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Pasqua di falò, di scoccino e di potassa

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Torna, in molti luoghi dell'Appennino, la tradizione dello scoccino. Tra i luoghi "capitale" per questa tradizione indubbiamente Cola di Vetto. Per Redacon questa corrispondenza del giornalista e scrittore Francesco Genitoni.

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A Cola, ancora nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando io avevo 7-8 anni, a parte le funzioni della Settimana santa con le Quarantore e il ricco, atteso pranzo famigliare del mezzogiorno, Pasqua voleva dire il falò, lo scoccino e i botti.

Il falò (brusâr la vècia)

In tutte le borgate, nelle settimane precedenti, in punti ben visibili anche da lontano, si ammassavano in alti mucchi i ritagli delle potature degli alberi e delle siepi non adatti da stufa o forno, ginestre, rovi… da bruciare la sera del Sabato santo con le campane non più azzittite dalla morte di Cristo ormai risorto.

Nella borgata della Predella bruciavano “la vecchia” ai Rünc, un cocuzzolo da dove si vedeva la Pietra; al Brolo sotto il Pizzone, un gradone di sasso tra le case e l’allora Statale oggi declassata a Provinciale. Si portava del vino e qualcosa da spiluccare, e tra fiamme crepitanti e scintille (falìstre) che volavano dappertutto, giovani e meno giovani si schiamazzava, si parlava e ci si prendeva in giro, si cantava e alla fine tanti auguri; era anche una gara molto sentita a chi faceva le fiamme più vive e alte con tutti i paesi della montagna che rientravano nel nostro colpo d’occhio; uno spettacolo, il colpo d’occhio: Frascaro, Monteduro, Cerreto, Ca’ di Scatola, Groppo, Cesola, Ramiseto, Gottano e là dietro paesi a noi ignoti del Parmigiano… ovunque erano falò e alla fine era come stare intorno allo stesso grande comune fuoco: vi bruciavano - ben stagionate e condivise - tradizioni, emozioni, paure, speranze. Un rito propiziatorio collettivo nel quale si consegnava alle fiamme il vecchio (la Quaresima e l’inverno appena finiti, l’anno passato) confidando che qualcosa di nuovo e di buono potesse crescere meglio in casa, nei campi, nelle stalle, nei paesi, come quando si bruciano le stoppie nei campi.

Lo scoccino (scuscîn)

Fare lo scoccino è picchiare la punta di due uova sode una contro l’altra finchè una si rompe e diventa preda dell’altra e tutti, chi rompe e chi è rotto, si divertono… facile da dire, difficile da fare apprezzare a un forestiero o un marziano.

Mai i maschi si interessavano tanto del pollaio e delle uova come nei paraggi della Pasqua, se le picchiavano una per una contro i denti davanti appena levate dai nidi, ancora nel grembiule della risdûra: non cercavano di prendere la salmonella (di cui non si avevano ancora notizie) ma l’uovo eccezionale che potesse rompere la testa a tutti gli altri. Se non lo trovavano se lo inventavano: fatti due piccolissimi forellini succhiavano fuori albume e tuorlo e infilavano dentro a forza della pece; spacciavano per uova di gallina gli esemplari più grossi di faraona (più piccoli, più resistenti e non ammessi in gara); coloravano con l’erba o il caffè uova di legno o di sasso di cui in gara lasciavano vedere solo una frazione piccolissima di punta… perché per divertirsi bisognava vincere, allo scoccino. Che era un gioco competitivo però era anche molto di più: un rito di crescita e scaramantico; e anche una fabbrica di racconti e di leggende orali a base di trucchi genialoidi, litigate, scenette e frasi storiche da ripetere e riscrivere al bar, nelle lunghe serate invernali in casa o nelle stalle (senza la televisione) e ancora nelle veglie estive nelle piazzette di borgata.

Lo scoccino a Cola ha vissuto i suoi anni di gloria con l’Associazione Amici di Cola che dal 1981 al 2005 ha tenuto vivo il paese. La mattina di Pasqua, prima della messa, si faceva la gara alla Predella, uomini e bambini davanti l’ex Trattoria del Cavallo diventata Bar di Giulitti e poi Maxi bar di Lillo. Nei cestoni un migliaio di uova rosse, verdi, nere, blu… alla fine delle tornate di (epici e litigiosi) scontri solo uno restava sano: il vincitore assoluto, che oltre a svariati sacchetti di uova sode con la testa rotta (comunque ottime per insalate di radicchi) si portava a casa il trofeo di un bell’ovone di cioccolata.

