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Il profumo della mia terra / Aprile 1ª parte

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Aprile Mosaico del Duomo di Otranto

Sì, la premessa è allettante: “Aprile, dolce dormire”, ma decisamente si tratta di una espressione per nulla azzeccata. Perché proprio Aprile è il mese del risveglio incontrollato della natura. Avevamo visto già in marzo i primi segnali di un ritorno alla vita, segnali captati dalla comparsa di certi uccelli migratori, dallo sbocciare di fiori e gemme, da quel sole tiepidino che invoglia a stare all’aperto. Le giornate sono già abbastanza lunghe. Nei vigneti la potatura è stata terminata. C’è ancora qualche uomo indaffarato a pulire le siepi, intento a radunare le sterpaglie in un luogo in alto per il falò, mentre nei prati girano, apparentemente senza meta, donne intente a raccogliere i radì-c servàdghe da condire come insalata. Il clima comincia ad addolcirsi e la campagna ad asciugarsi, perché, si sa, se gennaio e febbraio hanno accumulato neve e marzo l’ha sciolta col disgelo, Avrîl al sûga la via! E sui prati che stanno rinverdendosi non è raro scorgere lunghe pezze di tela esposte al sole perché le sbianchi a dovere.

 Il pesce d’aprile

Penso che la voglia di divertirsi alle spalle di qualcuno sia vecchia come l’uomo ed abbia superato tempi e confini per rigenerarsi e adattarsi ai vari climi e generazioni. Parlare del pesce d’Aprile mi sembra superfluo, visto che è ancora attuale e si rinnova ogni anno. Da noi però aveva un altro nome pur ricorrendo nella stessa data: si diceva Fâr purtâr al cúch. Era come una gara a chi riusciva a procurarsi più vittime. E la gerarchia, bene o male veniva rispettata, dagli uomini fatti fino ai bambini. Vi era però un certo timore riverenziale verso gli anziani, dettato forse più dalla paura di rivalse che da un sincero senso del rispetto.

La maggior parte degli scherzi consisteva nel far fare un buon tratto di strada al malcapitato, inventando scuse plausibili, oppure nell’imporgli garbatamente una bella faticata, logicamente inutile. Neppure i sentimenti venivano risparmiati: quando si veniva a sapere che due giovani flirtavano non era raro che qualche buontempone preparasse un messaggio ove si fissava un appuntamento lontano da occhi indiscreti, naturalmente alla insaputa di chi veniva tirato in causa. E quando l’attesa cominciava a protrarsi ecco che il tarlo del dubbio si faceva strada. Non restava che rientrare a casa o al lavoro, scornato. Qualcuno arrivava oltre: giocando sulle speranze e le credulità delle persone si inventava il pagamento di un non meglio specificato sussidio, calcando la mano che bisognava presentarsi in giornata all’ufficio postale, prima che finissero i soldi.

Qualcuno lega la tradizione del pesce con l’arrivo reale del cuculo:

Al cúch l’ha da gnîr

tra ‘l sèt e l’òt d’Avrîl.

S’a n’ vên tra ‘l sèt e l’òt

o cl’è môrt o cl’è còt!

[Il cuculo deve arrivare tra il sette e l’otto di Aprile. Se non arriva tra il sette e l’otto, o che è morto (durante l’inverno) o che è cotto (perché ammazzato dai bracconieri)].

Ma com’è nata questa usanza?

Qui il discorso si fa lungo e contorto. Alcuni collegano il rito all’inizio dell’anno nuovo, un tempo fissato al 21 marzo, in coincidenza con l’arrivo della primavera. Altri vi scorgono il richiamo alla morte e resurrezione di Cristo (anche questo legato al ciclo naturale della primavera). Il che sarebbe confermato dal simbolo cristiano del pesce trovato nelle catacombe. In greco pesce si dice Ikthys. E i primi cristiani si riconoscevano col simbolo del pesce, tramite l’acrostico Ikthys, cioè: Iesoûs Kristós, Theoû Yios, Sōtēr = Gesù Cristo, di Dio Figlio, Salvatore. Ma in questo caso non era uno scherzo. C’era di mezzo la pelle!

L’inizio dell’anno fissato al primo gennaio è relativamente recente. Risale alla riforma del calendario voluta da Papa Gregorio XIII nel 1582. In Francia erano partiti con qualche anno di anticipo, nel 1564. Siccome qualcuno continuava a festeggiare l’anno nuovo in primavera, a costoro gli veniva recapitato un grosso pacco con dentro un biglietto su cui si leggeva: Poison d’Avril (pesce d’aprile), come per dirgli di svegliarsi. In Italia pare che la prima città ad introdurre l’usanza del pesce sia stata Genova, tra il 1860 e il 1880.

