L’adagio “Agosto, moglie mia non ti conosco,” attualmente ha assunto la sfumatura di scappatelle vacanziere più o meno scontate, travisando completamente l’origine e la causa dell’asserto. Già dal tempo dei greci (e allora non usavano le vacanze al mare!), Esiodo prima e poi Alceo ed altri, parlano di una maggiore spossatezza negli uomini e di una accentuazione delle esigenze nelle donne. Se corrisponda a verità non lo so. Quello che è certo è che in Agosto i lavori e la fatica erano tanti che non restava spazio né energia per altre velleità.
È vero che il grano, ormai, è al sicuro, ma restano altri raccolti: l’uva che si trova nel momento cruciale deve essere protetta; il granoturco anche lui da seguire, e un occhio alle castagne. Poi c’è da preparare il terreno per la semina. Insomma, sì, di pensieri ne porta un bel paniere anche Agosto.
Colonia Elioterapica a Castelnuovo Monti – 1943 (Archivio B. Vanicelli p. g. c.) In quegli anni, specie in città, molti bambini rischiavano la tubercolosi. Perciò, finita la scuola, venivano mandati nelle colonie estive perché potessero respirare aria pura.
Aratura
Di norma l’aratura cominciava in Luglio. Ne parliamo ora perché in Agosto bisognava dargli una bella sgrossata, altrimenti ad Ottobre la terra non sarebbe stata pronta. Una volta stabilito quale campo arare gli uomini, la sera prima, partivano armati di forcali e andavano sul campo a spandere (sternîr) il letame. Medie forcate con sbracciate a semicerchio, in modo che il letame cadesse a pioggia, in maniera uniforma.
Mentre da noi si arava in Luglio-Agosto, poi si lasciava riposare la terra, più a monte aspettavano le prime piogge settembrine per arare, ma poi seminavano quasi subito. Forse avevano in mente il proverbio:
Chi semina con l’acqua / raccoglie col paniere.
Per tutti comunque bisognava avere seminato entro la festa di Tutti i Santi.
Non era ancora spuntato il giorno che già si sentiva il vociare di chi doveva tucâr sú le bestie, cioè stimolarle perché tirassero tutte e in modo uniforme. Il biolco, che quasi sempre era anche al rešdûr, teneva le code dell’aratro perché più di ogni altro conosceva il terreno e le esigenze di affondare o alzare il vomere. Toccava alla sua abilità tenere sempre l’aratro ben piazzato per evitare che scappasse producendo i gajö, quelle strisce non arate che poi bisognava lavorare a mano, con la vanga e la zappa.
Aratura nei pressi del torrente Vendina. (Foto Sevardi - Archivio Lauro Campari, p. g. c.).
In alto il castello PIUBELLO fatto costruire da Antonio Re sul finire del ‘700, passato poi ai Conti Cassoli-Tirelli ed ora proprietà Ferrarini. Per dare maggiore incisività una persona saliva sull’aratro. La foto risale al 1910 e la famiglia si chiamava Bertolini, soprannominata “I Švanètt”. L’aratro di legno era detto “Piudàsa”. Da notare la taccata, composta da quattro tiri, cioè quattro paia tra buoi e mucche. Il terreno quindi, pur essendo in piano, è molto duro da arare. Il sistema di aratura è ad andata-e-ritorno, come si vede dal primo piano.
Aveva la sua importanza anche l’addetto a sollecitare le bestie da tiro. La sua voce doveva essere suadente ma non cattiva, come anche il tocco con la stròpa o al stúmbel. Conosceva le bestie; sapeva le loro tendenze a tirare all’interno o all’esterno e le portava alla massima collaborazione e alla massima resa. Quel chiamarle per nome, una per una, Dài Bionda!, Pògia, Pirìla! più che un ordine sembrava una litania, una supplica.
E là, davanti al convoglio, assonnato, più un automa che un essere umano, un ragazzino con i pantaloni corti e sorretti, il più delle volte, da una sola bretella, con ai piedi degli zatteroni che vagamente ricordavano la struttura di un paio di calzature. Camminava, sì, ma più per istinto che per cognizione di causa. E quando il sonno prendeva il sopravvento, quando la lunga teoria di piedi dava una sterzata fuori del solco, poteva anche accadere che la stròpa accarezzasse le natiche del mal capitato apripista! Non per cattiveria. Solo che il lavoro non ammetteva tregue e tutte le forze erano necessarie.
Dopo le otto arrivavano i soccorsi: le donne di casa con la colazione e i fratellini col fiasco dell’acqua fresca ricoperto con i strupèt bianch (impagliato coi vimini pelati) e il pistone del vino. Mentre le donne improvvisavano un pick-nick sull’erba i lavoratori finivano il solco poi deviavano la taccata sotto una tirèla (un filare di viti) per far riposare gli animali all’ombra, e magari dare loro una bracciata di erba.
