Il nostro villaggio, appena finita la seconda guerra mondiale, era popolato intensamente pur non essendo tanto grande, con famiglie patriarcali e figli in quantità. Ma i ragazzotti che ormai avevano raggiunto una certa autonomia quando io mi affacciavo ai dieci anni erano pochi, sette o otto, inseriti in quella fascia dell’esistenza tra i quindici e i venti anni, età in cui non si è ancora completamente indipendenti ma si può cominciare a dire la propria opinione e prendersi qualche responsabilità. Gnîr grànd, insomma! Ed è anche l’età in cui ci si può permettere qualche tiro birbone a danno delle persone burbere, oppure di chi, magari in buona fede, ti concede una qualche confidenza. Ti dà il dito e tu gli prendi la mano. I loro nomi? I classici Giovanni, Marino, Bruno, Luigi, Nando. Eccetto uno, Geo, di cui non siamo mai riusciti a capirne la motivazione.
A Donadiolla la ghenga era costituita da cinque o sei ragazzotti cui piaceva divertirsi alle spalle di qualcuno per poi riappacificarsi subito con le vittime bersagliate, magari scusandosi col dire: Non volevamo offenderti. Già in passato quella combriccola aveva appeso ad un alto olmo del Chiôšo l’aratro che Michele, lasciato nel solco la sera per trovarlo già piazzato al mattino seguente, mandando su tutte le furie Ermenegildo, il suocero. Avevano anche costretto due del posto, nemici giurati a causa di conflitti ereditari, a parlarsi e aiutarsi per ricomporre i propri aratri che il gruppo aveva smontato e rimontato combinando due ibridi irriconoscibili. Di questo abbiamo già parlato (O se vi parlerete! pubblicato su Redacon il 16 Novembre 2013).
Eravamo in periodo di carnevale. I più intraprendenti del gruppo chiesero a Giuseppe se era disposto ad ospitarli per una cenetta alla buona, a base di gnocco fritto, e prestandosi per provvedere la chersênta.
Qualcuno della banda si era accorto che la moglie di Giuseppe teneva sulla finestra posteriore della casa il burro per conservarlo al fresco. Lo gnocco, veramente, sarebbe stato meglio friggerlo con lo strutto, ma, in mancanza di questo, andava bene anche il burro. Lusingato dalla fiducia che gli davano i giovani Giuseppe accetto la proposta e si disse disposto a mettere la farina e le fascine per fare fuoco. I giovani avrebbero messo il burro, visto che nessuno di loro riusciva a recuperare lo strutto.
Qualcuno di loro era riuscito ad appropriarsi di un pistone di vino sottratto dalla cantina del proprio padre. Ordinario, si, ma pur sempre vino. Andò poi a finire che Giuseppe e sua moglie, oltre alla farina e alla cottura della chersênta, dovettero rimediare anche un po’ di companatico.
La serata trascorse in allegria, tutti rimasero soddisfatti e verso mezzanotte si salutarono, complimentandosi e ringraziando la cuoca.
Il mattino seguente però la moglie di Giuseppe lo chiamò con un tono allarmato, diverso dal solito. Era andata a recuperare il burro per preparare il pranzo ma quello non c’era più. E non si poteva incolpare il gatto. Lassù, su quella alta finestra, neppure lui poteva arrivarci.
A Giuseppe non rimase che costatare la furbizia dei giovani, far loro presente che aveva scoperto il trucco, ma poi perdonarli. In fin dei conti erano stati più astuti di lui ed avevano animato una serata che altrimenti sarebbe trascorsa nella consueta noia.
Scommetto che hai presentato due esempi di “scherzi buoni” perchè nei paesi di una volta, senza radio, tv e cinema gli scherzi erano a volte molto pesanti.
(Ilde Rosati)
Ilde, a quei tempi e in quelle condizioni, salvo alcuni casi di inimicizia irriducibile, si cercava soprattutto una parvenza di divertimento. E poi tutto finiva lì. Del resto sono convinto che la nostra gente, consapevole che bisogna arrangiarsi, cercava di attutire le ristrettezze quotidiane con l’ironia e l’accontentarsi. Certo, anche allora c’erano persone… pesanti da sopportare e volgari nel loro modo di esprimersi. Ci sono ancora, anche su Facebook. Alla fine però lasciano il tempo che trovano. Peggio per loro! I due raccontini sono nati in situazioni diverse e non ho tenuto conto della loro possibile integrazione. Man mano che ricordo qualcosa provo a darle una forma e raccontarlo agli amici. Tutto qui.
(Savino Rabotti)