24 dicembre 2016, vigilia di Natale ed io sono in viaggio verso il Brasile. A Madrid mi incontro con un'amica speciale che vive lì, con la quale condividerò questa avventura. L'emozione è tanta, la mia prima trasvolata oceanica! Per un insieme di fortunate coincidenze ci troviamo in prima classe. Spettacolare! Viaggiamo praticamente sdraiate, riverite e coccolate. Se non fosse che ogni tanto girandomi vedo, oltre le tende, il resto dei passeggeri assiepati in stretti seggiolini (questo mi fa sentire in colpa per il mio comodo "stravaccamento") direi che il viaggio è veramente fantastico.
Arrivati a Salvador de Bahia, troviamo il noleggiatore che ci aspetta e ci consegna la macchina. Un centinaio di chilometri verso nord, costeggiando l'oceano, e arriviamo a Porto de Sauipe. Tralascio le prime impressioni e l'impatto con la natura, ne scriverò nei prossimi giorni, per passare al racconto della prima uscita.
Il centro del paese di Porto de Sauipe, poverissimo, è composto di una tettoia che funge da piazzetta, un campo sportivo recintato da un’alta rete di ferro, una pista per gli skateboard, qualche gioco per bambini e un'arena, tutti in cemento, come le panchine, e coloratissimi. Intorno la strada è sconnessa, campeggiano alcuni venditori, negozi che sono sempre aperti e poi giovani, tanti giovani, solo giovani. Sembra che gli anziani siamo banditi da questo paese, o non sarà che diventar vecchi non ci si arrivi? Ovunque solo e tanti ragazzi, tutti vestiti in un unico modo: pantaloncini, canottiera o maglietta e infradito, l’unica cosa che cambia sono i colori ma tutti brillanti, ancor più per il contrasto con la pelle scura. Qui ci sono ventisette gradi, la mia mente è ancora ai meno due che ho lasciato da qualche giorno, e faccio fatica a ricordarmi che da questa parte del globo siamo in estate. Nessuno dei ragazzi che gioca a pallone nel campetto di cemento ha scarpe da ginnastica, alcuni sono addirittura scalzi e sentendo il rumore che fa il pallone sui piedi nudi mi corre un brivido giù per la schiena.
Quasi finito il periplo della piazza vediamo un gruppo di bambini e ragazzini, capeggiati da un loro quasi coetaneo, muoversi all'unisono. Affascinata, chiedo di poterli riprendere e fotografare perché per la maggior parte sono chiaramente minorenni, e loro acconsentono sorridenti.
Che belli i loro sorrisi! Uno dei ricordi più belli che ho nel cuore, il sorriso dei ragazzi, ma non divaghiamo... il gruppo comincia una sorta di ondeggiamento, un gioco di bilanciamento continuo da una gamba all'altra, per poi passare a evoluzioni aeree di gambe e braccia. Il moto è quasi ipnotico, ha un che di ancestrale. A un certo punto, tutti in cerchio cominciano a cantare una sorta di nenia, mentre al centro uno di loro si china e offre il palmo della mano aperto aspettando un compagno che batta una sorta di "cinque", per poi iniziare un combattimento danzato, mimato, ondulatorio. Si studiano oscillando, lanciano l'attacco, ma senza mai colpire. Il gioco sta nel far finta di colpirsi e di difendersi, ma senza mai sfiorarsi. I colori attorno sono incredibili. Non sono ancora abituata alla luce quasi accecante del Brasile e ai suoi colori saturi, intensi, che ti tingono gli occhi fino all'anima. Quello che abbiamo davanti sembra un quadro, anzi uno dei tanti parei che mi ha portato proprio l'amica di cui sono ospite. Ho sempre creduto che fossero solo disegni fatti apposta per vendere qualche souvenir ai turisti, invece in un giorno qualunque in un paesino qualunque, nel quale noi siamo le uniche "estranee" nel vero senso della parola, mi ritrovo una scena identica uguale ai quadri in cui spesso si vede rappresentare la capoeira, perché è questo che stanno facendo i ragazzi, "giocano" alla capoeira.
La capoeira è un’arte marziale di origine africana, che gli schiavi Neri trasportati nelle Americhe dissimularono in danza per continuare a praticarla, si legge on line. Dopo aver passato quasi un mese a Bahia e dopo aver assistito a lezioni e manifestazioni, non sono completamente d’accordo con questa definizione. La danza certamente aiutò a dissimulare la potenzialità dei colpi micidiali di quest’arte marziale, ma non credo che ne fosse un semplice travestimento.
