Home Cultura Il profumo della mia terra / Gennaio 3ª parte

Il profumo della mia terra / Gennaio 3ª parte

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B. Antelami – Gennaio – Duomo di Modena

 

Sant’Antonio e la benedizione delle  stalle

 

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 Sant’Antonio abate (da Google)

 Sant’Antùni dal pursèl. Sembra un’espressione irriverente ma non lo è. L’epiteto dato a Sant’Antonio Abate deriva dalla comune iconografia che da secoli, considerando il santo protettore degli animali domestici, lo raffigura con a fianco anche il maiale. Se consideriamo che gli animali domestici sono il vero capitale della famiglia, l’unico sul quale puntare e sperare, non ci meraviglieremo di vedergli vicino magnifici bovini, cavalli, pecore, maiali e tutti i ruspanti del cortile.

 Questo è anche il motivo per cui il diciassette di Gennaio gli animali venivano trattati meglio del solito come cibo, e lasciati a riposo. In alcune parrocchie addirittura si faceva la sfilata dei campioni migliori, tutti bardati con le copertine di lino, gli scacciamosche variopinti e con molti fiocchi (muscaröli), il campanaccio con il collare lavorato. Da noi il collare era di tela fatta in casa e ricamata, in altre regioni era di legno intarsiato e scolpito con immagini e simboli.

Appena la luce lo permetteva il Biûrch andava nella stalla, riassettava con cura ogni posta ed ogni angolo. Per l’occasione abbatteva anche le ragnatele, toglieva dalle poste le vecchie lettiere e ve ne metteva di nuove, spazzolava gli animali, toglieva loro eventuali grumi di stallatico con la strègia. Alla fine, se non fosse stato per il tepore e l’odore, la stalla poteva fare concorrenza ai salotti. E da un punto dominante, dalla nicchia sopra la porta o da una trave maestra, vigilava l’immagine di Sant’Antonio, per l’occasione illuminata dalla fioca luce di un lumino. L’immagine poteva essere una statuetta, una formella in ceramica o marmo, una semplice stampa.

Quando giungeva il parroco tutta la famiglia scendeva nella stalla per rispondere alle formule della benedizione. Al termine o il capofamiglia faceva un’offerta in denaro o la padrona consegnava al sacerdote un cestino di uova fresche.

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Buoi bardati per feste (da Google)
A noi bimbi davano da intendere che durante quella notte gli animali parlavano tra di loro e quindi non bisognava disturbarli per non rompere l’incantesimo. La cosa però non è circoscritta alla nostra provincia, e molti la collocano in altra data. In Romagna ed in Toscana, ad esempio, si dice:

 La notte di Befana nella stalla

parla l’asino, il bove e la cavalla!

 Ad Istria invece il fenomeno accadrebbe la notte di Natale, in omaggio al bue e all’asinello del presepio:

 La note de Nadàl

tute le bestie sà parlàr.

 Ma cosa si raccontavano le bestie in questa circostanza? Qualcuno ha voluto equiparare il mondo animale a quello umano, attribuendo ai cari amici dell’uomo la possibilità di fare un esame critico del comportamento dei propri padroni. Ma forse … nelle lor poste fragèan la biada con rumor di croste, come i cavalli normanni di Pascoli, e sognavano pasti sostanziosi e tanto riposo!

 

Le Calende di San Paolo…   

 Si tratta della festività nota come Conversione di San Paolo, che si celebra il 25 Gennaio, e che prende diversi nomi a seconda dei luoghi: San Paolo di Gennaio, Conversione di San Paolo, San Paolo dei Segni. Ma più che al Santo la gente punta lo sguardo sulla natura che sta per ripartire, con l’intenzione precisa di scrutare come sarà l’annata. Perché è di questa che si premura il contadino. E ancora una volta le cose si diversificano da luogo a luogo.

Prendiamo un autore degno di riguardo: “Per calende la plebe rustica intende la seguente operazione, che non è affatto disusata. Prendono dodici mezzi gusci di noce, vi pongono dentro un po’ di sale e li espongono all’aria la notte di San Paolo, numerandoli dall’uno al dodici. L’uno è Gennaio, il due Febbraio e via di seguito fino al dodici che è Dicembre. Al mattino successivo osservano se ed in quale dei gusci il sale si è sciolto. Al guscio del sale sciolto corrisponde un mese asciutto, al guscio del sale rimasto concreto un mese piovoso”. [Balladoro, citato da Lapucci a pag. 31]. In molti luoghi al posto dei gusci di noce si mettevano coppette di cipolla.

