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Novembre II parte

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il-profumo

Che le castagne fossero il pane dei poveri ce lo conferma anche una tenzone campanil-letteraria tra i nostri pastori transumanti (denominati Lumbârd) e i garfagnini. Sul nostro versante si faceva molto uso di polenta di granturco. In Garfagnana prevaleva l’uso delle castagne. I garfagnini sbeffeggiavano i nostri pastori con la strofa: Lumbardàs d’un lumbardûn, / s’a n’ ghe fúsa al furmentûn / t’ murirìs int un cantûn. E i nostri rispondevano: Garfagnîn d’ la Garfagnâna, / s’a n’ ghe fúsa la castàgna / t’murirìs  dentr’a la stmâna!

caldarroste

Alcuni cibi fatti con le castagne

Si dice che sia stata Matilde a portare le castagne nelle nostre montagne. Date le condizioni sociali del tempo può essere che la Contessa abbia favorito la coltura di tale pianta, ma la castagna, stando a reperti archeologici rinvenuti nel territorio delle Apuane, esisteva già 10.000 anni fa. Era scomparsa nell’ultima glaciazione per ricomparire in Asia, poi in Europa e qui da noi. Ne parlano Ippocrate, Senofonte, Teofrasto e tutti gli studiosi di storia naturale latini, compreso Virgilio che da ragazzo, stando ad una leggenda, d’estate veniva a pascolare i suoi armenti nel territorio di Marola.

Necessità aguzza l’ingegno. E questo in particolare quando le risorse sono poche e la fame molta. Per cui, in un territorio ove la terra era avara di prodotti agricoli, occorreva operare sui prodotti presenti e renderli variati ed appetibili. Questo è accaduto con le castagne, un cibo povero, come si è detto, ma con una consistente varietà d’impiego. Eccone alcuni:

Balús: in italiano vengono chiamati ballotte, nelle regioni del centro Italia balogi o bàlleri.  Altro non sono che le castagne fresche lessate e mangiate succhiandole dalla buccia. Qualcuno aggiunge all’acqua una manciatina di sale. A volte assieme alle castagne si cuoceva anche un tipo di pere dette nobili, poco gradevoli da mangiare crude ma ottime lessate.

Bruâdi: in Val Tassobio erano le castagne secche lessate. Quasi sempre si mangiavano a colazione riscaldate nel latte. Se si schiacciavano il loro impasto serviva per torte e tortellini.

Caldarroste o Mundîni: In questo caso è preferibile utilizzare i marroni. Prima si pratica un taglio sulla buccia per evitare che il marrone scoppi durante la cottura. Si diceva: Castrâr i marûn.  Si pongono poi dentro una padella speciale, con tati fori sul fondo, e si mette la padella sopra il fuoco agitando spesso per uniformare la cottura. Per aumentare la fiamma alcuni gettano una manciatina di sale sul fuoco. Con le caldarroste ben sbucciate si possono fare anche i marron glacé o altre specialità.

Casaghèj, (o cacciagalli) di castagna. Si facevano con farina di castagne fatta bollire lentamente e mescolando spesso. Si versavano nei piatti fondi e si potevano condire con latticini (ricotta, latte),  con salsiccia fritta, o anche coi fegatelli.

Castagnàs: si preparava un impasto con farina di castagne, acqua, latte, un pizzico di sale fino, un poco di lievito naturale, un poco di buccia di limone grattugiata, poi con un cucchiaio si versavano nello strutto bollente ottenendo una specie di polpetta, preoccupandosi di girarli spesso e schiacciarli.

Fertèli, Fertlòt o Fertlûn: erano grosse frittelle a base di farina di castagne.

Pân d’ castìgna: ottenuto impastando la farina di castagne e cuocendolo al forno. Aveva l’inconveniente di impomare, cioè non si riusciva a mangiarne molto perché era asciutto e pesante da deglutire. Per questo le pagnotte erano più piccole. Ma d’inverno permetteva di risparmiare il grano.

Patûna: focaccia a base di farina di castagne e altri ingredienti. Si impastava il tutto col latte poi si cuoceva al forno. A piacere si inserivano pinoli o altra frutta secca.

Pulenta d’ castìgna: sempre ottenuta con la farina di castagne e cotta come la polenta di granoturco. Logicamente aveva un sapore dolce.

Sughi (Sûgh ad castìgna, per distinguerli da quelli di mais): prodotti con la farina di castagna cotta come la polenta, ma diluita con acqua e mosto. Dovevano restare molto fluidi. Una volta cotti si versavano nei piatti fondi per raffreddarli.

