Quindici pietre posate come ricordo di quindici vittime reggiane del nazismo, una mostra inaugurata per ricordare i quasi 8mila soldati reggiani che dopo l’8 settembre 1943 finirono prigionieri in Germania.
Si è appena concluso un fine settimana di grande intensità e valore per Istoreco, l’istituto storico reggiano, con la presentazione iniziative di spessore – frutto di mesi di lavoro e ricerche – che arrivano a ridosso del giorno della memoria e della partenza per Berlino di oltre mille studenti delle scuole superiori reggiane grazie al Viaggio della Memoria.
Fra sabato 14 e domenica 15 gennaio sono state posate altre 15 pietre d’inciampo a Reggio Emilia, Castelnovo ne' Monti, Cadelbosco Sopra e Guastalla, i piccoli monumenti diffusi in tutta Europa per ricordare le vittime del nazismo nell’ultimo luogo dove hanno vissuto libere. Sabato 14, inoltre, è stata inaugurata in sinagoga la mostra in “I soldati che dissero no. Storie di deportazione a Reggio Emilia dopo l’8 settembre 1943”, dedicata alla storia di quasi 8mila reggiani che dopo l’armistizio dissero no al nazismo e a Mussolini, pagando il rifiuto con la deportazione in Germania. Con la prigionia, le sofferenze, le condizioni da schiavi e, spesso, con la morte.
Le piccole opere sono cubi di ottoni sistemate sul fondo stradale con un piccolo rialzo, così da far inciampare i passanti. Chi si chinerà per capire qual era l’ostacolo, si troverà di fronte nomi, date e storie da riscoprire. La posa materiale è stata curata direttamente dall’ideatore del progetto, l’artista tedesco Gunter Demnig, che in oltre vent’anni ha sistemato decine di migliaia di pietre in quella che settant’anni fa era l’Europa occupata. Le prime 20 pietre reggiane sono state installate nel 2015 e 2016 grazie a Istoreco, in memoria di ebrei deportati a Auschwitz e di persone catturate e mandate in Germania come schiavi. Nel 2017 si prosegue con altre 15 vicende da ricordare di prigionieri civili e militari morti in Germania. Le loro biografie sono state ricostruite da Istoreco con gli studenti del Viaggio, scegliendo fra classi delle zone di origine delle varie persone. Parenti e amici delle vittime hanno contribuito al lavoro e spesso hanno presenziato alle pose.
Sabato 14 gennaio sono state messe a terra quattro pietre a Reggio. A Fogliano, in via William Bertoni, per ricordare la persona che dà il nome alla via, proprio William Bertoni. In viale Risorgimento 7 per Mario Sguazzini. In via Antonio Piccinini, in Gardenia, per Ettore Guidetti, prima di chiudere in via del Portone 8, una delle laterali di corso Garibaldi, per la pietra di Giovanni Ganassi, storico esponente comunista reggiano, marito di Dorina Storchi. A questa posa ha preso parte anche il sindaco Luca Vecchi, che pochi minuti dopo ha inaugurato “I soldati che dissero no. Storie di deportazione a Reggio Emilia dopo l’8 settembre 1943”, mostra ospitata dalla sinagoga di via dell’Aquila sino 5 febbraio 2017. Al suo fianco anche Kay Kufeke, storico del Centro di documentazione per il lavoro forzato nazista di Berlino – Schoneweide. Kufeke ha curato il lavoro di ricerca sugli oltre 600mila prigionieri militari italiani deportati in Germania, e sta girando le classi reggiane che poi prenderanno parte al Viaggio della Memoria.
A ingresso gratuito, la mostra sarà visitabile nei venerdì del 20 e del 27 gennaio e del 3 febbraio, dalle 10 alle 13; nei sabato del 21 e del 28 gennaio e del 4 febbraio dalle 17 alle 20. E nelle domeniche del 15, 22 e 29 gennaio e del 5 febbraio, dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 20. In programma vi sono anche alcune conferenze ed eventi pubblici, sempre al sabato pomeriggio e sempre a ingresso gratuito.
