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Il profumo della mia terra / Marzo 1ª parte

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Marzo -  Mosaico della cattedrale di Otranto

Il tempo si è fatto più clemente, le giornate abbastanza lunghe, il lavoro è come un mutûr da rudâr, cioè da mettere in esercizio con le dovute cautele, ma comunque pronto a riprendere il lungo viaggio che lo porterà a San Martino e oltre. Ricordiamo che

Tre cose vuole il campo:

buon lavoratore, buon seme, buon tempo.

La neve è scomparsa quasi ovunque. Se qualcosa rimane la puoi scoprire solo negli anfratti posti a l’albašîn (1), con la peculiarità di costituire l’ultima palestra per fare la šlisaröla. Qualche pianta precoce ostenta le prime gemme. Toccherà a chi deve condurre al pascolo le pecore fare in modo che esse, le gemme, non vengano danneggiate. Nelle zone solatie, in prossimità degli argini ben protetti, cominciano ad apparire le lucertole e qualche timida viola. Questo accadeva quando ero piccolo, quando non esisteva l’effetto serra né si sapeva cosa fosse l’ozono. Quando le stagioni avevano un ritmo regolato solo dal calendario della Natura.

Dalla vigna si raccolgono gli ultimi viticci per farne fascine e per pulire il vigneto. Anche le siepi debbono essere ripulite: così sarà più facile rasentarle coi carri o l’aratro senza pungersi, e gli sterpi raccolti serviranno il Sabato Santo per il falò. Lungo i filari gli olmi e gli oppi (acero campestre) assomigliano a scheletriche mani protese verso il cielo, immobili, rassegnate, in atteggiamento di preghiera per rinascere. Nell’atmosfera vi è qualcosa di nuovo, qualcosa di vitale che sta per sprigionarsi. Quel clima ti mette l’argento vivo addosso. E a noi ragazzotti in una via di mezzo tra l’infanzia e l’adolescenza metteva la voglia di correre scalzi giù per le colture, di fare al cucmartêl  (le capriole), di salire sugli alberi in una perenne gara di abilità fine a sé stessa. E non era, forse, la inconscia preparazione alla vita?

  1. Sulla spiegazione etimologica del vocabolo Albašîn (Arbašîn, o Aibašîn) c’è stato un costruttivo dibattito su Facebook nel Gennaio scorso (2017), suscitato dalla dottoressa Laura Magnani. In breve: si parte dal latino Opacìvus = ombroso, oscuro (e quindi freddo). Il termine passa in italiano con A bacìo, e tale resta ancora oggi. Nel crinale modenese è Abacìo. Da noi in dialetto diventa A bašîn, poi Al bašîn, quindi assorbe la preposizione e diventa Albašîn, con le varianti viste sopra. Quindi recupera la preposizione per riacquisire il senso di stato in luogo: a l’albašîn. Per una documentazione nutrita e gustosa (anche per altri vocaboli) suggerisco il volumetto: Parole del Frignano, di Battista Minghelli (sunto dell’opera maggiore) – Libreria Incontri (Sassuolo) 2004, pag. 1-3.

Primavera

È facile ricordare lo sbocciare dei fiori, il canto degli uccelli, la nascita degli agnellini, le giornate serene e luminose. Ma anche gli anziani pieni di acciacchi che si portavano a prendere il sole davanti a casa dimostrava che qualcosa di benefico era nell’aria.

San Benedetto / la rondine sotto il tetto.

Questo andava bene fino a quando San Benedetto veniva festeggiato il 21 Marzo. Oggi la festa ricorre l’11 Luglio, e le rondini hanno già messo su famiglia. Ammesso che trovino ancora una stalla, un letamaio e tanti moscerini per nutrirsi.

Certo che è un proverbio usato ed abusato. Ma potrebbe anche essere una constatazione o una garanzia sull’arrivo della bella stagione sentire ripetere: A s’ sênt al rundanîni ch’al cânti! [Si sentono cantare le rondini]. Era anche una soddisfazione vederle nidificare sotto il proprio tetto, ben sicuri che, ospitandole, divenivano apportatrici di benedizioni e predilezione divina:

 Biâda a cla cà / indùa la rundanîna la gh’ fa.

[Beata quella casa ove nidifica la rondine].

A quel tempo non si dava importanza più di tanto all’utilità della rondine e di tanti altri piccoli esseri. Nel caso specifico era quasi una superstizione rispettare le rondini perché erano definite le gallinelle della Madonna, per cui maltrattarle significava offendere la Vergine stessa.

Ma in inverno si acuiva anche l’istinto venatorio dell’uomo che teneva d’occhio ove gli uccelli andavano a dormire. Nella giusta stagione, con la neve abbondante, diventava una sfida per procurarsi un piatto saporito da portare in tavola in via eccezionale, come poteva accadere coi passeri. Polènta e osèi non era solo un tipico piatto veneto; andava anche da noi in inverno. E ce ne fosse stata! Più avanti, a primavera, scoprire i nidi era solo una gara di abilità con se stessi.

Il periodo più adatto per catturarli era quando la neve copriva tutto. Allora si ponevano delle trappole sotto il portico, con qualche seme per invito, poi si attendeva. La fame faceva ben presto avvicinare gli incauti passerotti che cadevano nella trappola. E di trappole ne esistevano tanti tipi: a tagliola (Fèr) o a gabbietta, in commercio. Ma l’abilità del cacciatore si vedeva quando doveva Nicâr, cioè innescare, predisporre la piàgna. Si trattava di creare un equilibrio precario con una pesante lastra di arenaria mediante un gioco di bastoncini. Quando il passerotto si posava su uno di questi la lastra gli cadeva addosso schiacciandolo.

