B. Antèlami – Febbraio (Duomo di Parma)
Quello che per noi è il secondo mese dell’anno ed il più corto per i Romani era l’ultimo, nel corso del quale si celebravano alcune festività legate ai riti di conclusione di un periodo e alla ripartenza per un nuovo ciclo. Questi riti erano detti: Terminalia, Lupercàlia, Feràlia e Februària.
I Terminalia erano in onore del dio Termine (altro epiteto di Giove) e non ammettevano sacrifici cruenti ma solo ghirlande e petali di fiori. Si svolgevano il 23 Febbraio nei campi, presso i cippi (termini), e vi partecipavano i confinanti.
I Lupercàlia erano feste dedicate al fauno Lupèrcus, cui si sacrificava un cane e una capra per ottenere la prosperità dei raccolti e degli armenti. Le cerimonie avvenivano nella grotta Lupercale, sul Palatino, il luogo dove, secondo la leggenda, la Lupa aveva allattato Romolo e Remo. La festa aveva un tono marcato di licenziosità. Si celebrava il 15 Febbraio.
I Feràlia erano i giorni dedicati al ricordo degli antenati defunti. Si concludevano il 21 Febbraio con la celebrazione di matrimoni solenni e composizione di liti fra parenti. Feralia in latino significa cerimonie funebri, cose tristi.
Le Februària invece erano cerimonie legate alla purificazione. Fèbruus è un termine di probabile derivazione sabina che indica “ciò che purifica”. Per alcuni potrebbe impersonare Plutone o, addirittura, suo padre. Non viene sottovalutato però un possibile rapporto con la parola Febris (febbre).
È un mese con una storia movimentata. Il Calendario Romano inizialmente (ai tempi di Romolo) era di 304 giorni suddivisi in dieci mesi. Ma già Numa Pompilio aveva dovuto aggiungere due mesi (Gennaio e Febbraio). Trovando ancora discrepanza tra il calendario solare e quello lunare si inventò il mese mercedonio da inserire ogni due anni dopo il 23 Febbraio. Questo mese un anno era di 22 giorni, l’altro anno di 23. Cajo Giulio Cesare provvide alla riforma per equiparare i due calendari. Per riportare in pari i due calendari aggiunse due mesi per l’anno 46 a. C. Gli anni successivi invece sarebbero stati composti con mesi di trenta giorni (Aprile, Giugno Settembre e Novembre), altri di trentuno (Gennaio, Marzo, Maggio, Luglio, Agosto, Ottobre, Dicembre) e Febbraio di 28 giorni. Nonostante quella riforma, sfuggirono ancora al conteggio 11 minuti e 12 secondi, che vennero recuperati con la riforma di Gregorio XIIIº del 24 Febbraio 1582, della quale abbiamo parlato in riferimento a Santa Lucia (13 Dicembre).
A proposito del nome dei mesi sentite questa: Mènsibus erràtis / lapìdibus ne sedeàtis, cioè: Nei mesi che contengono la R non sedetevi su sassi. E perché? Ecco la risposta: Chi siede sulla pietra fa tre danni: / infredda (prende il raffreddore), ghiaccia il culo e guasta i panni. E di mesi con la R ce ne sono otto su dodici (in passato Gennaio era Gennaro).
A Febbraio si sente già l’esigenza di iniziare a muoversi, di provvedere ai primi lavori, quelli apparentemente meno importanti ma che, comunque, sottraggono tempo ai lavori più impegnativi. È ora di potare e pulire la vigna. Anche perché questo è il periodo più idoneo per le nostre terre. Altrove si può potare anche prima, già da Novembre.
Fàm purèta ch’i t’farò sgnûr
(Rendimi povera [di tralci] e io ti renderò ricco [di uva])
dice la vite al contadino, intendendo che l’eliminazione di tanti tralci infruttuosi darà vigore e resa a quelli rimasti. E il saggio consiglia ancora:
Chi vuole un bello agliaio – lo pianti di Febbraio.
La Candelora
Attualmente la festa della Candelora ricorda la presentazione di Gesù Bambino al tempio, quaranta giorni dopo la nascita. In passato si dava importanza anche alla purificazione della Vergine.
Anche il due Febbraio fa parte di quella serie di giorni scelti per scrutare il futuro. In qualche modo ci ricollega a quello di Santa Bibiana. La campagna è ancora assopita, ma i primi lavori sono cominciati: le viti vanno potate prima che muovano i primi germogli e i campi vanno ripuliti dai tralci recisi per non intralciare la raccolta dell’erba a primavera. In questo caso il tema della divinazione viene proposto dal proverbio
Quànd a vên la Candelòra
da l’invêrne i sèma föra.