La domenica delle Palme

Era l’avvio del ciclo pasquale, e sconveniente, per l’opinione della gente, non recarsi in chiesa e non ritirare un rametto d’ulivo benedetto. Perciò le donne e i piccoli andavano alla prima messa, mentre gli adulti, in particolare i capifamiglia, alla messa solenne per partecipare anche alla processione. Era l’occasione per incontrare altri Rešdûr, scambiare qualche parola, ricevere informazioni. Oggi lo diremmo socializzare.

 

Se la Chiesa, con la cerimonia, intendeva ricordare l’ingresso trionfale del Redentore in Gerusalemme, per la gente del territorio acquistava un altro significato: procurarsi un oggetto che fungesse da talismano contro i danni prodotti dalle intemperie. Proteggere, insomma, con ogni mezzo, il lavoro dell’intera annata e il sostentamento della famiglia. Quei ramoscelli venivano ridotti in tanti piccoli frammenti di tre o quattro foglie l’uno da utilizzare, come vedremo in seguito, per le croci da collocare nei campi. Parte delle foglie veniva conservata e usata in caso di temporale. Non vi erano problemi per la conservazione perché

L’ulîva bendèta

la brûša verda e sèca!

Ma la domenica delle Palme in alcuni paesi era anche l’occasione per inventare giochi a lunga durata. Data la stagione e il sangue caliente non ci vuol molto a capire dove quei giochi andavano a parare: procurarsi il moroso o la morosa. Uno di questi espedienti consisteva nello spartirsi, la domenica delle Palme, una foglia d’ulivo. “La domenica delle Palme, i giovani del paese, a coppie, prendevano una fogliolina, la spezzavano in due e se la dividevano, avendo cura di portarla, in seguito, sempre con sé. Durante la settimana, nelle ore e nei momenti più impensati, uno dei due usciva all’improvviso gridando: “Verde!”. L’altro doveva mostrare la sua metà per non essere eliminato”.  [Agnese Castellini - TUTTOMONTAGNA, Nº 32 - pag. 34].  E come per tante altre festività anche la Domenica delle Palme era un test sullo stato della stagione:

La domenica dell’ulivo

ogni uccello fa il suo nido,

ma se il merlo non canterà

nessun nido si farà.

Il  Giovedì  Santo

Non era considerata una giornata festiva a tutti gli effetti, però bisognava partecipare al rito della Messa e alla riposizione dell’Eucaristia nel Sepolcro. Dopo di che le campane venivano “legate”, come si diceva allora, cioè avrebbero dovuto restare mute fino alla Messa del Sabato Santo. In effetti, onde evitare qualche burla, il parroco si premurava che le corde fossero tirate al di sopra del primo piano e la porta del campanile chiusa a chiave. A sostituire i loro richiami vi erano altri strumenti: le raganelle (alcuni le chiamavano anche carabattole, altri raganèli, ranelle o arbàtle, ma ho trovato anche il termine ragna, ragni e ragnòle), il cassone, una scatola di legno al cui interno erano appesi dei martelli; agitandoli producevano un suono cupo e prolungato, quasi funereo, e, per raggiungere i luoghi lontani, il  corno o la Nìcia, sempre presenti nelle comunità di un tempo sia per annunciare eventi favorevoli o sfortunati.

Però a colpire la fantasia di noi ragazzini erano i fiori che adornavano il sepolcro. Il parroco, o chi per lui, si ingegnava come poteva e come voleva ormai l’usanza: seminava per tempo del grano in alcuni vasi che poi collocava in un ambiente caldo e buio, quasi sempre la cantina. Quando il grano cominciava a crescere si ponevano i vasi su mensole, in modo che l’eventuale luce filtrasse più in basso dei vasi. Il buio, l’umidità, la grande quantità di semi e la tendenza dei germogli ad andare verso la luce producevano una cascata di sottilissimi steli bianco-dorati che scendevano dai gradini dell’altare simili a bionde parrucche.

Venerdì  Santo

Chi lo chiamava il giorno del Cristo Morto, chi il giorno della Messa matta o delle campane legate, chi ancora come Giorno della passione. In effetti la Morte di Gesù veniva ricordata con letture della Passione, con la Via Crucis, con la chiesa addobbata a lutto, con la predica delle Tre Ore, ma non veniva celebrata la Santa Messa né ci si comunicava. Si percepiva nell’aria un senso di attesa di qualcosa di misterioso, di non ben definito, di un evento che si sarebbe realizzato senza capirne né la provenienza, né l’attimo dell’attuazione.

