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Il profumo della mia terra / Febbraio 2ª parte

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Antèlami - Febbraio (Duomo di Modena)

Si andava in maschera 

Durante il Carnevale vi era l’usanza di Andare in maschera, una delle tante forme di spettacolo sopravvissute nel tempo e inventate per divertimento ma anche per raccogliere qualche cosa da mettere sotto i denti.

Per l’origine di tale spettacolo valgono gli stessi concetti addotti per il Maggio, per le Satire, per le Befane. Anche in questo caso si potrebbe risalire alle Fabulæ Atellanæ o anche prima. Infatti l’architettura dello spettacolo, il camuffamento dei personaggi ricalcano la tecnica delle Fabulæ: una storia tra il tragico e il comico (per non dire il ridicolo), un trio di persone (Lui, Lei, l’altro), la Forza pubblica che interviene a protezione di valori acquisiti dalla società, il pubblico (in toto o in parte) che esprime il proprio parere spesso moraleggiante ma comunque divertito.

La trama veniva raccontata in rima da un cantore accompagnato da un violino, da una chitarra o dall’organetto. Gli altri attori avevano solo il compito di mimare quanto il solista raccontava. Ma i testi di quelle rappresentazioni non sono stati conservati.

Subito dopo la seconda guerra, fino a oltre il 1950 un gruppo agiva nel nostro territorio passando nelle diverse borgate a Est del comune di Vetto (Legoreccio, Casalecchio, Castellaro, Maiola).

Rìco Rosati, il paroliere, era occupato un anno per l’altro a preparare il testo. “Lo vedevamo ogni tanto posare gli attrezzi e accovacciarsi per scrivere qualcosa su qualsiasi pezzo di carta che gli capitasse a tiro. Erano i momenti in cui componeva i testi delle Maschere [Da: La Satira in montagna – 5 – pubblicata su Redacon il 16 Luglio 2014].

Dino Giuliani invece, oltre che a collaborare come paroliere, aveva l’incombenza di fare la parte del Mnûn (la guida, il conduttore).  Vestiva un pastrano dentro cui avrebbero potuto trovare facilmente posto due persone e che lo costringeva ad acrobazie per entrare dalle porte anguste di casa. Ma anche questo aiutava a creare ilarità.  I bottoni del pastrano consistevano in dischetti di legno del diametro di circa 20 centimetri. Una catena di quelle che si usano per legare le mucche alla mangiatoia gli partiva dalla spalla destra e raggiungeva una grossa sveglia agganciata alla cinghia sulla sinistra. Era il suo orologio da taschino. Un altro signore di Scalucchia si era confezionato un mantello con tutti gusci di lumaca. Il loro tintinnio serviva ad attirare l’attenzione. Il resto della scena era completato dalle smorfie esagerate per mimare quanto il cantore andava descrivendo.

 I Mestieri

Al   marangûn  (Il falegname)

Il mestiere del falegname era molto considerato in passato: nelle case qualcosa da sistemare si trovava sempre: attrezzi agricoli da rimettere in sesto, infissi da rifare o sostituire, mobili, tavolini, credenze da restaurare o creare.

Più complicata era la costruzione delle ruote per i birocci. Dopo aver preparato ed assemblato il mozzo, i raggi e i settori di circonferenza (i Gàvle) il cerchione veniva arroventato, reso incandescente, poi applicato alla ruota a forza, picchiando a rotazione su di esso per farlo entrare sulla circonferenza in modo uniforme. E per ottenere che le cose funzionassero bene bisognava che il cerchione fosse incandescente in modo uguale, che la parte in legno fosse ben levigata, senza irregolarità, e chi picchiava sul cerchione doveva evitare di deformarlo, altrimenti erano guai. Per questo tra il martello e il cerchione si interponeva un massello di legno. Una volta che la ruota era entrata tutta nel cerchione ed era stata ben equilibrata si raffreddava il tutto con l’acqua. In questo modo il cerchione si restringeva,  rendendo ancora più stabile la ruota. 
Il falegname-scultore Ettore di Asta (Foto di Erio Pigoni)

Il falegname normalmente aveva una sua bottega per realizzare i lavori. Alle case vi si recava solo a lavoro finito. Per gli infissi doveva constatare che fossero precisi, perché le finestre e le porte di una volta non erano fatte in serie né curate come ora.

 Al bên

Madunîna blîna,  blîna 

Madunîna blîna, blîna,

gnî cun me int la cambarîna,

stê lì drìta, stê lì in pê, 

perdunê i mê  pchê.

La matîna d’ l’ulîv

tulîm vosch in paradîš.

(Madonnina bellina, bellina, venite con me nella cameretta; state lì diritta, state lì in piedi; perdonate i miei peccati. Il mattino della domenica dell’ulivo portatemi con Voi in paradiso).

Questo componimento è noto in tutta la fascia medio-alta dell’Appennino e anche nel modenese, nella valle del Rossenna.

Filastrocca

La pujâna

 La pujâna insìma al pâl

la ciamêva Carnevâl.

Carnevâl a n’ vôs mia gnîr:

la pujâna la tins murîr.

Möra, möra,

ch’i t’ farèm ‘na càsa növa.

Növa, nuvênta,

un piàt ed pulenta,

un piàt ed salsìsa,

fa balâr la Margherìta.

Margherìta la n’ völ balâr?

Ciàpa la stanga e fàla saltâr!

Tròta balòta, tròta ricòta!

Al pupà l’è andâ a Milân

a cumprâr un viširân.

E la mama l’è andâda a scöla

a cumprâr ‘na viširöla;

e la mama l’ha fat i gnoch

e ‘l pupà ‘l n’ha mangiâ trop;

e la mama la s’è arabiâda,

e ‘l pupà a l’ha caviciâda.

   E la mama l’ha fat al grúgn

     e ‘l pupà al gh’ha dâ di púgn!

[La poiana sopra il palo / invocava Carnevale; / Carnevale non volle arrivare, / la poiana dovette morire. / Che muoia, Che muoia! / Le faremo una bara nuova. / Nuova, nuovissima / un piatto di polenta. / Un piatto di salsiccia, / faremo ballare la Margherita. / Margherita non vuole ballare? / Prendi una pertica e falla saltare! / Trotta, pallina / trotta ricotta. / Il babbo è andato a Milano / a comperare un gingillo; / e la mamma è andata a scuola / a comperare una sciocchezzuola; / e la mamma ha fatto i gnocchi / e il babbo ne ha mangiati troppi; / e la mamma s’è arrabbiata, / e il babbo l’ha bastonata; / e la mamma ha messo il muso, / e il babbo le ha dato dei pugni].

Questa è la versione registrata nel territorio di Gombio. Ve ne sono molte altre versioni, sia nel reggiano che nel modenese.