più pratiche da manovrare, di Mastèla (un recipiente ovale, basso, adatto per infilarlo sotto i tini), rigorosamente in legno di castagno, a doghe, e soggetto a sfasciarsi d’estate se non lo si teneva prudentemente a bagno.

Intanto siamo arrivati a casa col tinello pieno d’uva. Inclinandolo con garbo si porta la bocca ad una altezza adeguata agli operatori. Poi, con un facsimile di forcone uncinato (che, di fatto, era un forcale ormai sfruttato e consunto cui venivano ripiegati i rebbi a forma di rastrello), l’uva viene trasferita prima all’interno dei mastelli, poi riversata nei tini. Queste operazioni si ripetono fino a quando tutta l’uva è sistemata, o, perlomeno, fino a quando non ne è stata raccolta una quantità tale da consigliare la pigiatura. In caso di raccolto abbondante si faceva una prima pigiatura e, a distanza di una quindicina di giorni, una seconda. Il che permetteva la maturazione anche all’uva non ancora al livello giusto.

Un piccolo particolare, ma importante nell’uso di allora: quando si partiva per staccare dal racemo l’uva bianca si stava attenti a selezionare i grappoli integri. Invece di tagliarli vicino al picciolo si staccava una parte del pollone, una quindicina di centimetri in tutto, ben distribuito ai due lati del picciolo. A casa poi si appendevano alle travi del granaio oppure, in mancanza di questo, nelle stanze da letto e lì si lasciavano appassire per servirli alla cena dell’ultimo dell’anno. Si credeva che mangiare alcuni acini d’uva in quella circostanza portasse fortuna. Non ho mai potuto costatarne la verità!

La   mostatura

Riempiti i tini a sufficienza si partiva per la pigiatura. E quasi sempre toccava ai giovani formati. Cercavano un paio di bragotti corti e, dopo la rigorosa pulizia, entravano nel tino e cominciava una danza monotona, cadenzata dal rumore di acini schiacciati, di spruzzi, col solletico ai piedi provocato dalle graspe che faceva accelerare la danza. Quando il contenuto del tino era diventato una poltiglia uniforme l’addetto alla pigiatura usciva e il tutto veniva trasferito nel grosso tino, poi lasciato fermo per una decina di giorni, il tempo necessario alla fermentazione, che trasformava il mosto in vino. Se si voleva produrre un vino dolce lo si lasciava fermentare di meno, di più se si preferiva il brusco.

La   švîna e la torchiatura

Durante la fase di fermentazione, dopo che le vinacce si erano ben gonfiate fino a formare un cappello sopra il tino, il cantiniere passava a spillare un bicchiere di mosto. Era la maniera per capire quando sospendere la fermentazione e passare il vino nella botte. A questo punto era il turno dei mastelli, dei caldarini (preferibili quelli di rame, si pulivano meglio!) di grossi imbuti in legno o in lamiera zincata. Secchio dopo secchio il vino passava dal mastello sotto il tino all’imbuto sopra la botte. Ogni tanto una breve pausa, e con le nocche si percuoteva il fondo della botte per scoprire, in base al rumore, il livello all’interno. Dentro alla botte il vino sarebbe rimasto fino ad esaurimento, sperando che accadesse il più tardi possibile.

Il contadino sa che occorre evitare ogni spreco. Aggiungendo un goccio d’acqua alle vinacce si può ricavare un surrogato del vino che, in periodo di poco sforzo fisico, può bastare a togliere la sete, e per di più, data la qualità, non invita ad esagerare. A tale scopo le vinacce già liberate dal mosto vengono passate nel torchio in modo che anche gli acini sfuggiti alla pigiatura restituiscano integro il loro contenuto. Chiaro che questo tipo di vino andava tenuto a parte rispetto a quello normale, e l’utilizzo era esclusivo dei componenti della famiglia. Sarebbe stato indecoroso offrirlo agli ospiti. Ce lo ricorda con precisione Isaia Zanetti quando mette a confronto lo stile di vita dei politicanti e quello dei lavoratori dei campi:

Pròpia a chi ch’a n’ fa mai gnênt

 vîn d’ butìglia e pân d’ furmênt,

 e pr’i purîn ch’i’ han lavurâ

 pân d’ mestûra e vîn turciâ.

(Proprio a coloro che non fanno mai nulla / vino buono e pane bianco; 

e per quei poveretti che hanno lavorato / pane di mistura e vino torchiato).

E anche le vinacce pressate trovavano il loro riciclaggio naturale.  Dopo aver smontato le pareti del torchio venivano separate in due blocchi e messe a seccare al sole.  Durante l’inverno, all’interno di capienti stufe avrebbero prodotto calore a lungo, spargendo intorno l’aroma del mosto e illudendo l’eventuale sonnacchioso contadino di trovarsi ancora al tempo della mostatura.

Ragazzi, si va a scuola!

