Duomo di Otranto - Luglio
Rivedo il corri corri, l’attenzione costante al cielo, la premura per mettere a coperto appena possibile il grano onde sottrarlo ai danni dei temporali e degli uccelli o al rischio del fuoco. Giornate che non finiscono mai! Appena il tempo di accostarti alla tavola per mangiare un piatto di minestra calda e devi ripartire: riordinare la stalla, recuperare l’ultimo carico di fieno, preparare la foglia da dare ai vitelli. Non vi è più distinzione tra giorni feriali e festivi.
I stràm
Serie di pagliai in prossimità di Canossa – 1953 – (Foto Lodi p. g. c.)
Appena sistemato il grano bisognava falciare lo strame. E occorreva sbrigarsi: l’erba cresciuta in mezzo al grano era già fatta e pronta per essere tagliata; il campo doveva essere arato per la prossima semina; oppure, se il terreno era stato predisposto a prato nuovo, era ancor più urgente ripulirlo per dare spazio all’erba nuova. Come per i fieni anche per lo strame ci si scambiavano gli òvri (prestazione di manodopera); il gruppo di falciatori si trovava sul campo appena ci si vedeva. Con la rugiada il lavoro era più accettabile.
Intorno alle nove arrivavano le donne con un grosso canestro sulla testa per la colazione. A quell’ora andava bene qualcosa di sostanzioso per recuperare le forze e fare fronte al resto della mattinata. Certamente non vi era bisogno di pregare i falciatori: di fame ne avevano. Pane fresco, prosciutto, salame o coppa, acqua appena attinta dalla fontana, vino fresco (di quello buono questa volta!): mezz’ora, tre quarti, poi si ripartiva. Ci poteva anche scappare una stornellata per scaricare la tensione, confrontarsi con altri gruppi intenti allo stesso lavoro, ma poi bisognava sgaggiarsi. Un campo, due campi, e via. A sera c’era la consolazione di poter dire: Incö i’ èm fàt ad l’òvra! [Oggi il lavoro ci è riuscito bene!].
Il giorno successivo si rivoltava lo strame per asciugarlo meglio, poi lo si radunava (e per l’occasione si utilizzavano grossi forconi di legno per spingere il mucchio; lo strame scivolava bene sul terreno asciutto), poi lo si caricava sul biroccio e lo si riponeva in un altro settore del fienile, o in una capanna, memori che
Per Santa Madalêna
la tèša la völ piêna.
[Per santa Maddalena (22 Luglio) - il fienile deve essere riempito].
Concimazione dei campi
Si carica il letame da portare nei campi (Foto Rossi Adelmo)
Prima di iniziare l’aratura occorreva concimare il campo. Anche la terra ha bisogno di nutrirsi per rendere al meglio. E conviene fare rendere il letame anzicché tenerlo nella concimaia, come spiega il proverbio:
Chi tiene il letame nel suo letamaio
fa triste il suo pagliaio.
Due o tre paia di animali da tiro venivano attaccate ognuna ad un cassone e cominciavano a fare la spola da casa ai campi. In una giornata si doveva svuotare la massa. Il letame veniva scaricato nella parte alta degli appezzamenti in piccoli mucchi corrispondenti al contenuto di un cassone. Il giorno precedente l’aratura sarebbe poi stato sparso (sternîr al rût) e mescolato alla terra durante l'aratura. Il buon contadino sapeva ove ne occorreva in abbondanza e ove si poteva ridurre la razione. Era comunque risaputo che i terreni non potevano essere coltivati con lo stesso prodotto per più anni senza dare loro il concime. Si rischiava di renderli improduttivi. Qui sta il motivo della rotazione nel coltivare: un anno grano, due o tre anni prato, un altro anno granoturco, e così via.
I temporali estivi
Una volta quei temporalacci odiati da tutti si formavano solo d’estate, nello scontro tra correnti calde e fredde. Il pericolo era grandissimo: in poco tempo poteva andare distrutto il lavoro di un anno, dal grano non ancora mietuto all’uva, ai frutti. Normalmente il temporale si incuneava in una vallata e la batteva da capo a fondo. Li chiamavano i cordoni, quasi si trattasse di una grossa fune che si scioglieva in una determinata direzione risparmiandone altre, ma dove passava seminava distruzione.
