Riceviamo e pubblichiamo.
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A fine settembre questo giornale ci ha dato notizia di una iniziativa promossa dal comune capoluogo della nostra montagna per arrivare ad una “progettazione condivisa che segnerà il futuro urbanistico del paese”, e in quella occasione si sarebbe parlato anche di “rigenerazione urbana”, motivata dal fatto di trovarci oggigiorno ad una svolta “perché la fase espansiva delle città è ormai conclusa”, argomento di indubbia rilevanza e tale da suscitare alcune riflessioni (che esulano dal caso in questione, pur prendendovi spunto).
Il termine “rigenerazione urbana” è piuttosto suggestivo e può sicuramente conquistare chi ha modo di leggerlo o ascoltarlo, perché stimola il nostro immaginario anche per la sua proiezione sul futuro, ma è nondimeno molto impegnativo, e se vogliamo “azzardato”, poiché si interviene sul tessuto urbano esistente, il quale è andato consolidandosi nel tempo, e ciò rappresenta un limite oggettivo verso eventuali riconversioni, col rischio dunque di creare poi delusione e sfiducia per la mancata riuscita di quanto si aveva in animo di attuare o si pensava di veder attuato.
Sviluppo baricentrico o policentrico
Per restare in tema, diversi anni fa si sentiva parlare spesso, riguardo alle nostre città, di “sviluppo baricentrico o policentrico” - se ricordo bene i termini tecnici impiegati all’epoca - parole anche quelle coinvolgenti, ma non ho mai capito per quale dei due modelli si sia poi optato, e con quali risultanze, forse perché ci si trovava già di fronte ad una impostazione urbanistica maturata nel tempo e indubbiamente non facile da modificare, causa un insieme di intuibili ragioni, e che era sostanzialmente destinata a perpetuarsi, rendendo in tal modo abbastanza ardua ogni metamorfosi e trasformazione.
Sviluppo sostenibile
Un ragionamento analogo, o quasi, potrebbe farsi per lo “sviluppo sostenibile”, un concetto senz’altro seducente e condivisibile, per non dire un po’ “magico”, e anche questo non nuovo, ma il fatto che si continui a parlarne significa verosimilmente che l’obiettivo non è dei più semplici da raggiungere, o soltanto da avviare, per una pluralità di implicazioni, e se col passar del tempo questo “progetto” non lascia vedere o almeno intuire le sue ricadute positive, può succedere che subentri il disincanto e se ne disinnamori anche chi vi aveva creduto con sincera convinzione e autentico trasporto.
Consumo del suolo
A sua volta, il proposito abbastanza ricorrente di contenere il consumo di suolo risponde senza dubbio ad un principio lodevole, ma sembra essere rimasto di fatto sulla carta se oggi lo si vuole “abbordare” in maniera più determinata, tanto che dai vari livelli istituzionali ci sentiamo per l’appunto dire, con una certa insistenza, che la fase espansiva è terminata, il che impone di conseguenza una decisa ed energica inversione di rotta, pur se a questa tesi potrebbe rispondersi che non sono mancati i segnali per affrontare il problema per tempo, e anche con gradualità, così da non trovarci nella condizione di dover far oggigiorno ricorso ad accelerazioni che possono rivelarsi innaturali.
Giusto in proposito, sempre qui a Redacon abbiamo di recente appreso che in Appennino, nell’arco di un decennio, si è perso il 20% della superficie agricola utilizzata, un indicatore importante che nel corso di questi anni non poteva passare inosservato, anche perché la cifra può dirsi generalizzata posto che, da quanto capita di apprendere, il nostro Paese sembra avere un livello di consumo di suolo tra i più alti in Europa, con una evidente modificazione e frammentazione del paesaggio, circostanza, quest’ultima, immediatamente e largamente percepibile da chicchessia (ivi compresi i decisori delle scelte urbanistiche).
