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Roberto Lugli spiega:”Perchè domenica voterò SI'”

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Riceviamo da Roberto Lugli di Carpineti  e pubblichiamo. 

Roberto Lugli
Roberto Lugli

Proviamo a domandarci: da dove ricomincerebbero i Costituenti se improvvisamente ricapitassero da queste parti? Quali priorità si darebbero per rimettere in sella il loro (e il nostro!) Paese, malandato fin che si vuole, ma pur sempre dotato di un patrimonio straordinario dalle mille risorse e dalle quali potrebbero venire altrettante opportunità?

Di certo non perderebbero tempo a riaprire il cantiere politico che settant’anni fa fece rinascere il Paese dalle macerie della guerra e che ora è divenuto nuovamente indispensabile, per ricercare accordi e intese utili a riorganizzare un’Italia che oggettivamente fa fatica a reggere un passo competitivo credibile, in Europa e nel mondo.

Assodato che la nostra democrazia non corre attualmente alcun pericolo e che gli argini istituzionali (i Poteri dello Stato) ideati nel ’47 contro ogni deriva nostalgica hanno ben funzionato (Costituzione rigida), i Padri prenderebbero atto della profonda mutazione socio-economica del Paese. E’ l’Italia di oggi che impone un nuovo sistema di governo, capace di assecondare e sostenere senza invadenze le nostre potenzialità in modo più dinamico, per consentire al Paese di muoversi con più agilità in uno scenario internazionale che dall’Italia si attende oramai da troppo tempo una ritrovata vitalità.

Certo, i Costituenti si domanderebbero anche come ridurre concretamente i costi della politica e con ogni probabilità maturerebbero la convinzione che negli ultimi trenta anni qualche esagerazione di troppo c’è stata, che all’Italia del Ventunesimo secolo non servono più 8mila Comuni, un centinaio di Province, 20 Regioni e un Parlamento strutturato in due rami che fanno lo stesso mestiere (bicameralismo paritario). E’ una governance istituzionale dispendiosa, i cui costi diretti di funzionamento, elevati, alla fine rischiano di essere addirittura inferiori a quelli indiretti. E sono proprio questi ultimi i più mortificanti, poiché si materializzano nelle mancate occasioni di crescita che questo Paese potrebbe cogliere ma che troppo spesso vengono compromesse da Enti locali sottodimensionati (non sono pochi quelli che contano meno di 100 abitanti), conflitti di competenza tra lo Stato e i suoi organi periferici (Regioni in primis) e che continuano a nutrire una burocrazia al limite della vessazione, “nemica” dei cittadini e delle imprese.

Sì. Si può provare a cambiare. E’ responsabilmente doveroso. Non si può considerare il testo del referendum un atto di abiura nei confronti della Costituzione repubblicana del ’48 nata dalla Resistenza. Domenica 4 dicembre viene chiesto agli italiani di confermare una legge più volte approvata e riapprovata definitivamente il 12 aprile scorso, che in buona sostanza vuole modificare compiti e composizione del Senato per dar voce a un territorio con cui Roma deve in modo nuovo rimettersi in proattiva sintonia. Si propone pure di eliminare il CNEL: d’altronde, proprio il contratto nazionale per il settore metalmeccanico in questi giorni sottoscritto unitariamente tra le parti sindacali dei lavoratori e Confindustria dimostra che le rappresentanze godono di un’autonomia progettuale propria, anche in assenza del Comitato dell’economia e del lavoro, messo allora in Costituzione quando delle competenze in esso allocate vi era evidente bisogno.

Ora, francamente non ricordo una campagna elettorale dai toni così accesi; questa sembra avviarsi a conclusione in un crescendo rossiniano incomprensibile. E dire che sobrietà di linguaggio e senso della misura sarebbero state di grandissimo aiuto a far comprendere la responsabilità della scelta rimessa domenica alle mani (e alla testa) degli elettori. L’auspicio è che in queste settimane sia maturata tra gli elettori la consapevolezza della possibilità di promuovere una riforma capace di un cambiamento molto profondo del “sistema Paese”, non un semplice e inutile ritocco di esso.