Quando si approssimava il temporale, e se ne intuiva la forza distruttrice, si ricorreva ad ogni mezzo per scongiurarlo. Davanti a casa, o sui davanzali, appariva all’improvviso un braciere (la padèla dal brêši) entro cui venivano messe ad ardere alcune foglie di ulivo benedetto.
Le campane venivano suonate a martello, in un misto di reminiscenze tra superstizione e primitivi rudimenti scientifici, con la speranza che sacro e profano uniti allontanassero il pericolo. In effetti il suono delle campane poteva anche produrre un’alterazione alla propagazione della perturbazione e, quindi, diminuirne l’intensità, se non proprio interromperla. Si tratta, in definitiva, dello stesso principio utilizzato nella tecnica dei “cannoni” in pianura: la loro deflagrazione all’interno della nube ne altera la consistenza. Vi era poi chi poneva in mezzo all’aia la catena del focolare formando coi due lunghi ganci delle estremità una croce.
La trebbiatura
Non saprei se, parlando di rapporti sociali, fosse da considerare più importante il giorno della trebbiatura o quello della Sagra. Quest’ultimo era più un premio, uno scaricare le preoccupazioni covate a lungo, un permettersi qualche soddisfazione in compagnia di amici dopo un periodo tiratissimo. La trebbiatura invece era la conclusione di un impegno lungo un anno, il vedere finalmente ripagate tutte le fatiche sostenute. Come per un corridore che taglia il traguardo.
Uno dei primi modelli di trebbiatrice
Il machinista (così era detto il padrone della trebbiatrice) avvertiva con qualche giorno di anticipo, ma quando arrivava in zona lo seguivamo, con interessi diversi, di aia in aia. La sua campagna durava da Giugno ad Agosto. Partiva dalle località più vicine alla pianura, dove il grano maturava prima, per risalire, giorno dopo giorno, verso il crinale.
Giorni frenetici quelli che precedevano la trebbiatura: c’era da imbiudare l’aia per salvare ogni chicco di grano. Una operazione, questa, che oggi susciterebbe qualche perplessità, ma che a chi l’ha vista fare ricorda solo quanto fosse utile. Si trattava di ripulire meticolosamente l’aia da erbacce e altri oggetti di disturbo, rastrellarla con scrupolo, poi asfaltarla con sterco fresco di mucca sciolto in acqua. La boiacca veniva tirata con una grossa ramazza fatta di frasche di castagno e distribuita uniformemente. Una volta seccato il velo diventava impermeabile e permetteva il recupero dei gradi caduti a terra senza che questi si sporcassero. C’erano gli ultimi cavajûn (*) da portare a casa. Li avevano lasciati nei campi perché, (non si sa mai!), si salvassero da un eventuale incendio. C’era da preparare il letto (di fascine) per il pagliaio e da predisporre al capanèl dal lùch per facilitare il lavoro.
(*) I nomi cambiano a seconda delle zone. Per noi Cavajûn è il mucchietto di covoni predisposto nel campo corrispondente ad una carica (circa 20 covoni), ma verso il crinale diventa Capàr. Nell’aia il mucchio grosso diventa Cavajunâra per noi, mentre a Villaminozzo si chiama Meda.
Estrazione del lùch (Foto Pigoni Erio p. g. c.)
Intanto era già un problema trasferire l’impianto: occorrevano svariati paia di animali da tiro nonostante che da noi ci venissero solo le piccole (cioè un modello di trebbiatrice più piccolo rispetto a quelle che circolavano in pianura). Allora tutto il paese si prestava con ogni paio di bestie perché per una tacita convenzione ogni borgata doveva andare a prendere la trebbiatrice, il motore e il carro con gli accessori nell’altro villaggio e trainarli nel proprio borgo. Prima del 1950 infatti la tacâda era composta dei tre elementi suddetti. Solo in seguito è arrivato il trattore a facilitare il trasporto. Il tragitto era di appena qualche chilometro, ma le strade... beh! dovevano ancora pensarle. Di conseguenza per fare arrivare al paese le attrezzature occorrevano diverse paia di buoi e mucche: una lunga catena di šerle collegate una all’altra e tenute in tensione per non danneggiare la coppia aggiogata al timone. Un vero calvario per gli animali costretti ad uno sforzo incredibile ed esposti continuamente al rischio che al batdûr (la trebbiatrice) prendesse un stúss contro un sasso sporgente e si rovesciasse. Le strade erano state, si, riassettate alla meglio per l’occasione, ma il loro tracciato era davvero incredibile e tale da giustificare l’adagio: I nostri vecchi, per tracciare una strada, mollavano una capra e poi la seguivano.
