N o v e m b r e
Iª parte
- Antèlami – Novembre – Duomo di Parma
In alto il segno del sagittario. In basso l’uomo raccoglie gli ultimi frutti del proprio lavoro.
Però guarda lontano: verso nuovi raccolti o verso la meta finale dell’esistenza?
Immaginiamo di compiere un viaggio nel passato e di seguire l’anno solare. In molti paesi del mondo antico l’inizio dell’anno non coincideva con quello attuale, primo giorno di Gennaio. Si seguiva istintivamente il ciclo della natura. E a Novembre la natura, che ha dato tutto ciò che poteva come frutti degli alberi e del suolo, si prende un periodo di riposo. In pratica un periodo di incubazione. Poi ci sarà il periodo della nascita (Primavera), quello della esplosione della vitalità (Estate), per concludersi con la fase della piena maturità (Autunno). Per questo un tempo Novembre diventava anche il mese dei bilanci, dei conti col padrone, della programmazione per l’anno futuro.
Mâr mòs e munt a-scûr, - l’è Nuvèmbre d’ sicûr.
(Mare agitato e monti coperti di nuvole, certamente è Novembre).
Il lavoro dei campi a questo punto doveva essere concluso: finita la semina, terminati i raccolti, organizzati i lavori di predisposizione per la primavera. Ma l’attenzione si fissava prevalentemente sulla semina, perché da essa dipendeva il cibo per tutto l’anno. E non era positivo aspettare a farlo a Novembre iniziato:
Chi ch’a smêna a San Martîn - al gh’ha la sperânsa di purîn.
[Chi semina a San Martino - ha la speranza dei poveretti].
Difficilmente costui poteva realizzare un buon raccolto! Normalmente con Novembre iniziava il periodo delle piogge o delle prime nevicate, e seminare con la terra troppo umida c’era il pericolo che il seme marcisse invece di germogliare.
Nel territorio che ci riguarda Novembre significava pioggia, nebbia, abiti madidi, vecchie giacche e pastrani ripescati per l’occasione, magari fermati con spago al posto dei bottoni. Significava cavàgn da portarsi dietro come zavorra, ma anche come compagni di viaggio cui confidare, segretamente, i pensieri. Servivano, comunque, a raccogliere le ultime castagne, quelle sfuggite alla raccolta ufficiale (a pièt) e occultate sotto lo strato di fogliame e ricci, già girato e rigirato con la raspîna, pestato e saccheggiato.
Per quelli che, come noi, conducevano l’esistenza abbarbicati a metà strada tra la pianura e l’alto Appennino, Novembre significava anche essiccatoi in funzione, odore acre di fumo schiacciato a terra dalla troppa umidità, silenzi che stordivano, interrotti di tanto in tanto da uno sporadico latrato o dalla voce, ovattata dalla nebbia, di chi sollecitava le mucche a trainare a casa gli ultimi carichi di legna per l’inverno.
E, a completare il quadro, si scorgevano furtive, nelle borgate, le sagome di persone intente ad ardušîr a ca’ quanto poteva tornare utile lungo l’inverno, si trattasse pure di legna da mettere a coperto o di tronchi da lavorare e trasformare in utensili durante le noiose giornate invernali.
Il Metato e le castagne
Il Metato di Salsèdolo – Costruito da Lepido Rabotti nel 1938, ha cessato di funzionare prima del 1960.
Durante la guerra fu utilizzato per circa un mese come cucina da un distaccamento di partigiani. (Arch. SR)
Chi attraversa oggi i nostri castagneti incolti si domanderà a cosa servivano quelle costruzioni semplici, rustiche, prive di ogni conforto, sparpagliate qua e là, e ora in completo abbandono. Troppo anguste per poterle abitare, buie per mancanza di finestre adeguate, prive di qualsiasi accorgimento che favorisse una esistenza normale, un minimo di civiltà per la famiglia. In effetti quelle costruzioni avevano una loro funzione specifica che si realizzava una volta all’anno, in autunno: seccare le castagne.
