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Diario di viaggio: Panama. Reportage di Matteo Manfredini

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Panama

Con biglietti aerei che costano poche centinaia di euro, la lingua inglese che riesce a diffondersi anche nelle aree più remote del globo e un modello occidentale che, assieme ai suoi pregi e difetti, sta seducendo tutto il mondo, diventa faticosa la ricerca di luoghi in cui il turismo consumistico (e a volte selvaggio) non è ancora approdato e contemporaneamente scoprire culture che stanno percorrendo un cammino diverso dal nostro.

Un risultato già incoraggiante è avere la fortuna di visitare terre che conservano una certa autenticità, i cui abitanti non solo hanno respinto (anche parzialmente) il modello occidentale ma sono riusciti a creare un’alternativa sostenibile (almeno per il momento).

La capitale dello stato del Panamá, Panama city è una città moderna, più simile a New Orleans che alle altre capitali centro americane, in cui i tostones (fette di platano fritto due volte), si pagano in US Dollars e l’influenza Yankee si percepisce già dopo pochi minuti in aeroporto. Una metropoli fatta di grattacieli, di banche, di strade intasate dai taxi, di enormi cartelloni pubblicitari che invitano a consumare il sogno americano, le cui spiagge sono contornate da un ordinato lungomare che si riempie di turisti durante le vacanze primaverili.

Isole Kuna Yala

Eppure con un paio d’ore di fuoristrada verso nord est, tra i tornanti immersi nella rigogliosa giungla tropicale e con un’altra ora su una piccola imbarcazione di pescatori, si giunge nella comarga (distretto) dei Kuna Yala, una popolazione nativa americana che accoglie, con moderazione, i turisti nelle loro splendide 365 isole a pochi chilometri dalla costa. Un arcipelago isolato, un piccolo paradiso lontano dai percorsi turistici, come ci viene confermato da tutte le persone incontrate a Panama City.

Isole Kuna Yala

Dopo una levataccia e più di due ore di fuoristrada interrotte da una piccola pausa all’ultimo supermercato disponibile per fare scorte di acqua e generi di prima necessità, giungiamo con le prime luci dell’alba all’attracco del porto. Ma il molo da cui salpano le barche si trova all’imbocco di un fiume in cui l’acqua salmastra e paludosa non lascia presagire nessun spettacolo della natura, solo dopo un’abbondante mezz’ora, quando ci allontaniamo dalla costa, il mare si apre e diventa più chiaro. Navighiamo accanto a piccole isole traboccanti di costruzioni precarie, realizzate con materiali di fortuna, in cui sembra la popolazione non viva in condizioni particolarmente confortevoli. Il capitano della piccola imbarcazione ci dice che é una tra le isole più popolose del distretto, sede di scuole e altri servizi essenziali, intanto accanto a noi, decine di lance fanno la spola, cariche dei più svariati generi alimentari, da un capo all’altro dell’arcipelago che si perde all’orizzonte. Più ci allontaniamo dalla costa più le isole si fanno numerose, sparpagliate, alcune dimora di un paio di palme solitarie e una capanna.

Isole Kuna Yala

Quando sbarchiamo sull’isola che ci è stata assegnata, grande quanto due campi da calcio, non possiamo fare a meno di notare alcune donne sedute che ci osservano, vestite dei loro abiti tradizionali: lunghi bracciali di perline colorate su avanbracci e caviglie, le tradizionali molas che coprono il ventre e la schiena e un foulard di stoffa spessa colorata sul capo.

Sull’isola c’è solo un piccolo bar che funge anche da ristorante per i pochi turisti, una decina di capanne il cui pavimento è lasciato alla sabbia, una paio di cumuli di noci di cocco e qualche palma, naturalmente niente internet ed elettricità la notte.

Trascorriamo tre giorni tra spiagge, immersioni e isole disabitate dell’arcipelago, circondati da una bellezza esotica, con scenari da romanzi d’avventura ottocenteschi e una vista che fa velocemente dimenticare i comfort occidentali come facebook o l’acqua calda per la doccia. Ma è forse il contatto e l’ospitalità del popolo locale ad essere l’esperienza più straordinaria.