Domenica 15 gennaio è ripresa la posa. Al mattino, sotto la neve, nel territorio di Castelnovo ne' Monti. A Gombio quella di Roberto Carlini, al Fariolo con Dino Peretti e nel capoluogo, vicino al grattacielo, con Pierino Ruffini, Renato e Anselmo Guidi. Queste cinque persone vennero catturate dai nazisti e mandate in campi di lavoro in Germania, fra cui quello ormai noto di Kahla, dove passarono centinaia di montanari. E ieri alla cerimonia hanno partecipato anche l’attuale sindaco di Kahla, Claudia Nissen – Roth, accompagnata dal consigliere comunale Arnim Bachmann e da Markus Gleichmann dell’associazione Walpersberg. Presenti anche il sindaco castelnovese Enrico Bini, il consigliere regionale Yuri Torri e il presidente di Anpi Castelnovo Monti, Wassili Orlandi.
Nel pomeriggio la marcia ha raggiunto la Bassa. La prima sosta è arrivata a Cadelbosco Sopra per Allenin Barbieri in via Monsignor Saccani (ex Via Roma 13), con la partecipazione del sindaco Tania Tellini. Da lì l’ultimo trasferimento, a Guastalla, per gli omaggi a Ivo Carra in via Cavallo 9, a Gino Benatti in via Portamurata 46, ad Alfredo e Athos Nosari in via Staffola 37 e a Fermino Toniato in Piazza Mazzini. Presente anche qui la prima cittadina Camilla Verona.
Pur riconoscendo e ribadendo la necessaria importanza di queste iniziative, mi permetto di porre l’attenzione su alcuni punti generali della questione. A mio avviso, soprattutto nei programmi scolastici delle superiori, la trattazione di fascismo, nazismo e stalinismo (quest’ultimo assai spesso dimenticato, pur non essendo meno terribile del nazismo) è eccessiva: in realtà, in riferimento al mondo di oggi, si tratta di argomenti relativamente importanti. Il mondo di oggi, infatti, più che prendere le mosse dagli anni ’40, deriva dagli anni ’70-’80, dalla crisi petrolifera, dalla stagflazione e da quei grandi “statisti” di Reagan e di Thatcher. Non ci vuole molto a provarlo e a intenderlo: casualmente — sì, proprio casualmente —, proprio a partire da questi anni hanno iniziato a circolare parole come “governabilità”, “pareggio di bilancio”, “disoccupazione naturale”, tutte riassumibili nello slogan “il welfare state non va (più) bene!”. “Governabilità”, “pareggio di bilancio”: vi ricorda qualcosa? A me sembra di sentir parlare Renzi, se proprio devo essere sincero. Dimostrata, dunque, la figliazione dei nostri anni a partire dagli anni ’70-’80, riterrei più istruttivo per i nostri giovani alunni delle superiori ridurre il peso posto sul nazismo e accentuare l’attenzione sul sopraddetto periodo. Capiremmo, forse, che più che riformare l’iter legislativo previsto dalla Costituzione (i “continui rimpalli”), sarebbe meglio riformare il primo articolo della stessa. Ricordate? “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”: molto bello e idoneo, ma solo se la gente trova un lavoro non precarizzato. D’altra parte, non si può negare che, assai spesso, alle superiori, nazismo, stalinismo e fascismo vengano affrontati male. Per iniziare a intendere le questioni poste da questi movimenti è necessario possedere un insieme di nozioni di storia del pensiero politico (Stato, sfera privata, sfera sociale, sfera pubblica, soggezione esterna, libertà interiore), che i professori di filosofia dei licei non hanno il tempo di mettere sui banchi: per capire il nazismo, prima dobbiamo capire perché e come Martin Lutero deve scindere l’uomo riformato in “due regni”; dobbiamo capire l’“assoluta libertà del cristiano” e l’“assoluta servitù del cristiano”; dobbiamo capire perché non ha senso parlare di “Stato totalitario”, ma questo presuppone sapere cos’è uno Stato, cioè aver affrontato Hobbes, il quale dice che non c’è differenza fra tirannide e un presunto governo legittimo. In certi casi, il nazismo è affrontato così male che molte persone credono che per Hitler e i nazisti gli ebrei fossero una razza inferiore, quando, invece gli ebrei erano considerati una razza non-umana, l’unica di cui gli ariani dovessero aver paura! Occorre ripensare le nostre priorità: è di ieri il disperato appello dell’Oxfam sul fatto che otto super miliardari censiti da Forbes detengono la stessa ricchezza che è riuscita a mettere insieme la metà della popolazione più povera del globo, cioè 3,6 miliardi di persone; e che, d’altra parte l’1% ha accumulato nel 2016 quanto si ritrova in tasca il restante 99%. Questa situazione ce l’hanno forse lasciata i nazisti?
