Riceviamo e pubblichiamo.
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La società italiana veniva rappresentata con la figura della piramide con in basso gli strati più numerosi degli addetti nei due settori alle attività produttive che sono il primario (agrosilvopastorale e pesca) e il secondario (industria-artigianato) poi in alto il terziario.
Nelle ultime tre generazioni c’è stata la trasformazione epocale da tempo conclusa, però in Italia restano distorsioni che ci differenziano dai Paesi avanzati. Abbiamo un debito pubblico enorme, il numero di nati più basso, lo squilibrio tra le persone in età di lavoro (23 milioni) rispetto a una popolazione di oltre 60 milioni, la riduzione eccessiva delle persone impegnate a coltivare, allevare, raccogliere, pescare, idem per l’artigianato e l’industria si è concentrata o trasferita, mentre si è ingrossato il terziario con i servizi sempre più pesanti. L’attuale piramide vacilla in confronto ai Paesi forti che hanno conservato una base solida. Vediamo i numeri.
L’Italia ha meno di 1 milione di lavoratori nel settore primario, 7 nell’industria-artigianato, 15 nel terziario. Dunque, solo 8 milioni producono nuovi beni, mentre sono quasi il doppio quelli che trasferiscono valore o forniscono servizi. Pubblicità, commercio, trasporti, credito e assicurazioni hanno mangiato metà del potere d’acquisto nel ventennio consumista sfruttando il cambio dell’unità di misura dilatata quasi 2000 volte. Servizi poco efficienti accumulano 10 milioni di addetti tra amministrazioni pubbliche e privati che lavorano per loro poiché l’ex Belpaese cementificato ha 21 sedi legislative che gravano e oltre cinquecentomila leggi da applicare. La selva di regole e diritti alimenta l’insieme burocratico, gli apparati pubblici sono blindati, gli amministratori eletti non hanno il potere di riformare e appaltano mansioni facendo crescere apparati esterni di imprese, sindacati e professioni. Tirando le somme, una persona che produce nuovo valore nelle attività produttive ne mantiene 8 aggiungendo chi non è in età di lavoro e chi sta nel terziario a trasferire valore in vari modi, o a provvedere (non al meglio) per salute, sapere, sicurezza, giustizia e regolamenti. Così stanno le cose e la nostra scuola impostata cent’anni fa presume di svolgere ancora la funzione di ascensore sociale mandando i giovani verso corridoi stracolmi.
Dalla montagna sono sospinti a emigrare alla ricerca di lavoro in attività dove i posti che c’erano vengono decimati con la rivoluzione digitale. Comunque, il miglior investimento resta quello sul fattore umano, l’Ue offriva il Piano di Sviluppo Rurale-PSR per un cambiamento positivo e noi potremmo imitare quel che hanno fatto gli altri. Il Governo tenta di frenare lo spopolamento di due terzi del Paese con la Strategia Nazionale Aree Interne-SNAI e ha scelto come Area pilota l’Appennino emiliano dove, grazie al Parmigiano Reggiano e a un valido sistema delle filiere dell’erba (foraggio-formaggio, siero-salumi), resiste l’impresa famigliare. Ha confermato di essere l’unica capace di mantenere l’uso corretto dei 30.000 ettari di prati e una parte dei 50.000 ettari di boschi, tuttavia non ha il supporto dei servizi pubblici attivi nei Paesi forti per meglio coltivare/allevare/trasformare, per differenziare i prodotti nel mercato, sfruttare appieno le energie rinnovabili, tenere aperte le case, rendere accoglienti le borgate, curare la salute in un ambiente coltivato.
E’ bene per la collettività tener presente che la montagna bavarese e austriaca sempre più ci rifornisce il latte e le carni delle piccole aziende famigliari rese competitive dal servizio pubblico rivolto a evitare lo spreco di terra agricola, a dare a giovani e anziani la formazione permanente, a studiare le innovazioni adatte, a fornire il lavoro sostitutivo per ogni esigenza. Anche la nostra azienda contadina ha bisogno di un’azione pubblica locale come quella e invece l’attenzione è rivolta alla bancarella del mercato contadino che consola chi abita nel centro, le assemblee convocate nelle fasi elettorali si dilungano sui personaggi lontani, l’Osservatorio sull’Appennino reggiano tenta di vedere qualcosa rivolgendosi a un mondo dell’istruzione obsoleto.
Per evitare lo svuotamento come a Bobbio, capitale dell’Appennino piacentino, bisogna riconoscere il problema prioritario uscendo dal chiuso degli interessi urbani. Non serve trastullarsi con ungulati, lupi e Collina senza cavalli, o agitare le Cicogne e mappare la Comunità esclusivamente dentro al perimetro cittadino. Questa visione indebolisce le ultime famiglie insostituibili che vivono fuori, il mondo nuovo richiede di ribaltare verso di loro la priorità degli investimenti e se la popolazione del capoluogo non avverte l’importanza di chi regge il territorio, il né cambia significato, diventa Castelnovo niente Monti e afferma il suo declino come remota periferia della via Emilia.
(Enrico Bussi, associazione Rurali Reggiani)
Ottimo come al solito, dottore, sempre preciso e chiaro; Le chiedo, come fare perchè venga maggiormente divulgato e letto dai montanari? Quello che più mi preoccupa è questa rassegnazione, o forse inconsapevolezza, di quanto sta avvenendo sotto i loro occhi. La prego di continuare. Saluti anche da Silvana.
(Luigi)