Molas (Foto Martino Agostoni)

Alla sera i pochi turisti che si erano intrattenuti sull’isola partono per ritornare sulla costa e rimaniamo soli con i Kuna Yala, alcuni stanno accendendo il fuoco per grigliarci il pesce appena pescato nel Mar dei Caraibi. Il più anziano di loro, Leopoldo, si siede con noi e ci racconta del suo popolo, della loro battaglia per ottenere una sorta di indipendenza de facto dal governo panamense. I Kuna hanno un’amministrazione autonoma e ci parla della loro religione che li spinge ad un sacro rispetto della natura, della cultura matriarcale, anche se notiamo come le donne alla sera spariscano e durante il giorno stiano silenziose ad osservare i turisti e a vendere le loro molas fatte a mano. Altri Kuna a pochi metri da noi ci spiegano come le donne vengano ascoltate, rispettate e della grande autorevolezza che godono nelle decisioni da prendere al congresso locale (uno per ogni isola).

Leopoldo passa le giornate all’ombra della veranda del piccolo bar sulla spiaggia, non aspetta altro che qualcuno inizi a parlargli e quando parte è un fiume in piena.  La seconda notte, dopo che alcuni giovani hanno acceso il fuoco sulla spiaggia, intrattiene tutti con le sue storie, le leggende del popolo Kuna e le sue avventure di quando era giovane, anche i ragazzi dell’isola che probabilmente le hanno sentite centinaia di volte, rimangono incantati dalle sue parole. Ha viaggiato, conosce l’Europa e ci parla dello spirito di fratellanza tra tutti i nativi americani, dei soprusi subiti, dei colonizzatori spagnoli che li hanno cacciati dalla terraferma di Panamá, costringendoli a trasferirsi in mare per essere lasciati in pace. Parla della società occidentale, della non sostenibilità della nostra economia, fa notare che in fondo anche i ragazzi attorno a noi hanno in mano un cellulare e bevono Coca Cola e si interroga su come mitigare gli eccessi del consumismo. I Kuna in fondo sembrano sereni, più interessati alla loro indipendenza, ai problemi della terra, a mantenere compatta la loro comunità che a rincorrere il sogno occidentale.

Isole Kuna Yala

Nell’arcipelago dei Kuna Yala non esistono resort, alberghi o abitazioni private i cui proprietari non siano appartenenti al popolo Kuna, la terra viene venduta tra di loro, l’unico modo per preservare la zona da un turismo di massa non sostenibile, tutte le decisioni vengono approvate dal consiglio ei locali che si riunisce ogni giorno.

Sulla via del ritorno, durante le due ore di curve sulla strada dissestata che ci riportano a Panama City, la radio che trasmette pop americano, i cellulari che riiniziano a squillare e l’odore di gasolio dei camion che incrociamo, ci fanno capire di avere abbandonato un piccolo ecosistema protetto. Certo noi occidentali non saremmo mai in grado di adattarci per più di una settimana a quel contesto, ma rincuora scoprire che, magari senza esserne consapevole, qualcuno porta avanti un modello di sviluppo alternativo (con altrettanti pregi e limiti). La sera precedente, prima di congedarsi, Leopoldo ci aveva confessato di essere preoccupato per le nuove generazioni di Kuna, crede che i ragazzi che vanno a Panama City, dopo avere visto le macchine, i centri commerciali e i grandi ristoranti, siano diversi quando tornano sulle loro isole.

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  1. Panama è un bel paese, ricco di storia e di paesaggi, la gente è buona e nell’entroterra esistono bellissimi territori ricchi di cultura e buon vivere. Un paese dalla storia contemporanea da dover studiare bene (in particolare la parte relativa alla dittatura, lo strano rapporto tra Noriega la CIA e Cuba). Inoltre sta divenendo patria di espatriati italiani. Gli italiani sono il 4° gruppo di immigrati a Panama, che ormai parla anche italiano. Prendere la residenza a Panama infatti non è difficile, ed esistono anche studi specializzati per italiani. Panama ritengo debba essere più promozionata come meta alternativa al solito Costa Rica o riviera Maya, perchè il lato caraibico, San Blas ad esempio, è uno spettacolo della natura.

    (Mirko)

    • Firma - Mirko