La danza è un elemento essenziale della cultura e della vita di queste persone e delle loro tradizioni, la loro forma di espressione più autentica. I loro antenati volevano dichiarare guerra a una tribù nemica? Lo facevano danzando. Sentivano il bisogno di pregare? Sia nei candomblé sia nelle celebrazioni delle feste cattoliche si faceva danzando. E se si vuole, ancora oggi, fare festa è impensabile farlo senza ballare. Danzano tutti, giovani, bambini, adulti e anziani. Le madri lo fanno tenendo in braccio i bimbi di pochi mesi, che ancor prima di camminare già iniziano ad assimilare i ritmi. Per quanto le case siano povere non manca mai la musica, bastano pochi amici e un qualche cassa acustica, e qui ne hanno di enormi e chiassosissime, ed è subito festa, se poi passa uno sconosciuto, nessuno si meraviglia che si unisca al ballo ancor prima di dire buongiorno.
Per questo credo che la danza non sia il travestimento della capoeira, ma ne sia invece un elemento essenziale, che aiuta a svilupparne il lato spirituale, unitamente a una fisicità impressionante. Oltre ai movimenti e alle tecniche, i praticanti imparano gli antichi canti africani e l’uso degli strumenti, il berimbau, una specie di arco con una corda metallica e l’atabaque, un tamburo alto.
Siamo rimaste affascinate da questi ragazzi così quasi ogni sera siamo ad assistere a queste evoluzioni e conosciamo da vicino qualcuno dei protagonisti di Porto Sauipe, anche perché siamo in Brasile anche per studiarli, visto che dovremo inserirli nel libro che stiamo ultimando, dove un capitolo sarà proprio dedicato alla capoeira.
Marcos Dos Santos Lopes è un ragazzo di ventuno anni, assieme ad altri coetanei insegna i movimenti base a una dozzina di bambini e adolescenti quattro volte a settimana. Li fa ripetere, corregge le posture, anima quelli più timidi e frena quelli un po’ più spavaldi. Segue con particolare attenzione le capovolte, e le posizioni in verticale in cui si appoggiano le mani e la testa a terra, e si solleva in alto tutto il corpo, è importante muoversi correttamente, ancor più visto che il pavimento della piazza è lastricato in cemento, e tutti sono a piedi nudi.
Marcos Pratica capoeira da quando aveva otto anni, e ora, ci spiega, come altri insegnarono a lui, è venuto il suo turno di insegnare ad altri. Si alza alle cinque tutti i giorni per prendere l’autobus che lo porta al lavoro, ma fa in modo che i bambini del paese possano praticare capoeira con regolarità gratis. "Gratis?" Chiediamo quasi in coro durante un'intervista, "Certo” ci risponde, ridendo dell’assurdità della nostra domanda, “Se non fosse stato gratis, io non avrei potuto imparare”. Chiediamo a Marcos cosa rappresenta la corda che lui e un altro ragazzo, che lo aiuta nella lezione, hanno legato sui fianchi e ci spiega che è il "cordao" o "cordel": nella capoeira è l'equivalente delle cinture nelle arti marziali come karate e judo. Viene assegnato durante una cerimonia detta batizado (battesimo). Spesso consiste in una treccia di nove fili ed è adottato nella Capoeira Regional e da alcuni gruppi di Angola. Ogni scuola ha il suo peculiare sistema di cordel, il che rende impossibile giudicare il livello di un capoeirista solo dal colore del cordel se non se ne conosce la scuola. Chiediamo se conosco la regina Ginga, che secondo una nostra teoria avrebbe dato il nome a un passo base, l'elemento unificante tra i colpi di attacco, le schivate difensive e gli elementi puramente acrobatici, caratteristica, quella di continui spostamenti e cambi di posizioni, propria del modo di condurre la sua vita da regnante, mai sottomessa agli schiavisti (le ricerche che stiamo facendo in Brasile vertono proprio su schiavi ribelli, per questo siamo ben informate), ma i ragazzi non la conoscono. Come ci capiterà di scoprire, molte volte le persone qui non conoscono la loro storia vera, ma solo quella “scritta” dai colonizzatori.
Alla domanda “Perché all’inizio e alla fine di ogni lezione pregate tenendovi per mano tutti assieme” risponde che chiedono a Dio il permesso di fare ogni cosa nella vita, poi ci saluta, perché vuole andare a studiare, dice che deve imparare ancora molte cose della capoeira, e che se non studia non potrà diventare un bravo insegnante.
Ci rendiamo conto di quanto avrebbero da imparare da lui i nostri adolescenti, non solo di arti marziali, ma di maturità e senso di responsabilità.