Tuttavia, se dal male viene il bene, la vittoria dell’uno sull’altro porterà un po’ di chiarezza i confronti delle forze politiche che su tali opzioni si sono spese. Le “strategie correntizie” del gioco minoranza-maggioranza in questo appuntamento appaiono inconciliabili e possono avere ripercussioni molto serie sugli equilibri politici che, giocoforza, sono destinati a modificarsi. A livello parlamentare e, dunque, governativo. Da più parti vengono infatti molte rassicurazioni (e poche garanzie) in ordine alla continuità dell’attuale Governo, sia che a prevalere sarà il Sì oppure il No. Va da sé che nella seconda ipotesi si aprirebbe una strada molto impegnativa; in proposito, qualche segnale è già emerso anche dalla recente “Leopolda”.

In fine, rimangono senza argomentazioni plausibili il disconoscimento della corresponsabile paternità della Legge, ora sottoposta a referendum. E inquieta ancora una volta l’inguaribile autolesionismo di cui è affetta buona parte della classe dirigente di questo Paese, dimostrata con dosi letali di incoerenza nella totale incuranza del biasimo degli italiani che da qualche anno si ripresenta con la diserzione delle urne.

Nel 2001 ho sostenuto con convinzione la riforma in senso federalista del Titolo Quinto della Costituzione, mediante la quale è stato assegnato alle Regioni un ruolo legislativo importantissimo. Una riforma che a mio parere andava nella giusta direzione, poiché si intendeva rafforzare il principio dell’autogoverno delle comunità. Difficile immaginare l’abuso che tante Regioni ne avrebbero fatto ed al quale oggi i Costituenti porrebbero senz’altro urgente rimedio.

Roberto Lugli

3 COMMENTS

  1. Forse, e per prima cosa, i padri costituenti si chiederebbero anche perché mai si è fatta oggi una riforma senza istituire un’assemblea costituente, come avvenne all’epoca per elaborare un testo che fosse quanto più possibile condiviso tra le forze politiche. Ora però il mondo è cambiato, tutto si è accelerato e occorre pertanto andare in fretta, senza ripassare cioè da una assemblea costituente, potrebbero replicare i sostenitori di questa riforma, ma a questo punto si potrebbe ribattere loro – ossia i predetti sostenitori – che si sono persi dieci anni per “ridurre concretamente i costi della politica”, ecc., ecc., perché si doveva allora approvare la riforma del centro-destra, che diminuiva il numero dei parlamentari, ridefiniva i rapporti tra Stato e Regioni, introducendo al riguardo il principio dell’interesse nazionale, prevedeva misure cosiddette “antiribaltone”, ecc., ecc. Eppure quella riforma venne respinta dal referendum popolare tenutosi nel 2006, ma il prevalere dei “no” non comportò allora che si aprisse “una strada molto impegnativa“, ipotesi questa che viene invece ventilata oggi nel caso di vittoria del “no”, e che lascia intendere scenari abbastanza preoccupanti, i quali possono funzionare un po’ da “spauracchio” o deterrente verso l’elettorato (anche se immagino non essere questa l’intenzione dell’estensore di queste righe). Sempre l’autore di queste righe dice di non ricordare “una campagna elettorale dai toni così accesi”, il che mi sembra indicare in maniera piuttosto chiara che il confronto ha assunto ormai una connotazione essenzialmente politica anche perché è stato politicizzato e personalizzato fin dall’inizio, e non ci si può pertanto meravigliare del “clima surriscaldato” che si è andato poi creando. Da ultimo, se l’auspicio dell’autore è quello che in queste settimane sia maturata tra gli elettori la consapevolezza che occorre una riforma capace di cambiamenti molto profondi nel sistema Paese, converrà il medesimo che per una “revisione” di tale portata occorreva passare di nuovo da un’assemblea costituente.

    (P.B.)

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