Bisognava osservare il digiuno stretto e l’astinenza assoluta dalle carni. Motivo valido per dedicarsi, quel giorno, a lavori non troppo pesanti. Anche perché, sotto sotto, serpeggiava il clima festivo della Pasqua.

Sabato  Santo

Prima di partire in frotta verso la chiesa bisognava sbrigare tutte le faccende consuete, magari suddividendosi gli incarichi per fare prima. C’erano gli animali da accudire, preparare la legna per il forno e per la cucina, andare alla fontana a prendere l’acqua per bere e per cucinare, poi ci si poteva preparare per la Messa.

Le cerimonie sacre cominciavano a metà mattinata e duravano a lungo. Lascia pure che il prete cercasse di accelerare la lettura delle interminabili profezie e dei salmi intercalari, ma di tempo ne occorreva comunque tanto. Perché tutti i preparativi, tutti i passaggi liturgici dovevano fare sì che la messa iniziasse qualche minuto prima del mezzogiorno. A mezzogiorno in punto, in coincidenza con l’intonazione del Gloria, si dovevano slegare le campane, ferme dal Giovedì Santo. Quello era l’attimo atteso!  Immaginiamo uno stormo di uccelli che all’improvviso si catapulta giù da un tetto, risale, rotea nello spazio creando infinite geometrie e cadenze, e ritorni con un crescendo di cinguettii, di fruscii di ali, in una esplosione di vitalità incontrollabile. Come in una tacita gara con gli altri campanili, il concerto durava a lungo. Le persone più compassate, contente del concerto, ma disposte a lasciare che altri si sfogassero attorno alle corde delle campane, preferivano cercare di individuare quali altre parrocchie rispondessero: Rosano, Gombio, S. Giovanni, Vedriano. E se il vento spirava da Est a Ovest si potevano udire anche le campane di Leguigno e Villaberza. È lo stesso stato di ebbrezza che si impossessava di noi ragazzi alle prese con sogni da trasformare in realtà, con esigenze interiori di dimostrare (non si sa a chi!) la nostra crescita rispetto al periodo trascorso. Non chiedetemi che cosa, in definitiva, dovevamo dimostrare. Nulla di trascendentale: solo che eravamo più grandi di un anno e che potevamo prendere parte alla festa intorno al falò e sparare col potassio o col carburo, (sparare col fucile era permesso solo agli adulti). E grandi lo diventavamo presto per il lavoro, ma solo dopo i sedici anni per le altre cose quali la caccia, l’andare all’osteria o il recarsi a ballare.

I   falò

Erano la caratteristica del Sabato Santo. In altri luoghi i falò vengono accesi in circostanze diverse: per l’epifania in Veneto, tutte le vigilie delle festività mariane nelle Marche. Da noi invece si accendevano solo la sera del Sabato Santo. Già da qualche settimana prima venivano radunati su una altura sterpi di ogni genere, preferibilmente rovi ricavati dalla pulizia delle siepi, e molto ginepro. Ed era importante che il cumulo di sterpaglia raggiungesse una consistente altezza, bruciasse a lungo e producesse una fiamma alta: lo dovevano scorgere dai posti più lontani della vallata. Perché, in definitiva, si trattava di una vera e propria gara a chi lo realizzava meglio per volume e per durata. Il premio? Beh! la soddisfazione di sentire dire in giro: “Il migliore è stato quello del Tal dei Tali”.

 

Appena buio comparivano sui cucuzzoli i falò, i fuochi di Pasqua... Fuochi utili ad eliminare scorie fastidiose, ma anche fuochi propiziatori in una notte magica,  fuochi atti a rievocare la luce della Resurrezione del Cristo, e, allo stesso tempo, il rinnovato, incontenibile vigore di una irrompente primavera”.

Sui colli, dipinti

nel chiaro orizzonte,

chi accende fiammelle,

frammenti di stelle?

Gli scarni profili

di uomini stanchi

la luce riflette;

di bimbi festanti

le amene risate

fan lieta la sera;

di fresche speranze

la fiamma leggera

memorie ridesta.

  (Da  UN POCO DI NOI 1997, pag. 117)  

3 COMMENTS

  1. E’ una simpatica e gradevole “carrellata” di abitudini, costumi e modi di dire del passato, molti dei quali si sono andati via via perdendo, anche se, presumibilmente, avrebbero potuto benissimo convivere con la “modernità”. Da qualche parte c’è chi ha cercato di mantenere quelle tradizioni e consuetudini, o vi sono lodevoli tentativi per riportarle in vita, ma non sono, o quantomeno non lo sono ancora, usanze di “popolo”, ossia di una intera comunità o quasi, come era una volta, tanto da configurarsi anche quale elemento di identità.

    (P.B.)

    • Firma - P.B.