Durante una “roda”, scopriamo che si chiama così il circolo di persone al centro del quale si gioca capoeira, rimaniamo impressionate da Pinguim. La sua agilità, velocità e potenza ne fanno certamente un fuoriclasse, un autentico fenomeno, una specie di Bruce Lee, ma senza quell’espressione truce e minacciosa e quel colorito malaticcio. Al contrario, Pinguim ha il sorriso ampio e solare dei Bahiani, abbagliante nel contrasto con la pelle di un lucente tono scuro, che riveste una muscolatura spettacolare. Da fermo sembra intagliato nell’ebano. Pinguim non è il suo vero nome, ma tutti lo conoscono con quello, tradotto letteralmente significa “pinguino”. Perché mai gli abbiamo dato questo nome o se sia una sua scelta forse ormai non se lo ricorda più nessuno. Di certo le sue movenze non hanno nulla della goffaggine, rigidità e lentezza del pennuto dell’Antartide. Elegante come un felino e agile come una scimmia, di fronte agli occhi attoniti del pubblico, Pinguim, esegue acrobazie spericolate e si lancia con disinvoltura in un triplo salto mortale all’indietro, lì, nella piazza del paese, pavimentata con cemento, e quasi senza spazio per la rincorsa. Le mosse dell’arte marziale sono mascherate nell’acrobazia e nella danza, ma non c’è bisogno di essere un esperto in arti marziali e combattimenti per comprendere che un calcio che arrivi con la velocità e la potenza impresse dalla rotazione, è un colpo che non perdona.
Anche Pinguim, assieme a Marcos, si alzerà il giorno dopo alle cinque per prendere l’autobus che lo porterà al lavoro, quello di animatore in un resort di lusso, dove qualche turista ricco, noioso e annoiato, dopo aver speso in una notte, solo per dormire, quello che loro non guadagnano in un mese, parteciperà pigramente a qualcuna delle loro lezioni di ballo o di ginnastica.
Conosciamo il maestro Admir Gonzaga, quarantotto anni, l’ultima domenica che passeremo in Brasile, durante la festa più importante dell’anno: “il lavaggio” (anche di questo parlerò in futuro). I maestri e gli allievi aprono il corteo proprio giocando la capoeira e lui è giustamente orgoglioso di loro.
Admir portò la capoeira a Sauipe trenta anni fa da Salvador, dopo averla imparata nella scuola di Mestre Bimba, creatore della capoeira regionale. Nel 1930 la politica nazionalistica del presidente/dittatore Getúlio Vargas, in cerca di uno sport da promuovere come sport nazionale, diede l'opportunità a Mestre Bimba di riscattare la fama negativa della capoeira mediante lo stile di "Lotta Regionale di Bahia", da lui ideato. Nel 1932 gli fu permesso di aprire la prima accademia nella quale impose anche delle regole di disciplina per ripulire la cattiva immagine che l'opinione pubblica aveva della capoeira. Dopo una pubblica esibizione di Mestre Bimba e dei suoi allievi finalmente lo sport ebbe il suo riscatto, e cominciò la sua lenta ascesa.
Nel 1974 la capoeira è stata riconosciuta come sport nazionale brasiliano.
Admir ha iniziato a diciassette anni a frequentare l’accademia, ma già da piccolissimo la giocava per le strade. Per proseguire nell’insegnamento a Porto Sauipe spesso paga di sua tasca, nessun contributo arriva dalle autorità locali. In questi decenni, decine e decine di ragazzi e ragazze hanno partecipato ai corsi, e gli atleti contribuiscono con le loro “rodas” (manifestazioni) ad animare le feste locali. Alcuni hanno trovato lavoro anche grazie a questo. Ora il suo sogno è di riuscire a costruire una vera sede in cui far allenare i ragazzi nelle condizioni ottimali.
Auspichiamo che le autorità del posto comprendano il patrimonio umano e culturale che rappresenta questo gruppo di atleti, e che facciano sì che possano presto disporre di una palestra adeguata per gli allenamenti, con materassini per apprendere e praticare con più tranquillità e migliore igiene le acrobazie di questa nobile arte marziale di origine africana, ma ora vero emblema del Brasile, di cui essere fieri e orgogliosi, perché non solo concilia sport e ballo, ma è un vero modo di vivere, con principi sani e puliti.
A proposito di quanto dicevamo sulla presenza della danza in tutte le loro espressioni, dimenticavo di aggiungere, che durante una “roda” gli stessi atleti, che un attimo primo simulavano mosse di attacco e di difesa, hanno interrotto una decina di minuti per lanciarsi in una samba sfrenata, cui si è unita anche la “regina” della samba di Sauipe, Val, la giovane mamma di Marco, ma di lei e della samba parlerò nel prossimo articolo.
Beleza!
(Doris Corsini con il prezioso aiuto di Daniela Trenti)
Una rodas a Porto de Sauipe
Brava Doris, bellissimo leggerti, articolo molto bello.
(Mauro Moretti)
C’è bisogno di danza nel mondo. E di luce. Vivaddio che ogni tanto sappiamo fermarci e leggere chi ha questi doni. Nel mondo.
(G.A.)