Questi erano alcuni modi di consumare le castagne ai tempi dei nonni. Oggi ci sono tanti altri modi, dai primi ai secondi e dolci, suggeriti anche su internet. Alcune di queste ricette danno molto da pensare. Ma non posso dare un giudizio su di esse perché ho l’onore di non averle ancora sperimentate.

 Le visite al cimitero

 Il giorno dei Santi o quello della Commemorazione dei defunti, nessuno poteva esimersi dalla visita al cimitero. Al massimo era consentito anticipare di qualche giorno la pulizia delle tombe dei familiari, ma mai essere assenti al rito della commemorazione, né tanto meno omettere di portare dei fiori sulla tomba di chi ci ha preceduti. Una persona poteva essere volgare e blasfema: lo si tollerava. Ma non andare al cimitero in quella circostanza lo faceva paragonare alle bestie. Di solito la pulizia delle tombe consisteva nel ripulirle dalle erbacce, poi si riassettava la terra zappettata, in fine si cospargeva la parte ripulita con gesso o sassolini bianchi. Ogni famiglia coltivava a questo scopo piante di crisantemi che venivano recisi e portati appunto sulle tombe dei familiari. Chi non disponeva dei crisantemi autentici inseriva nel vaso fiori finti in celluloide. Avevano il vantaggio di durare sempre e non richiedevano manutenzione.

Il culto dei morti è nato con l’uomo, e qui da noi è sentito in modo viscerale. Presso ogni religione ha un capitolo a parte. L’affetto che ci ha legato in vita a persone ci spinge a proseguire il rapporto anche dopo che questi ci hanno lasciati. Se per noi cristiani la morte viene considerata solo un passaggio ad una vita migliore, per gli antichi era anche qualcosa di più. Le anime degli antenati diventavano uno spirito protettore e bisognava avere per esse un culto adeguato. Ogni famiglia etrusca o romana erigeva in casa un altarino agli dei Mani, ai quali veniva demandato il compito di proteggere la dimora da sventure.

 La prima neve

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Rompere la neve.  Qui siamo sulla Sparavalle  (Foto Lodi)

Quando le stagioni seguivano ancora il loro corso naturale era facile vedere la prima neve già in Novembre:

 Per Santa Catirina - o l'ê nêva o l'ê brîna.

 Non è molto chiaro, oggi, di quale Caterina si tratti. Quasi sicuramente di Santa Caterina di Alessandria, che in alcuni luoghi viene festeggiata il 25 Novembre e la cui devozione era molto diffusa essendo la patrona delle sartine, dei mugnai, dei prigionieri, della balie e delle nutrici, dei barbieri e dei parrucchieri, dei filosofi, dei teologi, delle modiste e degli arrotini.

Le prime nevicate però non erano abbondanti come quelle di Dicembre che, quando dicevano sul serio, davvero A gh’in gnîva ‘na gâmba! E allora occorreva organizzarsi per la spalata, come vedremo più avanti. Tuttavia, anche se si trattava di una semplice infarinatura delle strade, era sufficiente per allenarsi a fare la Blišgaröla o per iniziare la costruzione di rudimentali sci o slitte.

Andâr in vè-g 

 Le giornate corte, la nebbia stantia, i pochi lavori da concludere trasmettevano una sensazione di noia, di fastidio, come quella di chi soffre di insonnia e deve constatare che A n’ vên mài dì[Non si fa mai giorno]. Per debellare o prevenire tale stato d’animo, per ovviare alle notti troppo lunghe, ci si recava a veglia presso qualche famiglia con le più disparate scuse. Poteva essere l’occasione buona per scambiare quattro chiacchiere con amici, per esprimere la propria opinione e ascoltare quella altrui sui raccolti, sul tipo di mucca più redditizio, sulle prospettive future, sul mercato, la società, la politica, per riferire o venire al corrente di sussurri e voci su questo o quello.

L’esperienza insegna che a parlare a lungo la saliva viene meno per cui un bicchierotto di quello nuovo ci poteva stare benissimo. Magari il padrone di casa camuffava l’assaggio con la scusa di sentire il parere dell’ospite sul nuovo prodotto.

Ma l’incontrarsi dopo cena non si limitava a quanto detto prima, specialmente se le persone avevano una buona predisposizione a raccontare.  A tale proposito viene citato ancora oggi, a oltre mezzo secolo dalla scomparsa, Attilio Incerti di Casalecchio, dotato di una memoria formidabile, capace di ripetere a memoria interi romanzi. Le sue conoscenze si limitavano a tre o quattro opere popolari note nel corso del XVIIIº e XIXº secolo: I reali di Francia, La storia di Santa Genoveffa, e pochi altri. A volte la trama era talmente prolissa ed intricata da non poter essere narrata in una sola sera. Ecco allora che si suddivideva il testo in puntate. La sera seguente o poco dopo Attilio sarebbe ritornato a continuare il racconto.

