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Il profumo della mia terra / Marzo 2ª parte

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 B. Antelami: Marzo (Duomo di Modena)

 La Quaresima

Mezzanotte tra il martedì grasso e il mercoledì delle Ceneri: doveva cessare ogni tipo di baldoria, di divertimento per passare a quel clima di austerità completa che la parola Quaresima comportava. A richiamare all’ordine ci pensavano le nonne. Un minimo di tolleranza era ammesso solo per permettere alle maschere di concludere il giro.

Mercoledì delle Ceneri: così chiamato perché ci si doveva recare in chiesa a ricevere l’imposizione della Cenere benedetta ed iniziare il lungo cammino della Quaresima. Le ceneri venivano ricavate dalle ultime foglie d’ulivo benedetto rimaste dal precedente anno, conservate di proposito. Mentre il sacerdote recitava la formula del Memento, homo (Ricordati, uomo, che sei polvere e polvere ridiventerai) ne prendeva un pizzico e lo poneva sul capo dei fedeli tracciando una croce. Il rito voleva sottolineare la volontà di riconoscersi peccatori e di ravvedersi. Un tempo erano obbligatori il digiuno e l’astinenza. Per il digiuno non si trattava di un grande sacrificio; in definitiva era una condizione permanente. Per l’astinenza invece si rimediava col baccalà o con le saracche.

Imposizione delle ceneri

A pranzo si consumava una razione di minestra “descûnsa”, cioè senza lardo, e dopo qualche foglia di radicchio di campo o una cipolla in pinzimonio. Altrimenti si poteva variare con la polenta, che offriva il vantaggio di predisporre pure la cena: quella rimasta, tagliata a fette e asciugata, veniva posta sul tripê o sopra al mujèti, quasi a contatto con le braci, abbrustolita per bene e lubrificata con mezza saracca, anch’essa riscaldata sulle braci. La polenta non mancava mai, specialmente d’inverno, ma quanto poi ad apprezzarla era un altro discorso. Lo vediamo sotto forma di filastrocca più avanti.

Purtroppo però c’era il rischio della pellagra a causa del troppo uso di polenta. Questa malattia era dovuta alla carenza della vitamina PP [Pellagra Preventing], e colpiva quasi esclusivamente popolazioni rurali. Era diffusa prevalentemente al Nord (Lombardia, Veneto), ma anche da noi. Si è ritenuto che la Pellagra influisse anche sulla salute mentale predisponendo alla pazzia.  "... i pellagrosi affluivano al manicomio in tristissimo stato: dopo pochi giorni morivano... Le inondazioni (vicino al Po) avevano portato carestia e miseria; e la miseria pellagra".  (LA MONTAGNA FRA LA SECCHIA E L'ENZA - Memorie e studi di alpinisti reggiani - Forni, 1976, ristampa anastatica sull'edizione del 1876 - pag. 127).

 Il grande bucato

Bucato al fiume – Compiano 1948 - (Foto Lodi p. g. c.);

L’aria di primavera comportava anche un impegno per il riordino delle cose di casa. Bisognava sbrigarsi prima che i lavori occupassero tutta la giornata e buona parte delle energie. Uno degli impegni più brigosi era il bucato di primavera. Appena il tempo volgeva al bello le donne preparavano tutto l’occorrente: il grande mastello di legno (la söja da la bugâda) piazzata sul cavalletto, la cenere ben setacciata, in modo che non vi rimanesse neppure il più piccolo carbone, lo straccio da usare come ulteriore filtro e che avrebbe impedito alla cenere il contatto col resto del bucato.

Il giorno fissato, di buonora, si accendeva il fuoco sotto il capiente Paröl e si faceva bollire l’acqua. Se un paiolo non era sufficiente si ripeteva l’operazione una o più volte. Intanto le donne disponevano all’interno della tinozza lenzuola, asciugamani, burazzi, federe, tovaglioli, tovaglie, e quanto era omogeneo. Quando la tinozza era colma vi si applicava sopra il telo predisposto in modo che coprisse tutto il bucato e gli orli uscissero abbondantemente oltre i bordi del mastello. Sul telo veniva poi posta la cenere, e sopra di questa si versava l’acqua bollente. Quando tutta la biancheria era sommersa si lasciava riposare il tutto. Il ranno veniva spesso corretto con scaglie di sapone grezzo, fatto in casa o comperato dal merciaio (al Marsâr) che periodicamente raggiungeva il villaggio.

 Saccardi Nanda e Anita Giorgini di Vedriano  “Sbattono”  e “strizzano” il bucato. 1940 (Foto Oreste Cavallari)

Quando la padrona riteneva sufficiente l’ammollo toglieva il tappo alla tinozza e lasciava che il ranno se ne andasse per i fatti suoi. Il telo da bucato veniva raccolto a mo’ di sacco intorno alla cenere bagnata, sollevato e scaricato vicino alla pianta di rosmarino. Sarebbe servito d’estate per tenere fresca la pianta, e d’inverno ad isolarla dalle gelate.

Al nostro villaggio non c’era l'acqua corrente e, quindi, non esisteva un lavatoio pubblico. All’interno di un avvallamento, a quasi un chilometro, vi era una sorgente che teneva botta fino all’estate inoltrata. Dal luogo scosceso e disagevole aveva preso il nome di Alla Bora. Gli uomini del paese, chissà da quanto tempo, avevano costruito due vasche: una raccoglieva l’acqua sorgiva, l’altra quella di decantazione dalla precedente. Quest’ultima, in occasioni come queste, serviva da vasca di risciacquo, mentre durante l’estate diventava abbeveratoio per le mucche.