La loro struttura era di una semplicità estrema: quattro pareti, un tetto a due spioventi e, il più delle volte, realizzato con le piàgne, un basamento di grossi lastroni o semplicemente in terra battuta, e sopra un piano costruito con il graticcio, idoneo a lasciar passare il calore. A seconda dei luoghi e del materiale disponibile il piano poteva essere fatto con listelli di legno [astici], con bastoni belli diritti, o canne [cannucci]. Per accedere al piano vi era un’angusta porticina. Su quello strato venivano stese, giorno dopo giorno, canestro dopo canestro, le castagne raccolte. Intanto sotto, al centro della stanza, si faceva ardere a fuoco lento una pira di schiappe disposte a piramide, in verticale. Per farle durare di più e mantenere costante il calore si ricopriva la pira con la pula prodotta l’anno precedente sgusciando le castagne secche. Questo accorgimento permetteva di soffocare la fiamma ma non la brace, e alle stelle di ardere lentamente e durare più a lungo.
Quando le castagne erano pronte si chiamava la sgusciatrice per la pulitura. Per noi era Marco Guidetti di Casalecchio, che aveva una sgusciatrice azionata con il motore di una motocicletta. Questo è stato possibile dopo il 1930 circa. Prima l’operazione aveva un rituale ben più complesso e faticoso: nel giorno stabilito il capofamiglia chiamava a raccolta tutte le forze disponibili e anche amici che venivano a òvra, cioè a prestare manodopera. Una certa quantità di castagne secche veniva messa dentro un sàc ad vöj (un sacco di juta) o dentro le sacchelle di tela, poi due persone prendevano il contenitore dalle due estremità, lo contorcevano fino a farlo rassomigliare ad una grossa caramella, quindi, con un movimento rotatorio ben ritmato, sbattevano il sacco sulla pila di legno, una volta a destra e una a sinistra, fino a quando le castagne si sgusciavano. La pila era un rocco di castagno ricavato dalla parte più larga del tronco, un cilindro alto circa cinquanta centimetri. Dopo tale trattamento il contenuto del sacco veniva versato nella vasûra e spulato, poi passato nel balèt per separare le castagne intere dai frammenti (al tridúm).
Le castagne secche venivano utilizzate nei modi più disparati, come vedremo in seguito: lessate e poi riscaldate nel latte erano ottime a colazione; schiacciate fornivano la pasta per tortellini o torte. Ma si potevano anche macinare e con la farina produrre il pane di castagna, la polenta, i sughi, il castagnaccio, i fertlûn, (grosse frittelle), e altre squisitezze.
Il vino nuovo
Questo era un momento speciale. All’inizio di Novembre il vino nuovo doveva essere pronto da mettere nelle botti o nelle damigiane:
Per San Martîn - la bùta piêna d’ vîn.
[A San Martino – la botte piena di vino],
motto completato da una frecciatina contro le disparità sociali di un tempo:
Ma ch’rimpìsa ‘l butûn - l’è sèmpr’ al siûr padrûn.
[ma chi riempie la botte grossa – è sempre il signor padrone].
L’evento si prestava per fare i primi brindisi:
Per San Martîn - rèva la bùta e pröva ‘l vîn.
[A San Martino – apri la botte e assaggia il vino].
E certo non era opportuno perdere l’occasione di assaggiare e confrontare il proprio col vino dei vicini. Le conseguenze? Ovvia! Ma una volta all’anno si può anche esagerare! E doveva trattarsi di una usanza molto diffusa se incontriamo gli stessi concetti un po’ ovunque. In Toscana dicono:
A San Martino - cadono le foglie e si spilla il vino,
mentre in Piemonte l’evento viene preparato in anticipo:
Oca, castàgni e vën: - tën tút per San Martën.
[Oche, castagne e vino / conserva tutto per San Martino].
Qui però conviene ricordare anche un altro fatto. Anticamente l’Avvento cominciava il giorno dopo la festa di San Martino e durava fino a Natale. Per cui quella festa era l’ultima prima del lungo digiuno. Una specie di Martedì grasso. Questo ci aiuta a capire perché si diceva, quando qualcuno era scorbutico e non partecipava alle feste:
Chi ch’a n’ šöga per Nadâl – chi ch’a n’ bàla a Carnevâl -
Chi ch’a n’ bèv a san Martîn, - pu’ che amîgh l’è un malandrîn.
