B. Antèlami – Dicembre - Duomo di Modena
Il pranzo di Natale
Intorno a mezzogiorno ci si metteva a tavola. Data l’importanza della festività, e in deroga alle consuetudini imposte dalla povertà negli altri periodi dell’anno, il pranzo di Natale rivestiva un’importanza particolare. In primo luogo doveva evidenziare l’unione della famiglia, come avevano insegnato i vecchi:
Nadâl cun i tö, - Pàsqua indù’ t’ vö.
[Natale coi tuoi / Pasqua dove vuoi].
Doveva essere la dimostrazione del tenore di vita del nucleo familiare: più il pranzo era consistente più la famiglia stava bene ed era tenuta in considerazione. Doveva infine appagare il corpo perché una buona mangiata, è scontato, fa bene al corpo e all’anima: a pânsa piêna s’ ragiûna mèj. Certo a quel tempo non ci si poneva il problema sull’origine cristiana o pagana della festa: un poco il clima ricordato prima, un poco il latinorum usato nella liturgia natalizia tutto era avvolto in un alone di mistero dal quale, in definitiva, si preferiva non uscire. Per primo venivano serviti i cappelletti in brodo di cappone o di gallina. E non di rado si faceva il bis, magari con la scusa di onorare la cuoca e accettandone solo un cuciâr. E chi se la sentiva di non approfittare dell’occasione dato che il piatto lo si poteva riassaporare sì o no un paio di volte in tutto l’anno? Per secondo era ottima la gallina lessata per fare il brodo, accompagnata da un poco di magro di manzo. Una salsina apposita insaporiva il tutto. Per contorno chi le aveva tirava fuori le cipolline bruâdi nell’aceto o, se ne erano avanzate, le bietole rosse preparate per la cena di magro della vigilia. Verdure fresche? E dove le trovavi a Natale? Ah, sì, c’erano le verze tritate finemente o cotte e condite col lardo fritto. Visto che il pranzo andava un po’ per le lunghe spesso la cena la si saltava del tutto, oppure ci si accontentava di quanto era rimasto a pranzo.
Non potevano mancare i dolci tipici del Natale: la torta e i tortelli di castagna. Per i più abbienti poteva comparire anche qualche torrone o, per frutta, i mandarini, i proverbiali portugàj.
Ma in questo periodo scattava una inconscia gara d’astuzia tra noi ragazzi e la nonna. Lei era solita preparare una scorta abbondante di tortellini di castagna, fritti o cotti al forno, da offrire agli ospiti in visita. E li occultava con ogni stratagemma nel capiente cherdensûn, una credenza a muro, ricavata da una porta chiusa, situata nella camera da letto della nonna. Toccava a noi essere più abili di lei e scovarli. Di nascosto, sottinteso.
La sera di fine anno
Da noi la cena non si distingueva molto da quelle degli altri giorni. Era frugale come di solito e basata sul menu della quotidianità. Qualcosa invece cambiava per le ore tra la cena e la mezzanotte, ore che bisognava impegnare in qualche modo per arrivare desti al giungere del nuovo anno. La maggior parte delle famiglie si raccoglieva a lungo in preghiera attorno al fuoco, recitando formule canoniche e altre popolari per un certo numero di volte. Lo stratagemma era utile per coprire una buona fetta di tempo. Ove però fosse il confine tra la devozione e la superstizione non è dato sapere. La garanzia di essere nel giusto stava nell’affermazione: così ci hanno insegnato i nòster vè-c.
I mestieri:
Calzolaio al lavoro (da Google)
Un altro mestiere da svolgere a domicilio. A differenza però dello scrannaio che veniva da lontano il calzolaio era uno del posto o di qualche borgata vicina, conosciuto da tutti. Per noi era Milio, Emilio Beretti di Rosano.
Toccava al capofamiglia chiamarlo. Al suo arrivo si radunavano tutte le scarpe, i sandali, gli zoccoli che necessitavano di qualche ritocco nell’androne ove il calzolaio si era stabilito. Una sedia dai piedi corti, un deschetto improntato alla meglio e tutto intorno gli attrezzi di maggior ingombro: il piede di ferro, il sasso per battere il cuoio, le forme, la vaschetta per mettere a bagno il cuoio. Sul deschetto il martello, il trincetto, le tenaglie, le pinze, le lesine, il bussetto, i marcapunti, il segnarighe, la lima, e tante scatoline con dentro i chiodini, le smentîni, gli sprocchi, le borchette, le grappe, la pece. Appesi alla sponda della sedia il tirapè (tirapiedi) e alcuni spaghi già confezionati. Il tirapiedi era una cintura ad anello per tenere ferma la scarpa da aggiustare. Si imbragava la scarpa su un ginocchio e con l’altro piede si teneva tesa la cintura per lavorare con tutte e due le mani.
Deschetto da calzolaio (da google)
In primo luogo il calzolaio prendeva visione del lavoro e delle precedenze, poi si metteva all’opera. Se valeva la pena di riparare la scarpa proposta si cominciava col rafforzare le cuciture con spago nuovo e inchiodature. Poi si passava ad applicare eventuali Tmarö ove la pelle risultasse lesionata. Ma quando la suola era talmente logora da non potere più essere riparata si cercava di recuperare la tomaia per farne zoccoli. Su una suola di legno dolce, già sagomata e levigata, veniva applicata la tomaia predetta fissandola con chiodi applicati sopra una reggetta metallica per rinforzare l’unione dei due elementi. Logicamente lo zoccolo diventava più piccolo della scarpa precedente. Per fare durare più a lungo lo zoccolo gli si applicavano le borchette, degli appositi chiodi corti e con la capocchia marcata. Oltre a proteggere la suola le borchie favorivano la presa, specialmente sul ghiaccio.