[Quando giunge la Candelora / dell’inverno siamo fuori]
e questa potrebbe essere l’aspirazione di chi ha molti lavori in programma e poche scorte per il fuoco. Ma l’adagio viene completato con altre espressioni che variano non di molto da paese a paese:
S’a piöv o s’a nèv per la seriöla
da l’invêrne i sèma föra,
ma se ‘l sûl al bàt int la candlîna
l’invêrne al s’aravšîna.
[Se piove o nevica per la Ceriola / siamo fuori dall’inverno;
ma se il sole batte sulla candelina / l’inverno si riavvicina].
Pare di capire che il contadino preferisca ancora giornate di freddo e brutto tempo, ma forse, in cuor suo, non disdegna un solicello tiepido. Il concetto che
Sùta la nèva al pân, sùta l’aqua la fàm,
[Sotto la neve (c’è) il pane, / sotto l’acqua la fame]
già richiamato, è quello dominante nel periodo invernale, almeno fino a quando le stagioni erano regolari e i campi sfamavano tutta la gente:
‘Na bèla nvâda d’ Fervâr – la vâl pu’ che un aldamâr!
[Una bella nevicata in Febbraio / è più utile che un letamaio].
Quindi bisognerebbe che:
Per la seriöla – o ch’a nèv, o ch’a piöva,
o ch’a nàs una viola, – o ch ‘a tîra la sigaiöla.
Tirâr o n’ tirâr, – quaranta dì la n’ pöl durâr.
[Per la Candelora – o nevica o piove – o nasce una viola – o soffia la tramontana.
Che soffi o non soffi – non può durare per quaranta giorni],
ove sembra riecheggiare il: Quaranta dì e ‘na stmâna del 2 Dicembtre.
Benedizione delle puerpere
Di questa consuetudine ne parliamo qui perché la festa della Purificazione della Vergine ricorda lo stesso evento. La legge dell’Antico Testamento imponeva alla puerpera di non frequentare il tempio e le cerimonie sacre per un periodo di quaranta giorni dopo la nascita del figlio. Trascorso tale periodo ella doveva recarsi al tempio con dei doni (un agnello e una tortora, oppure due tortore se la famiglia era povera) per ottenere la purificazione. Il concetto è che, pur nella legalità dell’atto matrimoniale, qualcosa di peccaminoso restava e quindi bisognava chiederne perdono a Dio. Neppure la Vergine ha potuto sottrarsi alla osservanza della legge di Mosè. Da Natale alla Candelora sono appunto quaranta giorni.
Questa consuetudine del popolo ebraico è stata recepita anche in seno alla Chiesa cattolica, per cui ogni madre, quaranta giorni dopo il parto, si recava in chiesa per “Farsi tirare” come si diceva da noi, cioè per farsi riammettere all’interno della comunità e potersi accostare ai sacramenti. Poiché la cerimonia iniziava fuori della chiesa, sul sagrato, e si concludeva all’interno del tempio dopo un tragitto percorso con la puerpera che con una mano reggeva una candela e con l’altra teneva la stola del celebrante, la gente non ha trovato di meglio che definire l’evento con l’espressione “farsi tirare”.
San Biagio
Nel territorio del Tassobio la Candelora non aveva l’importanza che riscontriamo altrove. Si partecipava alla Messa poi si andava nei campi a potare o a fare le fascine. Ci tenevamo però ad acquistare una candela, farla benedire e conservarla poi per proteggersi contro il mal di gola. Il collegamento va ricercato nel fatto che il giorno successivo è la festa di San Biagio, e nel territorio, a Crovara, era la festa del co-patrono. Per tradizione anche gli abitanti delle parrocchie vicine si recavano alla messa in detta chiesa perché, al termine, si dava la Benedizione della gola. Il sacerdote, a fine messa, appoggiava due candele legate assieme in forma di croce alla gola dei fedeli recitando una formula di benedizione. Il rito ricorda un miracolo di San Biagio. Il vescovo di Sebaste, nell’Armenia, subì il martirio sotto l’imperatore Licinio, intorno al 306, con altri 39 cristiani. Tra i miracoli da lui compiuti si ricorda quello a favore di un ragazzo che, avendo una spina di pesce conficcata nella gola, ne fu liberato. Ed è per questo che la devozione popolare verso il santo è cresciuta ovunque.