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Un nuovo progetto narrativo della scrittrice Normanna Albertini con Enrico Bianchi

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Il cugino di Normanna Albertini, Enrico Bianchi in questa foto negli anni 50

La fertile scrittrice felinese Normanna Albertini questa volta ci presenta un nuovo progetto narrativo con il cugino Enrico Bianchi. Una memoria a due, per costruire un archivio del ricordo, per ridare vita a un mondo semplice e duro, che sa di fatica. E mentre ne leggiamo lo avvertiamo coi cinque sensi, ritrovandoci immersi in un passato prossimo che ci appartiene.

Redacon seguirà questa nuova serie di racconti, pubblicando alcuni stralci in anteprima, come già fatto col progetto divenuto poi la raccolta

'Sulle spalle delle donne' Garfagnana Editrice.

 

 

 

***

Lo zio Ambrogio

A volte, lo zio Ambrogio rimaneva in campagna da mattina a sera, allora, a mezzodì, gli portavamo un “cavàgn”, coperto da un tovagliolo, contenente il fiasco del vino, quello dell’acqua, pane e companatico per il pranzo. Quando invece mangiava a casa, si sedeva a capotavola, di fronte alla porta d’ingresso; accanto, voleva me e mio fratello, mentre Mimma ci serviva, per poi sedersi a mangiare all’altro capo del tavolo.

E Jusfina? Se ne stava su una sedia, vicino al camino, con il piatto in grembo, come un po’ tutte le donne di quel tempo. A tavola non l’ho mai vista.

Intanto, lo zio Ambrogio aggiungeva nel suo piatto (che fosse minestra, o risotto o pastasciutta poco importava) un po’ di vino rosso, e un po’ lo versava anche a me, che dovevo pur diventare uomo!

Alto, dritto, muscoloso, con due spalle larghe da lottatore e un bel volto gioioso, sempre colorito, lo zio Ambrogio era uomo di poche parole. Ogni sera lo osservavo mungere, affascinato; lui mi faceva accostare, sorrideva e mi spruzzava il latte in bocca direttamente dal capezzolo della vacca.

La sua immensa passione, tuttavia, non era il lavoro, ma la caccia: bastava si mettesse in spalla un fucile, uno di quelli che teneva appesi alla parete sopra la panca, che s’illuminava di entusiasmo.

Il suo cane si chiamava Chin e, come tutti i bravi cani da caccia, era costato parecchio. Per questo, un giorno, ebbi paura della reazione dello zio a una mia marachella.

Povero cane legato alla catena! Io, bimbo di città, non sopportavo di vederlo così, dunque decisi di portarlo a fare una passaggiata usando una corda come guinzaglio. Soltanto che Chin, ad un certo punto, stabilì che era ora di andarsene per i fatti suoi: mi diede uno strattone, si liberò e scomparve nell’erba alta. Rimasi impietrito e singhiozzai disperato, tornando poi verso casa con la coda tra le gambe. Cosa avrei potuto dire a mia discolpa? Come avrebbe reagito lo zio?

Mi accucciai a ridosso di una siepe e continuai a piangere per un paio d’ore, finché un fruscio mi allertò: tra i cespugli comparve il bel muso di Chin, dietro al quale, letteralmente trascinato, c’era lo zio. Sollievo: io avevo perso Chin e lui mi aveva ritrovato.

Zio Ambrogio mi tirò su e mi disse: “Bene, lui aveva bisogno di correre. Adesso andiamo che c’è da mungere.” Mentre camminavamo, il dramma svanì nella tranquilla stretta della manona dello zio e ci dirigemmo verso la stalla.

Ogni sera, dopo la mungitura, si portava il latte al punto di raccolta cui facevano riferimento tutti i contadini dei poderi limitrofi. Si trattava di un casotto di mattoni forati, al bivio per la Bocca, tirato su alla bene e meglio, dove il casaro di Roncroffio arrivava con il suo camioncino per caricare il latte. Ovviamente i secchi venivano pesati con una grossa stadera, quindi il casaro segnava il peso sul suo registro e sul libretto che ogni agricoltore portava con sé, così, alla fine dell’anno, una volta venduto il formaggio, ad ognuno andava il ricavato in base al latte conferito al caseificio.

Un metodo semplice di cooperazione che lasciava ai contadini la proprietà privata di bestie e campi e socializzava la trasformazione del latte.

Per me, il bello cominciava dopo la partenza del casaro, quando il buio prendeva il sopravvento, perché nel casotto non c’era luce elettrica. Quasi tutti gli adulti tiravano fuori il tabacco (il moro) e le cartine dalle loro scatolette metalliche e arrotolavano le sigarette per poi accenderle. Improvvisamente, le braci illuminavano il casotto e aumentavano d’intensità ad ogni tiro. Sembravano lucciole in volo. Intanto, fluivano i racconti, le notizie riportate di bocca in bocca, come in un giornale radio.

Io li ascoltavo, finché vedevo dissolversi quella sorta di lucciole e mi accucciavo sulle ginocchia di zio Ambrogio, inspirando il suo gradevole odore di fatica.

 

4 COMMENTS

    • Ma che bravi, mia cugina e mio fratello, io ero più piccolo, ma lo zio Ambrogio lo ricorderò sempre insieme a zia Bruna, nonna Jusfina e la mia Mimma. Grazie Normanna! I Tuoi ricordi mi fanno tornare indietro nel tempo.

      (Domi Bianchi)

      • Firma - Domi Bianchi
  1. Davvero molto bello. Ma chi aveva dubbi; Normanna è bravissima, conoscerla è un onore. Mi pare si possa dire altrettanto del cugino Enrico. Mi auguro possa anche in questo caso nascere un libro in grado di ricordare un mondo che troppo velocemente stiamo dimenticando.

    (Oreste)

    • Firma - Oreste