Questo era l’aspetto che oggi potremmo definire culturale, ma l’andare a veglia aveva tante altre sfaccettature che coinvolgevano tutti gli aspetti della vita, come abbiamo visto, quali i consigli sul lavoro, sul bestiame, sugli affari, qualche riflessione sul panorama politico espressa quasi sempre in forma addolcita e diplomatica, ma a volte anche con irruenza e decisione, a rischio pure di alterare l’amicizia con l’interlocutore.  E non dimentichiamo l’altro aspetto, quello che coinvolgeva il futuro dei giovani. Nelle case ove risiedeva una fanciulla da marito era più facile trovare qualche giovane propenso a sistemarsi. Dialogare coi genitori della ragazza significava farsi conoscere. Se poi il giovane interessava anche alla ragazza la conclusione la si può immaginare.

I mestieri: Al Scranàj    (Il seggiolaio)

Quando passavano nel borgo, una volta all’anno, ogni famiglia trovava loro lavoro anche per diversi giorni. Quei personaggi indecifrabili, seri, taciturni, erano come avvolti nel mistero: difficilmente si riusciva a scoprire qualcosa della loro esistenza. Quelli che passavano da noi erano bellunesi (I dešgnîven dal Vènet, dice Luigi Ferrari) e pare che fossero emigrati prima della grande guerra per motivi politici.

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Al Scranài  (Da google)

Su un supporto di legno che rassomigliava molto alla sponda posteriore di una seggiola, tenuto a spalla con due cinghie come se si trattasse di uno zaino, riuscivano a collocare attrezzatura e materiale da lavoro. Spiccava per il volume la Palêdra, l’erba palustre usata per impagliare il sediolo, chiamata càrice. Con questo materiale, adeguatamente ritorto fino ad ottenere delle corde lunghe e sottili, si realizzavano prodotti diversi a seconda della destinazione, dalla più semplice sedia alle poltroncine signorili con trama a scacchiera, a spina, a spiga. In pianura si confezionavano anche sporte. Quello che veniva nel nostro borgo era bellunese. E pare che gli scrannai bellunesi fossero i migliori se, ancora oggi, si sente ripetere: Le sedie di Belluno – non le rompe nessuno.

Dalla strada, davanti all’uscio, lo scrannaio chiedeva se vi era qualcosa da fare. Se sì, cercava un posticino all’ombra e fuori dai piedi, esaminava il materiale proposto, piazzava gli strumenti e via. Il più delle volte si trattava solo di riparare seggiole vecchie: sostituirne i pioli, rimetterle in squadro, rifare il sediolo, recuperarle all’uso, insomma. Altre volte invece bisognava farle nuove. Allora chiedeva ai padroni il legno da utilizzare, che, di solito, era di ciliegio. Lo spaccava in tanti grossi listelli poi cominciava a sagomarli. Con gesti precisi e solenni prima sgrossava il listello poi con un coltello speciale, ricurvo e a due manici, gli dava la forma adatta e lo levigava a dovere. Sotto quelle mani rapide il legno prendeva forma e in poco tempo il telaio era già montato.

A sera gli veniva somministrato un piatto di minestra e un bicchiere di vino come ai familiari, poi gli si indicava un posticino nella stalla dove poteva trascorrere la notte. A lavoro terminato l’artigiano riceveva qualche soldo e qualcosa da mettere sotto i denti lungo il cammino. Dopo di che riprendeva il viaggio, un viaggio lungo come l’esistenza, ripetitivo fino alla noia.

 Al  Bên 

 Di preghiere ve ne erano di diversi tipi e importanza. Naturalmente le preghiere ufficiali erano quelle imparate andando a dottrina, quelle che potremmo definire canoniche. Ma la gente aveva anche un bagaglio di preghiere e giaculatorie proprie, ricavato dalla esperienza quotidiana, influenzato dalle prediche, specialmente quelle delle missioni, ma espresso nella lingua di tutti i giorni, il dialetto. Pur non disponendo dell’avallo ufficiale della Chiesa difficilmente si scostavano dall’ortodossia. A volte potevano sconfinare nella superstizione, ciò però va attribuito non alla poca cultura religiosa della gente ma ad un certo modo di inculcare il timor di Dio da parte dei predicatori che preferivano evocare un Dio giudice severo al posto di un Dio padre amoroso.                                                        

Prima  di  coricarsi

Adès i’ vàgh a lèt

ad Dòmine al cuspèt,

cun Dòmine magiûr,

cun Crist al Salvatûr.

