Antèlami - Aprile (Duomo di Modena)
Gli spari del sabato Santo
n segno di festa, di allegria, erano gli spari. I fucili, per prudenza e precauzione, li potevano usare solo gli adulti. E di norma a costoro era riservata la sera dopo il tramonto, in accompagnamento ai falò. A noi ragazzi era permesso produrre botti in due modi: col potassio o col carburo.
Il potassio (in dialetto lo chiamavano La putàsa) era una pastiglia medicinale che si comperava in farmacia. Dovevamo triturarla con cautela poi la ponevamo su un sasso di fiume, di quelli ben levigati, e la mescolavamo con un pizzico di zolfo. Un altro ciottolo veniva posto sopra alla miscela prodotta, poi si saliva sul sasso superiore con un piede, tenendo libero l’altro; un energico colpo di tacco del piede libero su quello fermo produceva una frizione dei due sassi sul potassio, sufficiente a produrre un botto simile ad uno sparo.
Più diffuso era l’uso del carburo che, ai nostri tempi, era facile reperire poiché serviva anche per l’illuminazione mediante acetilene. I più piccoli si accontentavano di prendere un barattolo da conserva vuoto, praticarvi un forellino sul fondo e utilizzarlo come camera di scoppio (al scatlòt dal carbúro).
Barattolo per carburo
Si predisponeva un mucchietto di fango, su di esso veniva posto un frammento di carburo, lo si inumidiva poi lo si ricopriva col barattolo in modo che il forellino risultasse verso l’alto e il fango alla base non permettesse al gas prodotto di uscire. Un tipico sibilo segnalava la presenza del gas. Accostandogli un fiammifero acceso si produceva l’esplosione che proiettava il barattolo a discreta distanza. Occorreva prudenza e abilità per evitare che il barattolo colpisse chi accostava il fuoco. I più grandicelli osavano anche trasformare il barattolo in un facsimile di revolver applicandovi un supporto-maniglia intorno al fondo e un tappo di legno, leggermente conico, sulla bocca. Si poneva il carburo all’interno del barattolo, lo si inumidiva poi si applicava il tappo (che in teoria doveva sigillare la bocca), quindi si accostava il fiammifero al forellino. L’esplosione lanciava lontano il tappo.
Preparativi per la Pasqua
La settimana Santa coinvolgeva ogni membro della famiglia nei preparativi per la Pasqua. Per l’occasione il capofamiglia si impegnava di più a far funzionare il forno; oltre alla cottura del pane infatti ve ne erano altre che esigevano un controllo costante: le ciambelle, o Brasadèli, le crostate e quegli squisiti arrosti di coniglio o di faraona che ancora suscitano l’acquolina in bocca.
Le uova colorate
Sempre durante quei giorni occorreva preparare le Uova di Pasqua. Le tecniche potevano essere diverse, a seconda di come si volevano colorare. Un metodo era quello di fare bollire le uova assieme a cortecce di salice selvatico (al vìdši) che procuravano un colore giallo oro, o con erba fresca per ottenere un verde chiaro. Un altro sistema era quello di raccogliere molti fiori di una piantina con bulbo a cipolla e fiori a piccolo grappolo, detta Pan dal cúch, (Orchis purpurea). I fiori, di colore blu, coloravano le uova di un bel turchino. Altri facevano un misto di erba tenera e fiori di tarassaco, che producevano un colore tra il giallo e il verde; per ottenere un bel colore caffè si metteva nell’acqua una manciata di caligine.
Vi era chi ricorreva ai prodotti artificiali, quelle per colorare le stoffe, con marche a quei tempi rinomatissime, quale la Superiride, in grado di garantire esiti migliori. Se ne produceva un capace canestro perché le uova colorate dovevano servire per lo scoccino, per il ruzzolino e per l’insalata della sera di Pasqua.
Pasqua
Più che altro mi piacerebbe, qui, riuscire a descrivere l’atmosfera diffusa ovunque, sia quella meteorologica che quella umana. Quanto alla prima è scontato che il tempo fosse bello e l’aria un poco tiepida: la primavera stava avanzando a grandi passi e la Pasqua viene sempre posta, per calcolo, in una fase lunare propizia. A questo proposito il proverbio avverte che Pasqua non può cadere prima del 22 Marzo né dopo il 25 Aprile:
Âlta o bàsa, / San Mârch la n’al pàsa.