 L’inizio di ottobre, ai nostri tempi, segnava anche l’avvio dell’anno scolastico. E quante sensazioni contraddittorie! Frequentare la scuola da un lato significava sottrarre forze al lavoro. Certo non al lavoro pesante, ma di sicuro al pascolo, alla custodia dei fratellini, all’approvvigionamento di legna per il focolare o per il forno, a tante altre piccole mansioni.

Lezione all’aperto: la classe della Maestra Wilma nel 1966 (Foto Wilma Santi)

Serpeggiava l’idea che la scuola fosse inutile poiché sottraeva forze alla coltivazione dei campi. Il cambio di mentalità si è verificato grazie alla necessità di informazione, ma ritengo che un buon scrollone lo abbia dato il comportamento di alcuni insegnanti. Adeguarsi alla vita quotidiana dei nostri borghi non era facile per chi veniva dalla città o da altri centri più evoluti. Trovarsi all’improvviso in luoghi dove ancora mancava l’acqua, la luce, la strada, dove la gente salutava ma non si fermava a scambiare due parole, doveva essere considerata più una punizione che un impiego. La maggioranza di loro si adattava comunque a condurre una esistenza uguale alla nostra, accontentandosi di una stanzetta ripulita e di una cucina comune alla buona. Questo comportamento e l’interesse dimostrato per ogni singolo alunno faceva sì che il ghiaccio iniziale si sciogliesse e l’insegnante, alla fine, venisse considerato un amico più che un pubblico funzionario. Noi ragazzi poi lo sentivamo ancor prima perché vedevamo in lui un ideale da imitare e da emulare, un campione che oltrepassava i confini della famiglia per diventare l’ispiratore del progresso, della saggezza, dell’umanità comprensiva. Era il “nostro” o la “nostra” maestra, in barba a quanto i grandi potevano maliziosamente insinuare per soffocare il desiderio di istruirci. Del resto solo chi prendeva il lavoro come una missione poteva resistere un intero anno con le pluriclassi che spaziavano dalla prima alla quinta elementare, magari con qualche ripetente grande e grosso ma chiuso mentalmente; con l’esigenza di coordinare simultaneamente ogni classe in modo che non interferissero sullo svolgimento del programma delle altre.

Oltre a ciò, in certi casi, la maestra doveva anche provvedere a tenere accesa la stufa e pulita l’aula. E in tempo di guerra aveva anche il compito di preparare il cibo perché la gestione della mensa scolastica era affare suo. Possiamo anche aggiungere che al termine della lezione il più delle volte la maestra doveva sorbirsi i suoi chilometri per raggiungere la propria dimora se non aveva trovato alloggio nella frazione. A primavera e in estate la cosa poteva anche essere gradevole (paura di brutti incontri a parte), ma in inverno e col brutto tempo in genere significava dovere pestare neve o fango per tutto il tragitto. Era un onore per gli scolari se l’itinerario della maestra coincideva col proprio: ci si sentiva in qualche modo cavalieri e responsabili della sua sicurezza.

Le scuole di montagna erano alquanto disagiate subito dopo la guerra, e l’Ambasciata americana distribuiva loro aiuti. Ecco la lettera di congratulazione del Foreign Service dopo che una delegazione era stata in visita alla scuola del Fariolo.

 E come vedevamo noi la figura del maestro o della maestra? Un qualcosa di inarrivabile, ma, allo stesso tempo, da emulare e da non irritare.

LA   MI’  MAÍSTRA

 La mi’ Maìstra l’èra ‘na sgnurîna

dai cavî biùnd cme l’angiulîn  ch’gh’è in cêša,

cun i’ ò-c celèst cme chi d’ la Madunîna,

e  ‘na cêra muvšîna cme ‘na röša.

      Nujêtre? Un branch ad sìngher, mâl vestî,

     brâghi cûrti, trunchèt impaciugâ,

     ‘na súca  plâda a brìch, da fâr pietâ,

     ma tanta vöja d’ crèser istruî.

 Quand al côši gli andêvne un pô d’ travêrs

da impîr di föj ed crûši rúsi e blú,

la Maistrîna la s’ tireva sú

spiegand che i sbàli i n’ên pu’ mia têmp pêrs!

      A n’è pasâ dal têmp!  E l’ešistensa

     la s’è rimpîda d’ delušiûn e mirà-g!

     Sgnûra Maìstra, gh’âla ancúr pasiènsa

     d’ardâs ‘na drìta?  D’ fâs un pô d’ curà-g?

La mia maestra era una signorina / dai capelli biondi come l’angelo che sta in chiesa; / dagli occhi azzurri come quelli della Madonna / e un colorito vellutato come una rosa. -- Noialtri? Un branco di zingari, vestiti male, / pantaloni corti, zoccoli infangati, / la testa rasata a zero da fare pietà, / ma con tanta voglia di crescere istruiti.  -- Quando le cose andavano un poco di traverso / sì da riempire pagine di croci rosse e blu, / la Maestrina ci rincuorava / spiegando che gli errori poi non sono tempo perso.   --   Ne è passato di tempo! E l’esistenza / ha accumulato delusioni e miraggi! / Signora Maestra, ha ancora pazienza / di ridarci una dritta? Di farci un poco coraggio?