Gradualità
Ho portato tali esemplificazioni per dedurne che un sistema orientato a lungo in un certo verso, quanto a tipologia di sviluppo, fa parecchia fatica a rivedere di colpo e in modo “indolore” la direzione di marcia, mentre gli effetti sono invece diversi, ossia più attenuati e meno penalizzanti, specie per talune categorie economiche, quando i passaggi avvengono in maniera graduale, per così dire a piccoli passi, come poteva esser probabilmente fatto a suo tempo in questo campo. Si sarebbe infatti potuto dare avvio alla “svolta” sostenendo intanto, e con varie forme, l’utilizzo del patrimonio edilizio già presente sul territorio (guardando a come si sono mosse le cose, verrebbe invece da dire che se incentivi e supporti vi sono stati sono risultati insufficienti o non indirizzati al meglio).
E’ pur vero che dinnanzi ad eventuali ritardi e rinvii, cui alla fine va posto rimedio indipendentemente da chi ne porta la responsabilità politica, da qualche parte occorre comunque partire, ma non mi porrei traguardi molto ambiziosi, se non un po’ “utopistici” - e la “rigenerazione urbana” in qualche modo la è, se le parole hanno un senso, dal momento che evoca modificazioni abbastanza incisive e consistenti - proprio per evitare disillusioni, e mi accontenterei piuttosto di incoraggiare e promuovere la cura e la miglioria dell’esistente, e se del caso il suo recupero, ossia interventi che possono semmai configurarsi come “riqualificazione”, che a me pare essere cosa ben diversa e meno complicata rispetto alla “rigenerazione”, e che significherebbe già, io credo, un buon risultato (prima di passare a tappe successive, se ce ne saranno le condizioni).
Coesione sociale e metodologia
Gli spazi e i luoghi pubblici, dove potersi ritrovare, aiutano sicuramente le relazioni sociali, il che è di indubbia e riconosciuta importanza, ma sono pur sempre contatti occasionali, e talora mediati, mentre la coesione sociale più autentica e diretta si realizza verosimilmente nella quotidianità di condomini, strade, quartieri, rete degli esercizi e attività commerciali, ma non solo, dove abitualmente ci si incontra e interloquisce, una quotidianità che ci educa ed allena alla convivenza, non sempre facile per una infinità di motivi, ma che rappresenta il vero architrave su cui poggia il vivere di una comunità, trasmettendoci altresì la sensazione di appartenervi, come dai miei ricordi del passato, e che dovremmo riscoprire o rinverdire laddove si è andata perdendo.
Da ultimo, dietro ad ogni progettazione o progettualità urbanistica dovrebbe esservi a mio parere un’idea politica di fondo, o di massima, che la ispira ed orienti, dal momento che sarà poi la politica a prendere le relative decisioni, e in base a questa logica penso che per chi si propone alla guida di un comune la consultazione dei propri concittadini debba semmai avvenire nella fase precedente, ossia pre-elettorale, in modo che il candidato ne ricavi spunti e indicazioni, e tragga poi le sue conclusioni, arrivando a formulare anche in questa materia il proprio programma, da sottoporre agli elettori. Mi sembra che nella fattispecie stia avvenendo un po’ l’inverso, almeno in apparenza, visto che non conosco il programma elettorale di allora, cioè del 2014, ma non resta comunque che prenderne atto (e augurare un proficuo lavoro a quanti si stanno cimentando con la “mappa di comunità”).
(P.B.)