Se occorreva sbiancare ulteriormente i teli, venivano stesi sul prato e ogni tanto inumiditi con acqua pulita. Altrimenti si tirava la sūga (fune) fra due grossi alberi, a mezza altezza, in modo da raggiungerla facilmente, ma con un occhio attento a che il bucato non toccasse terra. Magari ciò veniva impedito inserendo un puntello a metà campata della fune.

La tessitura

Dall’inizio dell’autunno e per tutto l’inverno le donne di casa erano impegnate a filare lana o canapa, a sbiancare con la liscivia le matasse prodotte, a dipanarle e trasformarle in gomitoli. Dopo si montava il grosso telaio, nella stalla se vi era una posta vuota, altrimenti in un altro locale chiuso. E lì cominciava la lunga fatica del tessere. Tutti i gomitoli erano già stati trasformati in ordito e questo arrotolato sul subbio anteriore tenendolo ben disteso. Ogni singolo filo veniva inserito nel liccio, quindi nel pettine e infine, legato ad un’asticella fermata al subbio posteriore. Di licci ve ne erano due serie, ciascuna trattenuta da due aste di legno, una sopra e una sotto, e collegate tra loro in alto con due funicelle che scorrevano entro due pulegge, e nella parte inferiore fermate ai pedali. Moltiplicando e disponendo diversamente i licci si potevano ottenere disegni precisi sulla tela, quali la tessitura a spina di pesce. Si passava quindi alla tessitura vera e propria. 

La filatrice  (Foto Lodi p. g. c.)

 Al   bên

Madunîna câra, câra

Madunîna câra, câra,

imprestêm la vostra scâla

ch’i’ ho d’ andâr in Paradîš

a catâr San Luîš.

San Luîš l’era môrt;

la Madùna l’era int l’ort

a catâr di gelsumîn

bianch e rùs e risulîn.

La Madùna la i’ ha catâ,

San Giuvàn a i’ ha badzâ.

Canta, canta, rôše e fiûr,

ch’ l’è nasû Noster Signûr.

L’è nâ in Betlemme

tra il bue e l’asinello,

senza fasce né mantello

per fasciare Gesù Bello.

Gesù bello, Gesù e Maria,

tutti gli angeli in compagnia.

Cun la lûna e cun al Sûl,

sia ludâ Noster Signûr!

[Madonnina cara, cara / prestatemi la vostra scala / che devo andare in Paradiso / a trovare San Luigi. - San Luigi era morto; / la Madonna era nell’orto / a raccogliere gelsomini / bianchi, rossi e ricciolini. - La Madonna li ha trovati, / San Giovanni li ha battezzati. / Canta, canta rose e fiori, / perché è nato Nostro Signore. - È nato in Betlemme / tra il bue e l’asinello, / e la fascia di mantello / per fasciare Gesù bello. - Gesù bello, Gesù e Maria, / tutti gli angeli in compagnia. - Con la luna e col sole / sia lodato Nostro Signore]. 

Questa versione ha sofferto troppo dei vari passaggi orali e ne è venuto fuori un miscuglio di diverse preghiere messe assieme a memoria. Delle varie versioni che conosciamo una dice, dalla seconda strofa in poi:

San Luig l’era mort,

la Madùna l’era int l’ôrt

a sercâr di’ bèi fiurtîn

da purtâr al su’  Bambîn.

................................

Piên ad rôši, pien ad fiûr,

la Pasiûn ed Noster Sgnûr!

Noster Sgnûr quand al nasìva

túta la tèra la fiurîva, 

e i’ angiulîn a cantâr,

la Madùna a predicâr.

.............................

Noster Sgnûr l’era in šnuciûn

ch’al cantêva l’urasiûn.

[San Luigi era morto; / La Madonna era nell’orto / a cercare bei fiorellini / da portare al suo Bambino. - Pieno di rose, pieno di fiori, / la Passione di Nostro Signore! - Quando Nostro Signore nasceva / tutta la terra fioriva; / e gli angeli a cantare, / e la Madonna a predicare! - Nostro Signore era in ginocchioni / che cantava l’orazione......].

Filastrocca

Le condizioni di un tempo?  Polenta a pranzo, polenta a cena e polenta a colazione. Ecco alcune strofette, un poco scoordinate, ma significative. 

C’è l’aspetto positivo …

Ad pulênta benedèta

a gh’è piena la parlèta.

La parletà l’ê d’ ramûn:

la s’ pulìsa cun ‘l sabiûn,

cun ‘l sabiûn ad cul pu’ gròs,

e pu’ la s’ lâva in rîva al fòs.

La pulênta d’ furmentûn

a la màngia i pu’ cujûn,

e nujêtr’ i’ sèma d’ chî

ch’i s’ berlèchi fîn i dî.

                                                                      (Testimonianza di Ilde Rosati)

C’è quello negativo …

La pulênta d’ furmentûn

la sadùla, ma la n’ fa bûn.

La sadùla ma la n’acuntênta!

Gh’ gnìsa un cûlp a la pulênta.

La pulênta d’ furmentûn

a chi vè-c la n’ ghe fa bûn.

I šuvnòt la i’ a-spavênta.

Va a fât fùtr’ a la pulênta.

… e una variante locale:

 A brèta rùsa (1) dal Muntâl:

la pulênta la n’ ghe piâš,

al furmênt al ‘n’è madûr,

la scandèla la gh’ fûra ‘l cûl!

 (1)  Chiaramente si tratta di un soprannome derivato dall’uso costante del berretto rosso. Chissà se sotto quel berretto covava qualche idea garibaldina. Perché l’epigramma  risale al diciannovesimo secolo. Montale è una frazione vicina a Trinità.

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