La data precisa non la ricordo ma mi sembra che fossimo verso la fine dell’estate del 1944, quando, intorno a noi, c’era già stata qualche triste esperienza con le SS e la Milizia italiana.
Un pomeriggio chiaro, senza nubi e senza nebbia. Di là dal Tassobio udimmo il borbottare di un motore, certamente di un'automobile, lo si distingueva bene. Era lontano, a volte ovattato come se si allontanasse, e subito dopo arrogante, come chi vuole fare la voce grossa. Un effetto prodotto dalle curve continue.
Il rumore di un motore non ci era nuovo, però era ancora raro. E per di più, date le contingenze politiche, poteva essere un brutto segnale. Di motori conoscevamo bene quello della trebbiatrice, che, però, davvero era solo un motore, non un semovente, e come tale se ne stava appollaiato nell’aia a far girare il lungo cinghione del batdûr (trebbiatrice), poi silenzio fino a quando veniva piazzato, livellato, coccolato in un’altra aia.
Da poco, nella vallata del Tassobio, era comparso un trattore. Che andava bene a Vedriano dove i terreni, ancora oggi, sono più agevoli, non sul nostro versante, alla sinistra del torrente. Lo aveva comperato un benestante del posto. Era un cìngoli, una motrice che, a dire di molti, avrebbe soppiantato diverse coppie di buoi e mucche da tiro. Effettivamente era molto più veloce: lo vedevamo arare vasti campi senza altre soste se non il rifornimento di carburante. Trascinava un aratro grosso tre volte quello a mano, e arava in discesa e in salita. In più bastava una persona sola. E quando il padrone lo metteva in moto noi del versante opposto ci fermavamo a guardare, entusiasti, (forse anche un po’ invidiosi!) del lavoro che produceva. Ma quell’oggetto invidiato e temuto, mentre arava un campo sotto Pietranera, sbagliò una mossa e, dopo un paio di capriole, si trovò sotto l’argine, diversi metri più a valle, spento, in posizione naturale. Fortuna volle che lì ci fosse una carraia capace di fermarlo, altrimenti avrebbe capriolato fino al Tassobio, qualche centinaio di metri più in basso, giù per le brulle Sadine, con le conseguenze che possiamo immaginare. Rimase su quella carraia oltre un mese, diventando parte del paesaggio. Non ho mai saputo se fu per colpa del meccanico che non arrivava mai o perché il guidatore, a sua volta, aveva avuto bisogno di… riparazioni. Più probabile la seconda opzione. E quando ripartì, anche per noi dell’altra sponda, fu come una liberazione e una vittoria.
Di motori che increspavano l’aria, come già detto, non ce ne erano tanti. A tarda sera, e non tutti i giorni, sentivamo il Postale, (la corriera), che da Trinità raggiungeva Vedriano. Ma di questa più che il motore si udiva il clacson, azionato ad ogni curva. E il suo suono bitonale percorreva tutta la vallata.
Erano circa le sedici quando udimmo il rombo di un motore diverso da quello del trattore. Proveniva dalla Villa di Vedriano. Dalla sagoma capimmo che si trattava di una Balilla. Del resto, all’epoca, i modelli nazionali erano pochi e la scelta obbligata. La seguimmo lungo tutto il tragitto. Scese giù fino a Pietranera, attraversò, come una talpa, l’abitato, poi osò inoltrarsi lungo la carraia che portava verso il Mulino Zannoni. Oggi quel tratto è percorribile in auto, ma a quei tempi era solo una mulattiera. Con qualche sobbalzo e dimenandosi come una papera la vedemmo dirigersi verso il Šundiré. Questo nome indica il punto in cui il Rio Maillo si congiunge col Tassobio, sotto Gombio e a poche centinaia di metri dal Mulino Zannoni. Il nome Šunt d‘ i ré, contratto in Šundiré, significa Congiungimento dei rii.
Dal centro dell’immagine, verso sinistra, si intravvede la strada percorsa dalla Balilla.
A questo punto miriadi di ipotesi invasero la mente di chi stava a guardare l’automobile, ma senza una risposta convincente. Che temerario! Dove crede di arrivare? In quel punto era possibile guadare il Tassobio al massimo con un semplice biroccio con ruote abbastanza alte, ma non con una vettura. Nessuno si preoccupava di spianare l’alveo del torrente, e le piene rotolavano sassi e rendevano instabile il passaggio. È vero che, per scavalcare il torrente, esisteva una passerella, ma su quella poteva transitare, con prudenza, una persona alla volta.
Arrivata a pochi metri dal guado la Balilla deviò improvvisamente a destra, occultandosi sotto un ombroso cespuglio, diede un’accelerata per scaricare le valvole, poi tacque e lì si fermò. Da casa nostra vedevamo l’autista e una seconda persona armeggiare con frasche per nascondere il più possibile l’auto alla vista di chiunque. E ancora una volta i pensieri più strani si aggrovigliarono nella mente.
Agli inizi di maggio dell’anno successivo, a guerra finita, sempre in un giorno di sole, l’auto riprese a scoppiettare, poi si mosse, arrancò per risalire sulla strada e si diresse verso Vedriano. Quel mostriciattolo meccanico si era ridestato dal letargo. Lentamente, con difficoltà dovute alla lunga immobilità e alle asperità della carraia, la vedemmo ripercorrere il tragitto inverso e scomparire in direzione di Trinità. E, nel nostro intimo, partecipammo alla soddisfazione del padrone nel riportare a casa l’automobile.