[(Pasqua) alta o bassa - San Marco non lo oltrepassa].
Deve comunque coincidere con la prima domenica dopo il plenilunio successivo all’equinozio di Primavera.
Quanto la Pasqua cristiana abbia prevalso su riti pagani anteriori non è dato sapere. Certamente l’uomo primitivo vedeva nelle forze della natura qualcosa di divino. Dopo di che ogni religione ha convertito quanto la gente sentiva al proprio interno in un fatto relativo alla propria fede. Per i cristiani la Pasqua dovrebbe rappresentare la rinascita spirituale alla vita, renderli partecipi dei doni della Redenzione, spingerli in ogni modo ad operare con lo spirito del Vangelo. Il popolo, in particolare quello di una volta, tribolava a seguire tutti i ragionamenti dei predicatori, ma intuiva l’importanza di alcuni valori fondamentali e su questi si impegnava, guidato soprattutto dal buon senso.
Ma Pasqua era qualcosa di più. La voglia di far festa la si riscontrava anche a tavola. A voler essere precisi il menù non si scostava più di tanto da quello delle altre grandi festività. Oltre tutto non potevano esserci sorprese, visto che ogni membro della famiglia, in un modo o nell’altro, aveva contribuito a produrlo. Non posso però scordare un piatto tipico della sera di Pasqua e del Lunedì dell’Angelo: i radicelli di campo (i radí-c) con le uova sode. Le uova, si sperava, sarebbero arrivate come trofeo dello Scoccino. Prudentemente però la buona Rešdûra teneva pronte delle riserve.
Lo Scoccino e il Ruzzolino
Appena finita la Messa solenne già sul sagrato iniziavano le sfide a scoccino (Scusîn), gioco che forse risale agli albori della società umana. L’uovo infatti è simbolo di vita, quindi anche di rinascita, di evoluzione. La tecnica era semplicissima: uno dei contendenti, a sorte, doveva andare sotto e l’altro, col proprio uovo colpiva quello dell’avversario. Ma si ricorreva a piccole strategie, frutto dell’esperienza: l’uovo veniva lasciato libero solo dalla parte della punta, mentre con la mano lo si fasciava tutto intorno e si produceva sul suo guscio una piccola pressione. Ciò rendeva più resistente il guscio e più probabile la vittoria. L’uovo rotto diventava il trofeo del vincitore che se lo portava a casa per farne l’insalata coi “risûn”.
Non mancavano piccoli stratagemmi e sotterfugi, come quello di colpire l’uovo che stava sotto non perpendicolarmente ma leggermente di sbieco, nella speranza di trovare il punto debole. Qualcuno ricorreva anche all’uovo di faraona, più resistente di quelli di gallina, ma lo si poteva facilmente scoprire perché più piccolo, e il baro veniva squalificato e svergognato. Un test per sondare la resistenza dell’uovo consisteva nel batterlo con precauzione contro la propria dentiera. Il suono del guscio tradiva eventuali incrinature o bolle d’aria all’interno.
Altro gioco tipico da fare con le uova pasquali era il ruzzolino (Rušlîn). Bisognava improntare un piccolo solco in pendenza, nella polvere degli argini o dei campi, con curve e strettoie, ma sufficiente per il passaggio di un uovo. Qua dentro si faceva ruzzolare. Prima si stabiliva, a sorteggio, l’ordine di partenza. L’uovo doveva “ruzzolare” dentro il solco il più possibile. Vinceva chi toccava o superava l’uovo dell’avversario.
La benedizione delle case
Durante la settimana di Pasqua il parroco passava per la benedizione delle case. Anche gli ambienti ove si vive, oltre alle persone, è bene che siano purificati e che, assieme agli umori ristagnanti della brutta stagione, vengano eliminati anche i pensieri e i sentimenti meschini.