Questa poi...

Tra le espressioni caratteristiche del mese di Marzo ve ne era una un tantino imbarazzante. Ho esitato a lungo prima di decidermi a raccontarvela. Mi ha convinto il fatto di averla rintracciata pari pari in Romagna e nel modenese. A scanso di fraintesi sarà bene ricordare che termini oggi considerati sconvenienti una volta erano pronunciati con la massima disinvoltura e senza pregiudizio. Era l’esistenza stessa che ti poneva, giorno dopo giorno, davanti gli occhi, le scene che poi sono diventate argomento di barzellette volgari o sconce. Allora erano solo fatti della vita.

La sera dell’ultimo giorno di Febbraio il nonno invitava tutti noi bambini ad alzarci, l’indomani, prima del sorgere del sole per recarci sul cucuzzolo vicino a casa. Nel preciso momento in cui il sole spuntava a levante noi dovevamo mostrargli il sedere nudo recitando la formula:

Mârs, Marsòt, / tìnšme ‘l cûl, làsme stâr i’ ò-c!

[Marzo, Marzotto, / abbronzami il sedere ma non dare fastidio alla vista].

La richiesta veniva considerata dai ragazzini più svegli come una provocazione per testare il livello della loro intelligenza. In realtà (l’ho appunto scoperto in seguito) il gesto ha radici ben più lontane. Probabilmente è una delle tante forme di superstizione di origine etrusca o romana, sopravvissute al cristianesimo, ma che intendono rimarcare la buona armonia che deve esserci tra persone e natura. Lo stesso proverbio in romagnolo suona: Mêrz, / cùšm’ e cûl, e no cûšm’ êtr.  [Marzo, cuocimi il sedere ma non mi cuocere altro].

Uno studioso del costume ci ricorda che: “Ai primi del secolo (1900) l’usanza di mostrare il sedere al sole il primo di Marzo, perché non abbronzasse troppo la pelle e anche per tenere lontano le malattie, era osservato da molti e specialmente dalle donne; ora non più” [L. Ercolani: Vocabolario Romagnolo-Italiano - Ravenna 1960].

Carnevalee

Anche se quest’anno Carnevale è finito ieri, 28 Febbraio, continuiamo a parlarne perché è legato alla data di Pasqua, che cambia ogni anno in base ad un complicato calcolo. Essa cade la prima domenica dopo il plenilunio successivo al solstizio di Primavera. Quest’anno il solstizio cade l’undici di Aprile, di martedì. Quindi Pasqua sarà la domenica successiva, 16 Aprile. Questo calcolo fu stabilito da Costantino nel Concilio di Nicea, nel 325 d. C.

 L’è rivâ ste Carnevâl:

tajarèm la testa al gal,

      mangiarèm pulênta e púcia. 

(da un Canto popolare)

 Quando la polenta si tagliava col filo di refe (Da Google)

Ecco le aspirazioni di chi, per tutto l’anno, sogna di togliersi la voglia di una bella mangiata e di qualche momento di incontrollata pazzia, giustificata dal clima e tollerata per tradizione. Dal punto di vista del menù non trapelano grandi ambizioni: la polenta, quella polenta onnipresente, può bastare. Però almeno condita con un buon intingolo a base di lepre o di coniglio in umido. Carnevale consentiva di fare uno strappo alla regola. Sèmel in anno licet insanìre, dicevano i latini. E ciò anche in previsione che la quaresima avrebbe fatto tirare a lungo la cinghia. Ma oltre a questo, direi più che per questo, il Carnevale lo si respirava nell’aria per quel non so che di incerto, di imprevedibile che avrebbe riservato.

Come visto in precedenza, lo spettacolo più diffuso da noi, fino al 1950 circa, erano le Maschere. Da quella data sono scomparse. Oggi sembra che si cerchi di farle rivivere nella parte alta del nostro Appennino, in particolare a Gazzano e dintorni.

Una filastrocca mandata a mente per l’occasione, e della quale non ricordo l’autore perché l’ho studiata in prima elementare, si esprimeva così:

Senti un po’, cara mammina,

or siam giunti a Carnevale:

a goder qualcosettina

non c’è poi nulla di male.

 Lascio il ballo, il suono, il canto,

i garzoni e le donzelle:

io desidero soltanto

un bel piatto di frittelle. 

Ci si accordava con una famiglia che disponeva di una larga stanza, e lì convenivano più o meno tutti quelli del vicinato.  Nella cucina era un tramestio senz’ordine, ognuno portava quello che poteva e che credeva, ma, tutto sommato, si trattava solo di confezionare canestri di gnocco fritto con un po’ di companatico da distribuire ai presenti. I più maturi, se era possibile, si trasferivano in una stanza a parte, coi loro fiaschi e le carte da gioco, gli altri si inventavano qualche altro passatempo.

Non si ha più memoria di un altro tipo di manifestazione caratteristica del Carnevale: bruciare la vecchia. Qualcosa in passato deve esserci stato anche da noi perché se ne trova traccia in alcune espressioni non ancora smesse da chi parla abitualmente il dialetto, quali Brušâr la vècia e Fâr la fîn d’la vècia. Avevano luogo nella notte del Giovedì grasso o del Martedì ultimo giorno di carnevale, ma potevano anche svolgersi a metà quaresima.

In alcune località dell’Appennino modenese la cerimonia si svolge ancora sotto forma folcloristica a metà quaresima, abbinata alla lettura del Testamento della vecchia, occasione ottima per mettere alla berlina personaggi del luogo, e per ricordare che l’inverno se ne va. La Vecchia infatti rappresenta l’inverno che finisce.