Una volta giunta nell’aia bisognava piazzare la trebbiatrice, livellarla, metterla a piombo, immobilizzarla, giocando di binda e di leva, affossando una ruota o alzandone un’altra. Poi si allineava il motore, si tirava al singiûn incrociandolo a forma di 8 sdraiato. Il suono prolungato della sirena dava il segnale di inizio delle operazioni. Per noi ragazzini quel suono aveva qualcosa di magico, e potere azionare quella macchinetta costituiva motivo d’orgoglio.
Trebbiatura al Mulino Zannoni (Foto Rossi Adelmo)
La bocca della trebbiatrice veniva posizionata in direzione del pagliaio. Poco distante vi era il capanèl dal lùch, il ripostiglio della lolla. Trasferire questo col rastrello da sotto la trebbiatrice normalmente era compito di noi ragazzi, mentre la paglia la maneggiavano gli adulti perché richiedeva forza e precisione. Sull’altro lato si caricavano i covoni. A quel tempo non esistevano, da noi, caricatrici meccaniche, per cui bisognava infilzare un covone alla volta e farlo arrivare sul pianale della macchina dove lo prendeva al pajaröl, l’addetto ad infilarlo fra i rulli per farlo sgranare bene. Brutto segno quando si sentiva pronunciare a voce alta Paja! Significava che il lavoro stava rallentando.
Dalla parte posteriore della macchia il grano riempiva un minone dopo l’altro e i portatori facevano la spola dall’aia al granaio. E qui si piazzava al Rešdûr per tenere controllato ogni minone, segnandolo sulla stecca di legno preparata per l’occasione. Al termine quello sarebbe stato il documento ufficiale per sapere quanto grano si era raccolto e per pagare il macchinista. Da noi il granaio era nel sottotetto, in uno stanzino pavimentato a mattoni, ove il portatore versava il grano. Alla fine il mucchio occupava quasi tutto il granaio, e lì sarebbe rimasto sino a quando, carico dopo carico, lo si portava al mulino. Piccolo particolare. In quel mucchio di grano la nonna nascondeva le uova per mantenerle fresche.
Per le aie grosse (famiglie che avevano molto grano) di preferenza si iniziava alla prima luce dell’alba per concludere, possibilmente, entro mezzogiorno. Per quelle con meno raccolto era sufficiente andarci di pomeriggio.
A mezzogiorno una buona sciacquata per eliminare il grosso della polvere poi a tavola. Per l’occasione la cuoca cercava di farsi onore, un po’ per orgoglio, un po’ anche perché riteneva giusto trattare bene gli ospiti. A rimetterci le penne erano in tanti tra conigli e altri animali da cortile, ma di sicuro bisognava tirare il collo al gallo vecchio, tenuto proprio per la batdûra.
Al termine la taccata veniva trasferita presso un altro contadino. L’aia sembrava un campo di battaglia: polvere ovunque, e qua e là mucchietti di paglia, di legacci, di lolla. Ma a questi ci si poteva pensare in seguito. Il grano era a coperto e questo era quanto interessava.
Ma non per tutti finiva qui. Se vi era del grano sporco (cioè mescolato con avena o altre erbe infestanti) bisognava mondarlo. Un tempo l’operazione la si doveva fare a mano, con la Vasùra e tanta, tanta pazienza. Poi arrivò Al vàli (il vaglio), uno strumento pesante, da fare funzionare a mano, girando una manovella. Tra l'altro, applicata all'asse della manovella, vi era una robusta corona dentata che trasmetteva vibrazioni al cilindro per facilitare l'uscita dei semi. Era un meccanismo composto da un lungo cilindro di lamiera, diviso in segmenti con foratura diversa, che permetteva la selezione dei grani in base al loro calibro. Sotto ogni segmento della macchina vi era un raccoglitore che convogliava i semi verso una cassetta. In tal modo si otteneva il grano pulito, poi altri semi (veccia) poi l’avena, e, in fine tutto il resto come scarto. Per farlo funzionare occorreva molta forza. Ma allora non era possibile fare diversamente.
Il Vaglio