(Un lettore)
Capisco il suo punto di vista, ma mi permetta, non lo condivido. Credo che i giovani di oggi debbano assolutamente, tramite la scuola, le iniziative storico-culturali e le famiglie, conoscere quelli che sono stati gli orrori del nazismo, del fascismo e dello stalinismo. Quest’ultimo nessuno lo dimentica. Lei che mi pare così acculturato, non avrà certo bisogno che sia io a dirle che proprio Hitler si basò sui gulag staliniani per ideare l’orrore dei campi di sterminio. Mi creda, non è fondamentale che tutti i giovani conoscano il pensiero di Hobbes! Ritengo sia più istruttivo, avendolo vissuto i prima persona, ascoltare le testimonianze dei partigiani, della gente che ha vissuto il fascismo e il nazismo. Io che grazie alla scuola ho conosciuto il pensiero di Hobbes, creda non me ne sono fatta nulla. Quello che non potrò mai dimenticare sono i racconti di mio nonno. Ebbene, sono fiera nipote di un partigiano della Brigata Fiamme Verdi. Mi creda, le lacrime negli occhi di mio nonno nel raccontare la durezza della vita alla macchia, la paura per i propri cari e per se stessi, il dolore per i compagni morti davanti agli occhi e la voglia di creare un’Italia migliore, mi sono serviti molto di più. Le iniziative come quella di ieri, come anche i viaggi della memoria, sono fondamentali per la crescita culturale e personale dei giovani e della comunità. Servono per non dimenticare mai! Prima di riformare l’articolo 1 della Costituzione, forse occorrerebbe conoscere la nostra Carta fondamentale, nel dettaglio. Soprattutto sapere quale e quanto lavoro ci fu dietro alla sua stesura. Di statisti come Reagan e della crisi petrolifera i nostri giovani se ne fanno poco. Devono piuttosto sapere e capire la fortuna che hanno! Qualcuno ha combattuto e perso la vita per garantire loro dei diritti e delle libertà, prima mai contemplati. Forse degli anni ’70-’80 dovrebbero conoscere la paura del terrorismo, anarchici e brigatisti, il quale ha fatto sì ripiombare il Paese nella paura. Paura di parlare, di muoversi liberamente e di fare un pauroso passo indietro.
(Valentina Cosmi)
Signora Cosmi, lei pone l’attenzione su punti importanti che è bene non trascurare: la storia è fatta di uomini e questi sono fatti anche di sentimenti. Di conseguenza non ho nulla da ridire sulle sue esperienze personali e sul suo percorso formativo, che va oltre la mera frequenza scolastica. Su questo punto mi limito solo a difendere d’ufficio Hobbes: senza Hobbes, mi creda, della politica odierna non si capisce niente: è l’abc della politica moderna e, quindi, della politica di oggi, insieme a Machiavelli. Chi non riconosce la portata di questi due autori è bene che si dedichi ad altro, ma non alla politica. Ora, a suo avviso, gli anni ’70-’80 non sono fondamentali quanto riflettere sulla stesura della Costituzione e su quegli uomini che hanno combattuto per i nostri diritti. Il problema è che questi diritti, oggi, sono minacciati proprio da quelle dinamiche che si sono innescate negli anni ’70-’80 e che continuano ad agire anche oggi: come ho detto, il linguaggio politico di oggi viene dai dibattiti apertisi sulla stagflazione: “governabilità” è stata una delle parole chiave persino dell’ultimo referendum; quante notti insonni passa Padoan per il “pareggio di bilancio”! Più in dettaglio, i diritti sociali (welfare state), tra anni ’50 e ’70, sono stati costruiti sul dovere di lavorare: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. In altri termini, i diritti sono, erano, assicurati ai lavoratori. Negli Stati Uniti, prima Reagan negli anni ’80 ha cancellato buona parte di questi diritti, poi negli anni ’90 Clinton ha foraggiato il neoliberismo globalizzato; lasciamo stare i danni causati dai Bush e oggi ci ritroviamo Trump presidente. Perché? Basta chiedersi chi l’ha votato. Chi, dunque? Ora, i suprematisti bianchi, i cristiani creazionisti, i naziskin sono in tutto quattro deficienti che di certo non hanno spinto in su i voti di Trump. Dove ha vinto Trump? Trump ha vinto in Ohio e negli Stati vicini, ossia gli Stati della cosiddetta “cintura di ruggine”, ossia quegli Stati che erano il cuore industriale degli Stati Uniti, dove ora, gli (ex) operai non hanno più, grazie a Reagan, diritti sociali e, grazie a Clinton, hanno perso il lavoro a causa della delocalizzazione in Messico, Cina, etc. Ecco perché ha vinto Trump: non perché qualche hacker