Per le massaie era un gran lavorio preparare tutte le stanze, pulirle a fondo, arredare letti e finestre con la miglior biancheria. Non so se per l’occasione prevaleva la voglia di ricevere degnamente la visita del parroco e la benedizione rituale o quella di mettere in mostra le poche cose belle di cui si disponeva. Sta di fatto che improvvisamente comparivano coperte speciali, federe ricamate, asciugamani con le iniziali dei padroni di casa, e anche delle tendine ove le finestre disponevano di vetri e non di impanate. Il parroco passava per ogni locale della casa, anche se, si diceva, la benedizione oltrepassa sette muri. Al suo seguito due chierichetti: uno reggeva il secchiello dell’acqua santa, l’altro il cesto per le uova. Perché non si poteva non offrire qualcosa. E poiché i soldi liquidi scarseggiavano si rimediava con offerte in natura, quali appunto le uova (le galline erano consapevoli delle esigenze di stagione e perciò ne producevano un gran numero) oppure un formaggio fatto in casa. Per il parroco, a suo gradimento c’era il caffè o il bicchierino di marsala, mentre per i chierichetti da qualche credenza spuntava una fetta di ciambella.
Al magnân (Lo stagnino)
Lo stagnino
Anche questo mestiere veniva esercitato in prevalenza da ambulanti. Il suo compito era di rimettere in sesto tegami e pentole, rimettere il manico ai coltelli o alle mestole, vendere qualcuno dei tanti tegamini che portava appesi al grosso zaino degli attrezzi e che, lungo il percorso facevano da richiamo sbattendo tra di loro. Le pentole di rame le riparava o con le borchette, borchie di rame da ribattere, o con la saldatura se il foro era ancora piccolissimo. Da qui anche il nome di Stagnîn. E su questo particolare va ricordato che le migliori pentole erano quelle “stagnate”, vale a dire trattate con lo stagno tutto all’interno. Ciò consentiva anche una miglior pulizia e una ossidazione più difficile. Riprendeva anche le ammaccature passando le pentole (la parlèta o il paiòlo) e picchiettandole col martelletto su una speciale forma di legno dal lungo piede per appoggiarla a terra. La cadenza ritmica e precisa riportava il rame alla sua forma iniziale al punto che difficilmente si scorgeva ove era l’ammaccatura.
Più difficile riparare pentole di alluminio o secchi di zinco. Nel primo caso si applicava una pezza sopra il buco, interponendo un foglio di cartoncino o altro materiale. Stringendo bene le borchie applicate tutto intorno alla pezza la pentola ritornava utilizzabile.
Per i secchi (chiamati semplicemente šìngh) il problema riguardava soprattutto la sostituzione delle orecchie che uniscono il manico al contenitore. Capitava che con l’uso qualche volta l’orecchia cedesse. E ciò quasi sempre mentre si stava ritirando il secchio pieno dal pozzo. Bisognava allora recuperare il recipiente con l’uso dei “luv”, un insieme di arpioni snodati che venivano agitati sul fondo del pozzo fino a quando non agganciavano il secchio permettendone il recupero. Per sostituire l’orecchia staccata in questo caso occorrevano borchie di ferro perché fossero più resistenti.
Al bên
Preghiera del Venerdì Santo
(La Madonna)
si partì il Venerdì Santo
con gran pianto
e con gran voce
per adorar la Santa Croce.
Santa Croce l’adorèsti (l’adorasti)
prestamente l’abbraccièsti (l’abbracciasti).
Figlio del mio Cuore,
figlio del mio Sangue,
questa è la Croce
che (su cui) io Ti vedo morto.
Candela luminaria,
santina verginaria,
sessanta volte questa dirai,
e la pena dell’inferno
mai la vidi e mai la vedrai.
[(La Madonna) partì il Venerdì Santo / con gran pianto / e con grande stridore / per adorare la Santa Croce. - La santa Croce l’adorasti / e prontamente l’abbracciasti. - “O figlio del mio cuore, / o figlio del mio sangue, / questa è la Croce / su cui Ti vedo morto”. - Candela che illumina, / immaginetta della Vergine (?) / dirai sessanta volte questa (preghiera) / e le pene dell’inferno / mai le hai provate e mai le proverai].
Filastrocca
Fa la nàna
Fa la nàna, Cuchèta,
che la màma l’è ‘ndâda a Mèsa,
che ‘l pupà l’è ‘ndâ al mercâ
a cumprâr un scranîn furâ (1).
In alcune versioni la filastrocca continua con versi di un’altra composizione analoga (Cfr.: nel mese di Febbraio).
- La seggiola forata esisteva veramente, e con uno scopo ben preciso: servire da servizio igienico per le persone impedite nei movimenti. La chiamavano La Còmda.