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 Coppette di cipolla

Ma in passato da questo giorno si traevano anche altri pronostici: se la giornata era chiara poteva annullare previsioni cattive e promettere messi abbondanti (largas fruges); se era una giornata di pioggia o neve annunciava tempi di carestia (tèmpora cara); se vi era vento potevano scoppiare guerre tra i popoli (prœlia genti); se vi era la nebbia morivano tutti gli animali (pèreunt animàlia quæque).

Permettete di offrivi una chicca. Queste citazioni appartengono ad una strofetta scritta in un forbito latino rinascimentale (ma forse anche anteriore, viste le rime o le allitterazioni interne al testo) e che, forse, si riallaccia ad antiche credenze pagane. Questo è il testo:

Clara dies Pauli largas fruges indicat anni;

si nix vel pluvia, designat tempora cara;

si fuerint venti, designat prœlia genti;

si fuerint nebulæ, pèreunt animalia quæquæ.

 Vale a dire: Se il giorno di (san) Paolo è sereno indica che vi saranno raccolti abbondanti quell’anno; se ci sarà la neve o la pioggia saranno tempi di carestia; se ci sarà il vento significa che vi saranno guerre per i popoli; se ci saranno nebbie moriranno tutti gli animali. Detto tra noi di quei pronostici si potrebbe farne tranquillamente a meno!

Un altro modo di fare previsioni e pronostici, e che coinvolge ancora il giorno della conversione di San Paolo in quanto data terminale, consuntiva, è quello di attribuire ai giorni di Gennaio un corrispettivo dei mesi a venire: il primo giorno vale per Gennaio, il secondo per Febbraio e così fino al dodici che corrisponde a Dicembre (in pianura vengono chiamati Calènder). Poi si riparte in senso inverso: il tredici sta per Dicembre, il quattordici per Novembre, fino al ventiquattro che rappresenterà Gennaio (e questi sono detti Scalènder = Calende a scalare) [Citata anche da Bonafini-Bagnoli: LA TRADIZIONE POPOLARE REGGIANA – CDL – 1995]. Teniamo presente che Gennaio ormai è quasi concluso. Perciò la coincidenza dei due giorni rappresentanti il mese dirà come quello sarà: se l’uno e il ventiquattro sono stati piovosi, tutto Gennaio dell’anno seguente sarà piovoso; se il dodici e il tredici sono stati sereni, Dicembre sarà sereno.

Ma anche qui non troviamo tutti d’accordo. Nelle zone più alte dell’Appennino la cerimonia delle coppette di cipolla si effettuava a mezzanotte tra 24 e 25 Gennaio, e l’ordine di lettura scalava di uno: la prima coppetta era per Febbraio, la dodicesima per Gennaio (dell’anno successivo, ovviamente).

Qualcuno, curioso ma economo, s’accontentava di mettere fuori dalla finestra un bašlòt cun un pô d’aqua, (una bacinella con acqua) sperando di indovinare il futuro in base alle crepe che si producevano sul ghiaccio all’interno del catino. Però questa usanza, nella pianura, viene attribuita in particolare alle nubili in cerca di marito, per sapere se il matrimonio è vicino. [Anche in Bonafini-Bagnoli]. Di questo tipo di divinazione non si avevano dalle nostre parti se non flebili tracce, ma il fenomeno copre l’intero territorio nazionale.

… e   I Giorni della merla

 Altra usanza frequente nel nostro territorio è l’interpretazione dei Giorni della Merla. Siamo agli ultimi tre giorni di Gennaio. La fantasia popolare si è creata una leggenda che suona, più o meno, così: un merlo (allora tutti i merli erano bianchi), credendo di essere uscito dal rigore invernale, apostrofò Gennaio con questo motto:

 Più non ti curo, domine,

chè uscito son dal verno.

[Non mi preoccupo più di te, signore, perché ormai sono uscito (vivo) dall’inverno].

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 Merla bianca  (da Google)

 Gennaio, all’epoca, contava solo 28 giorni. Adirato, ne chiese in prestito tre da Febbraio che ne aveva trentuno, e intensificò il freddo a tal punto che la maggior parte dei merli morì. Quei tre giorni vengono anche chiamati Giorni imprestati.  L’anno successivo una merla si nascose dentro un comignolo e attese che passassero i terribili tre giorni. Quando finalmente poté uscire era diventata nera. E da allora tutti i merli sono neri. Questa leggenda viene accennata anche da Dante, parlando di Sapìa, coi versi:

“… Ormai più non ti temo;

Come fa il merlo per poca bonaccia” [Purg. XIII , 122/123].

 Ma il bravo contadino sa trarre vantaggio anche da queste situazioni, perché

Se piove nei giorni imprestati

granturco e fagioli van seminati.