russo ha falsificato i voti. L’Italia rientra pienamente in queste dinamiche: precarizzazione del lavoro e costo basso del lavoro o, come piace dire al Pd, “competitività”. Qualche mese fa, ad esempio, Renzi vantava il fatto che gli ingegneri italiani sono competitivi: ma questo non significa che fanno di tutto per emergere come migliori, ma che sono pagati una miseria. Il welfare state resiste solo in Svezia. Ma anche qui la cosa non va imputata al fatto che il governo svedese ha a cuore i suoi cittadini, ma al fatto che il “modello svedese” è competitivo: per qualche strana ragione è ancora funzionale alle dinamiche del capitalismo neoliberista globalizzato. Ma, si fidi, non appena tale modello perderà il suo carattere competitivo, la buona vecchia socialdemocrazia (quei geni che, a fine Ottocento, hanno ridotto Marx a qualche frasetta scolastica, per poi, negli anni ’50, abbandonare il marxismo) inizierà ad adoperarsi alacremente per smontarlo: con buona pace di qualche bionda (sempre che ci siano ancora). Riassumendo, quel che voglio dire è che i diritti per cui 80 anni fa in molti hanno combattuto sono oggi minacciati in due modi: il primo consiste nel toglierli alla Reagan, in modo diretto (quante proteste suscitarono le sue misure!); il secondo nel precarizzare il lavoro, un metodo più subdolo che, togliendo la possibilità di lavorare come era possibile negli anni ’60 (dovere di lavorare), toglie parallelamente i diritti sociali, che, come detto, sono basati sul dovere di lavorare: “Repubblica” “fondata sul lavoro”. Così, infine, si ripresenta nuovamente un vecchio problema, su cui cercò di riflettere negli anni ’30 Dewey: il singolo, annichilito nel suo potere economico, finisce per perdere del tutto la sua libertà: chi non ha nulla, non è libero, non può godere appieno del diritto di libertà.
(Un lettore)
Personalmente credo che sia Valentina, sia il lettore, abbiano ragione. Entrambi parlano di problemi (alcuni recenti, per non dire recentissimi, altri di decenni fa) che non possiamo e non dobbiamo, oggi, sottovalutare. Il “neo-liberismo” (se così possiamo definirlo) è pericoloso, almeno in parte, perchè mette in discussione (con la scusa che bisogna modernizzare la società, il mercato del lavoro ecc. ecc.) diritti che sono stati acquisiti negli anni ‘60 e ’70 con grande fatica (qualche esperto afferma, secondo me giustamente, che l’Italia non diventa più competitiva togliendo l’art. 18, ma eliminando la burocrazia e la corruzione ,veri “tumori” del nostro Paese). Al contempo non dobbiamo dimenticare che le dittature sono nate proprio dalle crisi economiche (vedi Germania e Italia negli anni Venti/Trenta del secolo scorso) e dalla sfiducia dei cittadini verso le istituzioni. Problemi, guarda caso, che sono purtroppo attualissimi. Io credo che ai nostri giovani vada spiegata tutta la storia degli ultimi 100 anni, perchè come dice qualcuno, “la Storia si ripete”, nel bene e nel male. Si ripetono gli errori e gli orrori (ricordate quanto è accaduto nella ex Jugoslavia appena venti anni fa? C’erano molte analogie, purtroppo, con quanto è successo nella Germania hitleriana). Non dobbiamo avere paura nello spiegare ai nostri giovani che i veri valori non solo quelli che la televisione, la pubblicità, la moda, ecc. ecc. ci propinano quotidianamente, ma sono altri: il rispetto, la solidarietà, l’onestà (ahimè, basterebbe solo questa a risolvere il 90% dei mali moderni!), la libertà. E’ una strada difficile da percorrere, tutta in salita, ma non ci sono alternative
(Michele Lombardi)
Tener vivo il ricordo e la memoria non vuol dire che non si debba onorare altri valori della storia, ma vorrei ricordare che il nazismo uccise materialmente e moralmente l’uomo e il silenzio delle genti che sapevano e non parlavano si chiama terrore. Dopo duemila anni si onora ancora Gesù Cristo inchiodato sulla croce e non vedo perchè non dobbiamo ricordare i morti innocenti civili oltre che i partigiani e i militari. E’ un insegnamento necessario oggi più che mai proprio perchè una simile violenza e olocausto sta accadendo ancora oggi non troppo lontano da noi. Dimenticare porterebbe a diventare indifferenti e l’indifferenza è la morte di una civiltà. L’importanza di queste commemorazioni sta nell’unione delle persone al di là delle tendenze politiche e la semplice convinzione da portare avanti tutti insieme come un no alla violenza sui popoli.