[Chi non gioca a Natale, chi non balla a Carnevale,
chi non beve a San Martino, più che un amico è un malandrino]!
Fare San Martino
L’espressione compendiava sensazioni opposte: da un lato il rincrescimento di dover lasciare un luogo testimone di esperienze le più diverse e di sacrifici impagabili; dall’altro la speranza di intraprendere un cammino nuovo con prospettive più umane e vantaggiose. Sperànd ch’ la càmbia! dicevano gli interessati. Fare San Martino significava lasciare casa, stalla, paese, amici per andare a ricominciare daccapo altrove, in un ambiente nuovo. Significava mettere a nudo la propria povertà. Le poche masserizie caricate sul carro lo confermavano: un tavolino, poche sedie tenute assieme alla meglio, un saccone di foglie di granoturco (al pajûn), qualche pentola. E anche il guardaroba era dimesso: un vestito discreto per la festa e il mercato; per lavorare qualsiasi straccio andava bene.
San Martino era anche il momento del bilancio, e fare i conti col padrone significava quasi sempre rimetterci. Qualsiasi scusa era buona per prendersi la parte del leone. E non poteva essere lusinghiero dopo una intera annata trascorsa ad affannarsi per racimolare qualcosa.
Due curiosità:
San Martino vescovo…
Martino, figlio di un ufficiale romano, nasce in Pannonia (oggi Ungheria) nel 316. Poi si sposta a Pavia per studiare. Viene a contatto con il cristianesimo e diventa catecumeno all’insaputa dei genitori. Chiede ed ottiene l’esonero dal servizio militare poi si reca a Poitiers, dove incontra Sant’Ilario, riceve una formazione più approfondita, viene battezzato e ordinato sacerdote. Torna in Pannonia (ove converte la madre), poi passa a Milano per combattere l’arianesimo, ma ne viene cacciato. Si ritira in Liguria, poi di nuovo in Gallia. Qui fonda i monasteri di Ligugé e Marmontier. Nel 372, anche se riluttante, viene consacrato vescovo di Tours, diocesi che regge per ventisette anni. Muore a Candes l’11 Novembre 397. Poiché era molto caritatevole anche prima di essere ordinato sacerdote, un leggenda narra che, incontrando un poveraccio infreddolito e quasi nudo, gli diede metà del proprio mantello. Per premio il Signore gli concesse alcuni giorni di bel tempo, quelli che poi furono denominati L’estate di San Martino.
… e il Martino che “per un punto perse la cappa”.
Dell’altro Martino, quello che per un punto perse la cappa, si narra che fosse il priore del Monastero di Asello, in Toscana, e che ambisse a diventarne abate. Per aumentare le proprie possibilità fece scrivere sull’arco d’ingresso del monastero la frase: Porta patens esto. Nulli claudaris honesto, per dimostrare la carità verso i poveri e i viandanti. Ma chi scrisse la frase mise il punto dopo la parola nulli, cambiando completamente il significato del messaggio, che da Porta, rimani aperta. Non chiuderti per l’onesto, diventò: Porta non aprirti per nessuno. Chiuditi all’onesto. Ciò gli costò la rimozione da priore e l’impossibilità di diventare abate. Pare che la prima versione della frase fosse: Uno pro puncto caruit Martinus Asello, che alla lettera suona: per un solo punto Martino fu privato di Asello. Passando però in Francia divenne: Uno pro puncto caruit Martinus asello, con la a di Asello minuscola, confondendo il nome proprio del monastero con quello latino che significa asinello. A quel tempo i mezzi di trasporto erano, nell’ordine: il cavallo per i nobili e le grandi autorità, il mulo per i bagagli, l’asino per il ceto medio. Privando Martino dell’asinello significava degradarlo, e Perdere la cappa (come nella versione italiana) significava essere privato della dignità di Abate. E tutto a causa di un punto!