Finita la colazione si ripartiva. Stessa musica! Stesso trascinamento del corpo degli esseri umani e delle bestie, su e giù per la stoppia, attenti a imboccare bene il solco in cima e a dare la giusta uscita alle diverse coppie di bestie al termine. Bisognava ridurre al minimo la cavdàgna. Al termine sarebbe stata da zappare a mano, cosa non gradevole.
E bisognava anche studiare in partenza quale aratro adoperare, destro o mancino, e ricordarsi dell’ultima aratura per usare quello contrario. La legge di gravità veniva scongiurata in parte perché non era possibile evitare che la pioggia, la neve o qualche smottamento portassero la coltura a valle, ma si cercava di porvi rimedio lavorando in maniera che l’aratro scaricasse la terra di lato e non in basso. Questo giustifica l’esistenza degli aratri mancini. Il solco veniva tracciato il più possibile in modo verticale rispetto al terreno, e questo per due motivi: la terra sarebbe caduta di fianco senza scorrere a valle; le bestie potevano fare più forza aiutate dal proprio peso. Ma non sempre questo era possibile. Allora si studiava un percorso che non mettesse a rischio gli animali e offrisse i vantaggi suddetti, o, perlomeno, vi si avvicinasse. Ecco perché una volta si arava con l’aratro destro e la volta successiva col sinistro.
Aratura nei pressi di Carniana (Arch. Ave Govi, p. g. c.)
Mentre quasi ogni famiglia possedeva al piöd ad fèrr, l’aratro di ferro, con le catene o rigido, era difficile trovare il mancino. All’epoca sembra che di ferro non esistessero, e quando il nonno ne trovò uno di legno si affrettò a comperarlo. Come già detto si trattava della così detta Piudàsa, nome derivato dalla mole che lo rendeva anche sgraziato. Logicamente, per ottenere le stesse prestazioni, quello di legno necessitava di maggiore volume rispetto a quello di ferro. E il problema era anche come governare quell’insieme di travetti, tavole, coltellacci, vomere appuntito. Dalle code alla punta della Gmêra superava i due metri: non bastava la forza; bisognava anche essere acrobati per domare il mostro.
Dare terra al granoturco
A questo punto il granoturco era bello alto e le pannocchie mostravano già il ciuffettino di capelli biondi o rossicci, la pannocchia cresceva lasciando ben sperare. Ma per crescere il granoturco ha bisogno di ossigeno e di acqua. Quanto a quest’ultima bisognava confidare nel cielo e in Giove pluvio. Per l’ossigeno invece si doveva zappare vicino al piede, rompere la crosta e radunare la terra a forma di cono intorno al fusto. Il sole avrebbe fatto il resto: pannocchie ben formate, chicchi biondi come la luce del sole, foglie bianche per il pajûn. Anche il granoturco ha le sue esigenze:
Dice il frumentone: “Tienmi largo
ed io di pannocchie ti carco!”.
Se non era stato fatto prima bisognava anche rompere il fiore del granoturco, al melghèt. L’operazione permetteva di traslare alla pannocchia la linfa che l’infiorescenza avrebbe consumato inutilmente. La cima del frumentone era ottima, se staccata fresca, per le mucche.
Soprannomi a Civago
Anche se il mio borgo dista molto da Civago, ho inserito questa ricerca per allargare lo sguardo a tutto l’Appennino Reggiano. Ripubblico quindi volentieri questa parte della ricerca condotta da Monia Gaspari e Stefania Gigli-Caniparoli.
Nei paesi piccoli, dove tutti si conoscono, è abitudine diffusa che gli abitanti inventino ed usino soprannomi. Certi soprannomi si identificano totalmente con la persona che li porta, tanto che spesso non si ricorda più il nome vero, specie se quello inventato sembra essere un nome di battesimo.
Questo è stato lo spunto per la realizzazione della ricerca “Razz, stranùm, e altr sciabigutâd” svolta nell’estate 2000 a Civago e successivamente esposta presso il centro Visita Civago “La Terra e le piante” del Parco del Gigante. Il titolo si può tradurre in questo modo: “Razz” significa discendenze, gruppi familiari; “Stranùm” soprannomi e “Sciabigutâd” facezie.
Lo scopo di questa ricerca, resa possibile grazie al contributo del Parco del Gigante e della Coop Futuralpe, è stato quello di censire i soprannomi esistenti e le loro possibili origini, le famiglie alle quali appartenevano e le borgate di provenienza. L’unico metodo possibile per la realizzazione della ricerca è stato il colloquio orale con gli anziani del paese che, attraverso la propria memoria, hanno fatto rivivere personaggi e vicende del passato per ricostruire l’origine dei soprannomi e di chi li portava.