    Cašo mai ch’i’ n’ m’alvèsa

    l’ànma mia i’ la làs a San Michêl, 

    ch’a la pèša, ch’a la guàrda,

    che ‘l nemîgh a n’ gh’àbia pârta 

    né ad dì né ad nòt

    né int al pûnt ad la mešanòt, 

    né int al pûnt ad la morta mia.

    Sgnûr, salvê l’ànma mia!

      [Registrata dalla voce di Bruno Incerti di Casalecchio]

 [Ora mi corico / al cospetto del Signore, / con il Signore [che è] il maggiore / con Cristo il Salvatore. / Caso mai non mi rialzassi / l’anima mia l’affido a San Michele Arcangelo / che la valuti, che la custodisca / perché il nemico non abbia nulla a che fare con lei / né di giorno, né di notte / né sul punto della mezzanotte, / né sul punto della morte mia. / Signore, salvate l’anima mia].

 Per comprendere meglio il brano è bene ricordare:

  • L’immagine di San Michele ripropone la lotta eterna tra il bene e il male e la sconfitta di Satana. Nel nostro territorio la devozione all’Arcangelo e ai Santi guerrieri (come San Giorgio) si è sviluppata sotto il dominio dei Longobardi (popolo di guerrieri) in contrapposizione all’ascetismo bizantino e al culto dei santi dell’inizio del cristianesimo (Apostoli, primi martiri, Dottori).
  • L’espressione che ‘l nemîgh a n’ gh’àbia pârta richiama formule giuridiche arcaiche. “Avere parte” corrisponderebbe, oggi, ad “essere comproprietario”.
  • Né int al pûnt ad la mešanòt. Trapela l’aspetto superstizioso. Mezzanotte: l’ora delle streghe e dei folletti, tutti esseri considerati emissari del demonio.

 

Filastrocca

                   Pêder Jàcme

             Ûn e dû e trî e quàter,

             la mujêra d’ Pêder Jàcme.

             Pêder Jàcme al và al mulîn

             cun un sàch ad furmentîn,

                      e al dumanda a la munâra:

                     “Quanti pân a gh’in gnirà?”.

             Ûn e dû e trî e quàter,

             set e ot e vintiquàtre;

             vintiquàtre e vintisînch,

            set e ot e növ e vînt.

            Fêgh mo’ ‘l cûnt!”

                                                          [Testimonianza di Campani Afra e Fracassi Dino]

 [Uno, due, tre e quattro, - la moglie di Pergiacomo. - Piergiacomo và al mulino – con un sacchettino di grano – e chiede alla mugnaia: -“Quante pagnotte ce ne verranno?”- “Una, due, tre e quattro, sette, otto e ventiquattro; ventiquattro e venticinque, - sette e otto e nove e venti. – Fateci un poco il conto!”].

 Si tratta, come si può facilmente intuire, di un gioco di abilità per vedere se il ragazzo cui viene recitata la filastrocca è abbastanza sveglio per seguire il testo. In definitiva possiamo considerare il gioco un mezzo pedagogico per educare i piccoli facendoli anche divertire. E una volta, forse anche prima della Montessori, nelle campagne si servivano di tale metodo.

 

I Giochi

La scundaröla

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Forse è il gioco più universale e diffuso. Ironicamente potremmo farlo risalire ad Adamo ed Eva che cercavano di sottrarsi allo sguardo di Dio dopo aver mangiato la mela proibita.

Per i bambini diventava un test di abilità, di astuzia, e quindi anche un modo per sfurbirsi e sapersi arrangiare, e le regole, pur modificandosi nei contesti diversi, potremmo definirle universali. Perché la tenzone poi aveva questo scopo. E per premio? Solo la consolazione dei esserci riusciti. Da noi questo tipo di gioco poteva avere altri nomi come: Pìcia la pôma, e, più di recente, Nascondino o Libera tutti.

Si sceglie un punto preciso (muro, albero) al quale deve arrivare il concorrente prima di essere toccato da chi conta. Inizialmente un bimbo viene sorteggiato per stare "sotto", cioè  appoggiarsi al punto prestabilito e contare a voce alta fino ad un numero concordato (30, 50). Gli altri partecipanti al gioco vanno a nascondersi. Finita la conta il sorteggiato deve scoprire i bambini nascosti e toccare il posto prescelto prima che quelli vi arrivino, pronunciando ad alta voce il nome del ragazzo scoperto: vince se riesce a scoprirli tutti e nessuno arriva prima di lui a toccare il punto scelto. Altrimenti ritorna a contare e il gioco si ripete. Se invece riesce a scovare tutti i bambini nascosti, e non farsi battere sul tempo per raggiungere il punto suddetto, il primo che è stato scoperto va sotto, cioè passa a contare.