I botti (i ciòch cû la putàssa)

Per me bambino però la Pasqua erano i botti con la putàssa: pastigliette di clorato di potassio che tritate con un sasso e mescolate in rapporto circa 1:1 con zolfo (non mancava mai in casa, lo si soffiava sulle viti in giugno-luglio e si usava anche per stagnare botti e tini) si mettevano tra due sassetti piatti (piagnlìne) e dando una pedata secca e strisciante sul sasso di sopra esplodevano con un botto secco. La potassa si vendeva in scatoline metalliche nelle farmacie e costava poche decine di lire. Io rompevo l’anima ai miei per i primi mesi dell’anno, ero buono e servile solo perché mi comperassero quella scatolina magica. Non promettevano mai niente, me la comperavano solo gli ultimissimi giorni e per me allora era Pasqua. Se usavi troppe pastiglie assieme era possibile anche farsi molto male ai piedi. Una volta abbiamo preparato una carica spropositata di potassa e zolfo, da un muretto sotto la Grotta ci abbiamo buttato sopra un sassone e la grossa pietra che stava sopra alla miscela si è spezzata in due: una metà è volata per qualche decina di metri fin sulla piazza della borgata che se picchiava in testa a qualcuno bene non gli avrebbe fatto. Se oggi sono sordastro forse è anche colpa di tutti quei ciocchi secchi.

I più grandi facevano invece i botti con il carburo che si usava per il funzionamento delle lampade, da poco sostituite dalle lampadine elettriche: dentro un barattolo di latta mettevano un po’ di carburo che, bagnato, sprigionava un gas cui davano fuoco attraverso un forellino praticato sul fondo del barattolo: esplosione, e il coperchio schizzava lontano con un bel botto secco; botto e tragitto del coperchio certificavano il valore dell’operazione.

Luci, fuochi, rumori, cose semplici e povere, vissute e godute insieme a paesi, a borgate, per stare allegri in compagnia, per scacciare il cattivo e le paure, richiamare il buono. Non per fare il solito piagnisteo dei tempi andati ma per rappresentare una realtà di fatto, cosa è rimasto oggi di tutte queste piccole cose?

La potassa e i suoi ciocchi i bambini d’oggi non sanno nemmeno cos’è. Ma forse è anche meglio così, non rischiano di diventare sordastri o farsi male...

Il mio colpo d’occhio da Cola verso il Ventasso da anni rimane desolatamente orfano di falò, la sera del Sabato santo. Però ci sono da altre parti segnali di ripresa, come nella valle del Tassobbio dove alcuni paesi hanno programmato una bella iniziativa insieme: "I falò in Valle".

Lo scoccino è quello che si è conservato meglio, è conosciuto e praticato in molti posti, anche con forme organizzate, come a Castelnovo.

A Cola la tradizione è tenuta viva dal Bar Fuoritempo (mai nome fu più azzeccato, complimenti). L’anno scorso sonno arrivato a metà competizione e c’erano tutti gli ingredienti giusti: sole e natura che sapevano già della primavera incipiente, cestini di uova colorate, stuzzichini, aperitivi per tutti... Sono montato su per gli ultimi giri di manche, ne ho vinto una e sono andato in finale con un ovetto piccolo e cicciotto, con un guscio sottile che sembrava potersi rompere solo a fargli buh!, ma ha vinto lo scontro finale dei "campioni" di manche; ho goduto di breve gloria e qualche piccola invidia, con la riserva di chi mi guardava storto, convinto che avevo battuto il suo campione picchiandolo sul fianco e non di punta...

Per quanto mi riguarda, anche quest’anno, se non piove, nella serata di sabato farò il mio vecchio falò con la potatura delle piante nel Prato del Lago, in fronte al Ventasso e al colpo d’occhio (sperando non resti ancora una volta buio). Poi domenica mattina ripasserò dal Bar Fuoritempo (cercando di arrivare in tempo...) per lo scuscîn, che poi ripeteremo in casa tra sorelle cognati figli e nipoti e ritirerò fuori tutto il frasario vintage: "picchi storto… ma hai un uovo di faraona!... e allarga quelle dita se no dove picchio?", e cercherò di non pensare né dire che le uova non hanno più i gusci di una volta...

Anche quest’anno risparmierò la compressa e mezzo di potassa che ho in casa. Ne ho trovata, dopo tanto, una scatolina di cartone con una ventina di compresse quasi 20 anni fa; c’è scritto sopra in corsivo grande “Clorato di potassio… per la voce e per la gola”; "C’è di meglio oggi per il mal di gola" mi ha detto in città il farmacista che me l’incartava e io ho replicato "mi piacciono le medicine di una volta"; un altro farmacista qualche tempo prima mi aveva detto "volevi fare i botti eh?!" e io scandalizzato "i botti? iooo?! alla mia età?!" Nella scatolina ingiallita di una ditta di Schio (si legge ancora il talloncino del prezzo: 1.000 lirette, la metà di un euro allora non nato) sono rimaste solo una pastiglia e mezzo; per i primi anni, a scopo dimostrativo o per far prendere paura a chi non se lo aspettava, ne ho scoppiata una intera per ogni Pasqua, poi la metà; adesso le conservo come una reliquia più introvabile che rara.

Sono - il falò, la potassa, lo scoccino - tre fiammelle, come le spie nella caldaia. Se qualcosa torna a muoversi e a scaldarsi noi siamo pronti a fare lo scuscîn e i ciòch cû la putàssa, a riaccendere il grande falò collettivo dove brusâr la vècia, con tutto il loro indotto.

Così forse la Pasqua tornerà a risorgere anche su questi versanti laici.

(Francesco Genitoni)