(Simona Sentieri)
Se la mettete sul piano ideologico-dottrinale vi consiglio di lasciar perdere: non potete fare altro che ammettere il fallimento totale del comunismo (avete paura a chiamarlo con il suo nome invece di chiamarlo stalinismo) e del capitalismo (liberismo, libero mercato, privatizzazioni…) nei confronti del corporativismo fascista. A riprova stanno i fatti: il comunismo è fallito sotto tutti punti di vista (economico,sociale, politico umanitario) lasciando alle spalle decine di milioni di morti; mentre i risultati del capitalismo sono sotto gli occhi di tutti: l’1% detiene il potere finanziario del pianeta. Il corporativismo fascista è stato sconfitto solo ed esclusivamente militarmente, guarda caso dal comunismo e dal capitalismo alleatisi per impedire che la terza via si imponesse all’attenzione del mondo come già stava facendo. Oggi più che mai le soluzioni ai problemi mondiali vengono dal corporativismo. Perciò è meglio parlare delle pietre d’inciampo. Mi sono chiesto come mai non vengono dedicate, queste pietre, alle migliaia di donne, anziani, bambini e sacerdoti assassinati a guerra finita dai cosiddetti “combattenti per la libertà” e la risposta che mi sono dato è che ci sarebbe veramente un problema “d’inciampo” vista la quantità di queste pietre che dovrebbero essere messe in ricordo delle vittime dell’odio dei senza Dio che ha armato la mano dei loro assassini.
(Angelo Riccobaldi, esule in patria)
Non trovo contraddizioni tra lo studiare il periodo delle dittature e, insieme, anche gli anni ’70-80. Alcuni fenomeni attuali si ritrovano per analogia negli anni delle dittature: Hitler andò al potere grazie alle politiche deflazionistiche (taglio dei salari e della spesa pubblica) del cancelliere Brüning; le stesse che mise in atto Mussolini nel periodo in cui l’obbiettivo era la famosa “quota 90” (il cambio della lira con la sterlina). Sono gli stessi meccanismi che troviamo oggi all’opera all’interno dell’eurozona. Del resto, i trattati fondativi dell’eurozona (Maastricht e Schengen) sono il risultato dell’applicazione all’Europa delle politiche liberiste sostenute da Reagan e Thatcher. Su una cosa non concordo: la Repubblica non è fondata sul “dovere” di lavorare, ma sul “diritto” al lavoro, perché è solo attraverso il lavoro (un salario adeguato e dignitoso, specifica la Costituzione) e l’indipendenza economica, che i diritti sociali hanno la loro ragione d’essere e possono essere realmente perseguiti. L’aveva capito Dewey e lo ha ribadito di recente Maslow. La realizzazione del “diritto al lavoro” è l’oggetto della cosiddetta “costituzione economica”, cioè di quella parte della Costituzione che esplicita i mezzi per realizzare pienamente tali diritti. Ma attenzione: affrontare questi temi, a scuola, non è gradito a tutti, perché significa mettere in discussione il paradigma dell’Europa che ci dà la pace, e dell’euro che è solo una moneta. La pace ce l’ha data la Nato, e l’euro è un sistema di cambi fissi che, svalutando di fatto il marco, ha favorito la Germania e i suoi satelliti del nord Europa, mentre ha distrutto le economie dei paesi del sud Europa, per prima l’Italia, e, insieme alle economie, i diritti. I diritti sociali sono oggi negati dal liberismo internazionale, perché vanno contro la “razionale allocazione dei capitali e del lavoro-merce” ma li ritroviamo ancora ben chiari nella Costituzione. Quindi, ben venga ogni iniziativa che ci fa riflettere su quel periodo storico, che ha dato origine alla Costituzione. Difendere la Costituzione, oggi, vuol dire difendere quei diritti per i quali molti hanno lottato.
(Commento firmato)
Aristotele diceva che “il tutto è sempre maggiore della somma delle sue parti”. Se mai così fosse, e l’evidenza direbbe di sì, le analisi, anche le più sofisticate, cercano solo di riempire il vuoto che rimane tra una somma e l’intero, riducendo la verità ad un’interpretazione soggettiva.
(Mv)