La ricerca presenta limiti e problematiche irrisolte, dovute a diverse ragioni: la memoria dei paesani non ha conservato tutte le informazioni che sarebbero state utili, sia perché troppo lontane nel tempo, sia perché relative ad avvenimenti di due secoli fa, sia per la difficoltà di trasporre per iscritto i suoni dialettali, l’impossibilità di verificare i dati raccolti e, in alcuni casi, la discordanza dei racconti sull’origine dei soprannomi. A volte, infatti, le motivazioni fornite riguardo ad uno stesso “Stranùm” sono state discrepanti a seconda delle persone intervistate, e tra queste differenze di significato se ne incontrano anche di sarcastiche: spiegazioni innocenti vengono date dai familiari, mentre il resto del paese ricorda aneddoti beffardi sulla origine del soprannome. L’ironia pungente si può celare dietro un nomignolo apparentemente benevolo, ma interpretato con una accezione canzonatoria, oppure palesarsi in appellativi molto espliciti, quasi offensivi. L’abitudine di dare soprannomi è radicata a tal punto che tutte le famiglie ne avevano uno. Spesso era il modo di chiamare una persona che veniva esteso ai suoi figli e alla sua discendenza identificata come “Quelli di”, in dialetto “Chi de”.
Lo “Stranùm” veniva generalmente trasmesso da padre a figlio, similmente al cognome, a meno che il figlio stesso non se ne fosse guadagnato a sua volta uno nuovo. Eccezione a questa regola è rappresentata dal fatto che anche alcune donne hanno dato origine a soprannomi. Ad esempio si racconta che “Chi dla caruzlîna” erano così chiamati perché la signora Annunziata, da bambina, era vanitosa, e la maestra la paragonò alla “Caruzlina”, ossia il nome dialettale di un uccello dal temperamento borioso.
Secondo quanto raccolto i soprannomi possono avere avuto diversa origine: il nome di battesimo letto in dialetto (La famiglia di Leonardo diventava “Chi d’ Lunârd”), oppure modificato a seconda delle caratteristiche fisiche del soggetto (Agostino, uomo alto e robusto, era chiamato Gustûn, e i suoi discendenti “Chi d’ Gustûn), il mestiere che svolgevano (Chi dal sârt: un loro avo era il sarto del paese); altre volte legati ad abitudini particolari, come “Chi d’ Bertôld” in quanto il capofamiglia recitava la parte del “Bertôld” nella rappresentazione del Maggio; o a vicende della loro vita, come l’avere incendiato un fienile, evento che ha dato il nome a “Chi d’ Brušiatègg” (quelli del Bruciafienili). Oltre a queste principali motivazioni ce ne potevano essere altre, ad esempio “logistiche”, per cui “Chi dai Culètt” era una famiglia che abitava in cima ad un “Culètt”, ovvero sopra ad una collina. Le occasioni e gli spunti per affibbiare nuovi soprannomi erano molteplici, legate ad infinite possibilità, ad esempio “Chi d’ Sarzênt” dovevano il loro soprannome ad un avo che si dice fosse stato Sergente in un non meglio precisato esercito. La ricerca è stata possibile grazie alla collaborazione preziosa dei Civaghini.
Questa indagine, pur con tutti i limiti a cui sopra si è accennato, vuole essere uno strumento utile per la conservazione di una memoria orale che si sta perdendo; trascrivere i soprannomi delle persone è un modo per salvare parte della memoria di una comunità che, a causa dell’emigrazione e dei cambiamenti sociali, sta perdendo i propri ricordi.
Monia Gaspari e Stefania Gigli-Caniparoli
Ecco una delle tante schede realizzate per la ricerca:
Cognome: FIORAVANTI
Soprannome: FURNASGÎN
Borgata: Case Cattalini
Motivo: Sembra che il soprannome derivi dal fatto che producevano mattoni cuocendoli nella fornace.
Questa famiglia, pur essendo originaria di Case Cattalini, nella memoria recente viene collocata alla Romita, dato che lì si è successivamente stabilita. A questa famiglia apparteneva Ezio d’ Curbèll, Maria dal tàj (perché aveva uno sfregio sul volto), e Fiurlìnd ed Furnasgîn. Quest’ultimo è senz’altro il personaggio più celebre della “Razza”, in quanto a lui si attribuisce il merito di avere inventato la Carèta, rudimentale mezzo di trasporto per carichi.
“Mnâr la carèta”, ovvero utilizzarla, era una fatica enorme, in quanto il mezzo era mosso dalla sola forza dell’uomo nelle salite, ed era pericolosa, poiché difficile da guidare, nelle discese (si ricorda a questo proposito, che alcune persone morirono schiacciate dal peso di una “Carèta”): da ciò il detto che ripetevano coloro che ne usavano una:
“’Cidênt a ti e a chi t’ha mnâ,
e a Fiurlìnd ed Furnasgîn ch’t’ha inventâ!”.