Il lavoro cui il calzolaio ambiva maggiormente era la confezione di scarpe nuove. Qui, oltre ad un lavoro più continuativo, poteva dimostrare maestria ed abilità. Con maschere specifiche cominciava a tagliare la vacchetta e a predisporre i vari elementi che successivamente univa con le cuciture. Passava quindi a trattare il cuoio per le suole. Dopo averlo lasciato a lungo nell’acqua lo batteva su un sasso di fiume ovale e levigato, per renderlo più consistente. L’operazione del taglio richiedeva attenzione e precisione. Era giunto il momento cruciale: unire tomaia e suola sull’apposita forma, dando loro la sagoma del piede. E qui era tutto un gioco di precisione e di astuzia per fermare, tirare, schiacciare, comprimere centimetro per centimetro, e passare alla cucitura definitiva. Via via che la scarpa prendeva forma si apportavano le correzioni o le rifiniture perché l’oggetto, oltre che consistente, fosse anche bello da vedere.
Al termine del lavoro convenuto, che poteva durare anche una settimana, il calzolaio esponeva una fila ordinata di scarpe recuperate all’uso e di nuovi tronchetti, polacchini, scarponi o zoccoli.
Un’urasiûn bendèta
Anche in questo caso si tratta di una formula diffusissima, variata e adattata a luoghi e persone. In pratica, come succede quasi sempre coi testi tramandati a voce, chi l’ha ascoltata la riporta come l’ha recepita (quindi con possibili parole travisate), oppure non ricorda tutti i passaggi ma ricorda i concetti, e allora improvvisa per concludere la strofa con mezzi propri. Ciò spiega le incongruenze. Questa versione viene dal territorio di Gombio e veniva recitata la vigilia di Natale. [Testimonianza di Elma Rossi-Rabotti]
Un’urasiûn bendèta (o bên dìta?)
la vâl pú che ‘na Mèsa.
‘Na Mèsa a Sant’Ana:
San Péder a la ciàma,
San Jušèf al rispùnd:
roba in cêša, rîš in tèra, (bròchi in cêl, raîši in tèra)
piumîn d’altâr, (pumîn)
aqua dal mâr,
funtanina dal Paradîš,
biâda a cl’ànma ch’a la dîš.
Biâda a cl’ànma e a cul côrp
ch’a la dîš trentisê vôlt
la vigìlia (la sîra) d’ Nadâl
prìma d’andâr a snâr;
al pöl cavâr un’ànma dal Purgatòri
e a la metrà in Paradîš.
Nonostante le varianti questo testo è diffuso un po’ ovunque nella nostra provincia e presente nella maggior parte di scritti che trattano quest’argomento.
Filastrocca
Pimpiušèl
Anche questa filastrocca, in apparenza senza senso, serviva nelle conte per preparare il nascondino o altri giochi simili. Si formava un cerchio e uno recitava la filastrocca toccando un bambino. L’ultimo ad essere indicato andava “sotto” per primo.
Pimpiušèl
l’ò-c dal bèl (da l’ò-c bel)
galina sòpa
munta in piòpa (gròpa)
e d’in piòpa int al pulâr,
tuca a te andâr a cuntâr.
Tuca a te, tuca a stâter,
túca a te ch’t’an fê mai âter!
[Registr. Afra Campani]
I giochi
La šlisaröla (o Blišgaröla)
Il ghiaccio ha sempre attratto i ragazzi. Potersi divertire camminandovi sopra e facendo acrobazie era come riportare una importante vittoria sugli elementi, un dimostrare la propria superiorità e la forza di carattere per superare le forze avverse.
In collina e in montagna era facile costruirsi una pista: un dislivello lungo la strada ove di giorno fosse scorsa un poco di acqua di neve sciolta bastava per fare le prime prove. Poi, con l’uso, la pista si sarebbe allargata e allungata. Magari, la sera, la si poteva aiutare con qualche secchio d’acqua che, gelando, ne avrebbe perfezionato la sede.
In questo caso erano avvantaggiati coloro che calzavano zoccoli di legno: la loro rigidità e resistenza poteva benissimo sostituirsi ai moderni pattini.
Anche gli austeri studenti inglesi, un tempo,
si divertivano sul ghiaccio (da Google)
Un altro modo di fare la scivola, in assenza di neve, consisteva nello scoprire un tratto di riva privo di vegetazione, una specie di solco profondo e ripido. Ci si sedeva al vertice e ci si lasciava andare a peso morto fin dove era possibile. Naturalmente questo comportava un certo logorio dai pantaloni nella parte posteriore, con relativa lavata di capo da parte delle mamme.
A tutti i lettori di Redacon e a tutti gli amici
Buone Feste e Auguri di ogni bene.
Caro Savino, quanti bei ricordi! Grazie, grazie! Con i tuoi racconti mi fai tornare indietro negli anni e rivivere emozioni che credevo dimenticate; è importante trasmettere ai ragazzi le nostre tradizioni, impareranno sicuramente ad apprezzare ciò che possiedono. Auguri carissimi a te e a Maria.
(Giancarla Bazzoli)
Grazie, Giancarla. Anche noi ricambiamo gli auguri di serenità e pace. Quanto ai ricordi li considero tesori, input di vita per il loro contenuto. E ritengo doveroso non perdere quanto i nostri antenati ci hanno lasciato. Non tanto in beni materiali, corruttibili, come la società attuale ci dimostra, ma per la parte culturale, per gli insegnamenti validi e senza tempo. Come ho detto ai ragazzi delle Quinte della Pieve, il mio lavoro è, modestamente e nei limiti umani, il monumento alla saggezza dei nostro nonni.
(Savino Rabotti)