 I mestieri

 Al Frâr (il Fabbro)

 

Un locale rabberciato su alla buona, senza intonaco, annerito dal fumo, gli utensili collocati come si può, senz’ordine e senza logica. Il pavimento? Una immensa macchia di unto stantio, tanto frusto che neppure ci si scivola sopra. E sopra gli oggetti, accumulati qua e là, un dito di fuliggine consistente, frutto delle falistre lanciate in aria dalla mola smeriglio o dalle martellate cadenzate al momento di plasmare un pezzo d’arte, uno di quei pezzi che poi rimangono oltre la memoria di chi lo ha confezionato.

Questa è la scena di chi va dal Frâr ad aggiustare utensili.  Lo spazio a disposizione, tutto lo spazio disponibile, è un acervo di cose le più svariate appoggiate come capita, ma che, alla fine, compongono un quadro realistico e armonico, come se quegli oggetti fossero lì da sempre, parte integrante di un insieme capace di fotografare passato, presente e futuro, elementi che sembrano nati lì, simbiosi tra terreno, fauna e flora, un qualcosa tra la speranza del futuro e i rimorsi del passato.

Oggi quegli artigiani sono scomparsi per mancanza di lavoro. Le macchine agricole hanno bisogno, semmai, di un meccanico; i buoi sono finiti sui libri di poesia o di tradizioni, gli alari in mostra al museo, i fiori vengono coltivati in serra con concime speciale, di sicuro non col letame che non c’è più.

Qualcuno, più fedele alla ispirazione e alla passione creativa, è sopravvissuto. E sono talmente fuori del normale da destare curiosità e ammirazione insieme. Ho conosciuto Renato Ferrari di Vedriano.

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Un lampione e una grata di Renato Ferrari (Archivio di Tuttomontagna)

 Osservando il cielo attraverso una grata forgiata da Renato non vi sentirete in gabbia ma vi sembrerà di guardare un elegante ricamo che si anima sullo sfondo del cielo in continua evoluzione. Nella sua bottega o presso qualche edificio privato potrete vedere lampioni che nulla hanno da invidiare ai capolavori del Duomo di Milano o di altre cattedrali.

Quello che Renato è riuscito a fare i suoi colleghi lo facevano in passato con la stessa passione e inventiva, magari con meno cultura, ma sempre intenti a dare un’anima alle loro opere. Noi, oggi, quelle opere le possiamo ammirare come supporti nei classici carri, nelle serrature o maniglie di portoni prestigiosi, nei candelieri di chiese ignote ai più.  [Cfr. Tuttomontagna, Nº 63, Sett.-Ott. 1999, pag. 63]

Ci spiegavano, alle elementari, che l’opera d’arte del fabbro, oltre che dalla materia, è prodotta dal sudore e dall’intelligenza dell’artista. Toccare una di quelle opere sembra di potere stringere la mano a chi le ha prodotte.

 Al bên 

                                Preghiera a Sant’Antonio abate

Sant’Antòni dal bublîn, *

chí a n’ gh’é pân e chí a n’gh’é vîn,

a n’ gh’è angùta int al granâr,

a n’ gh’è lègna da brušâr.

Sant’Antòni, cum’ èmia da fâr?

[Sant’Antonio dal campanellino, / qui non c’è pane, qui non c’è vino, /

non c’è nulla nel granaio, / non c’è legna da ardere. / Sant’Antonio, come possiamo fare?].

 

Con una significativa variante per finale, strolgata non si sa da chi:

 

                                         … Mtîs al vîn int al vasèl

                                         e ‘l giusi int al servèl!

 

[… metteteci il vino dentro la botticella / e il giudizio nel cervello!].

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*  Il bubbolo è un sonaglio sferico, con una fessura e all’interno una pallottolina. Il bubbolo o un campanellino normale, fermato al vertice del lungo vincastro che il santo regge in mano, compaiono spesso nell’iconografia di Sant’Antonio Abate. Da qui l’appellativo Sant’Antòni dal bublîn.

 Filastrocca

Rimbutûn

 Destinato al gioco delle conte, questo frammento ripropone, coi termini infantili e illogici ma pieni di mistero, momenti della vita dei grandi. È evidente l’eco di tornei cavallereschi sentiti narrare e mai visti. Di questo testo, mutilo ma diffuso ovunque, è stata trovata traccia anche in Sicilia. Gli studiosi ritengono che in origine si simulasse il processo ad una strega, con tanto di accusa, giudizio e condanna a morte per impiccagione e per mano di un carnefice tedesco.

 Rimbutûn, cavàl e masö   (masâr)

sut la riva di formaiö:        (furmajâr)

(par cantâr la puligâna)

trî de stùpa, trî de lana,

mòra, mòra, va’ in tudèsch, (mora, mora, peccatora)

te và föra e dènter quest!

 

 

 

 








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