Faccio un paio di riflessioni da radio serva, non da tecnico. Quando mi sono iscritto all’università, alla fine degli anni ’70, ristrutturare un edificio antico mantenendo la pietra a vista, era ritenuta una proposta inattuabile, costosa, poco pratica, inutile, di cui non si capiva il senso, difficile da realizzare, perché non esistevano maestranze adeguate. Oggi è un valore aggiunto, lo fanno tutti. Però si abitava con la chiave sulla porta di casa, si parcheggiava lasciando le chiavi sull’auto e ci si conosceva tutti, in paese. La sensazione di insicurezza che si prova oggi era del tutto sconosciuta. Due evoluzioni parallele, che vanno in senso contrario. Lo sviluppo sostenibile tra poco non sarà più una questione all’ordine del giorno: la crisi economica ha distrutto lo sviluppo, sostenibile o meno. Fine dello sviluppo. Non credo che ci sarà bisogno di scelte politiche per riorientare la crescita urbana; non ci sarà più crescita urbana. La più grande agenzia immobiliare della provincia è il Tribunale. L’economia, soprattutto quella periferica – dove ci troviamo, qui in montagna – è cresciuta sulla rendita fondiaria (trasformare i terreni da agricoli a edificabili); il mercato immobiliare è finito; fine della rendita, fine della crescita. Gli spazi e i luoghi delle relazioni sociali sono sempre quelli, ma nel frattempo è cambiata la gente che li frequenta. Soros, il FMI, le grandi banche internazionali, l’OCSE, l’Unione Europea, la BCE, dicono che dobbiamo integrarci altrimenti non saremo produttivi e non ci sarà sviluppo. Dobbiamo passare dalla piena occupazione (avere un lavoro stabile) alla occupabilità (essere disponibili a qualunque lavoro dovunque). Dunque, avere una casa, avere relazioni sociali, sono impedimenti alla perfetta occupabilità, impedimenti allo sviluppo. Avere radici e tradizioni è un ostacolo alla perfetta occupabilità. Spiace constatarlo, ma la globalizzazione (ovvero la rinascita del liberismo economico a scala planetaria) ha bisogno di sradicare, di omogeneizzare, di rendere tutti uguali e disponibili – occupabili, e di poche pretese salariali. Di fronte a questa evoluzione, che travolge sistemi sociali, economici, culturali e nel contesto dello smantellamento dello Stato sociale, mi pare che lo spazio per scelte politiche diventerà talmente ridotto da essere invisibile. Anche il progetto di riforma costituzionale si adegua a questa evoluzione; nella relazione illustrativa si afferma che lo scopo della riforma è “razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione Europea, Stato e autonomie territoriali”. Le scelte, dunque, le farà la grande finanza internazionale, con i suoi amministratori delegati (cioè i governi nazionali) e noi ci adegueremo. L’unico spazio lasciato alla progettazione, sarà la scelta degli sponsors privati. E chi paga il pifferaio, decide la musica.
(Giorgio Bertani)
Circa il commento del signor Bertani, molto argomentato, è vero che il mondo cambia, anche in fretta, sulla spinta di decisioni che passano sopra la nostra testa e riguardo alle quali poco o nulla possiamo fare, ma dovremmo nondimeno far sì, o almeno tentarvi, che il “nuovo che avanza” non ci omologhi al punto da portarci via tutte le cose buone del nostro passato, quelle buone, sottolineo, perché ovviamente non tutte erano tali. E tra questo “buono” stava a mio avviso la capacità di convivenza, non sempre facile e tranquilla viste le differenti individualità, alla quale venivamo abituati dal quotidiano relazionarci, nelle case plurifamiliari e condomini, nelle vie e quartieri dove si abitava e pure nei negozi ed esercizi dove ci si incontrava per la spesa, scambiando anche “quattro chiacchiere” ogni qual volta se ne aveva il tempo e maniera e non mi sembra impossibile mantenere o rinnovare tali abitudini, così come altre un po’ tipiche del nostro modo di campare (in questi giorni ho sentito dire che “occorrerebbe fare un passo indietro per andare avanti meglio” e non mi è sembra una considerazione del tutto fuori luogo). I rischi di omologazione non appartengono peraltro solo all’oggi e al mercato globale, perché negli anni e decenni addietro vi sono state correnti ideologiche che propendevano per vederci un po’ tutti uniformati e “massificati”, ma la nostra società seppe in qualche modo resistere a siffatta tentazione, salvaguardando così le proprie identità e radici e altrettanto o quasi potrebbe fare adesso, senonché le identità non sono sempre viste con favore perché vengono associate al “campanilismo” e ritenute per questo un possibile ostacolo alla creazione di entità territoriali più grandi, vedi la unificazione-fusione dei Comuni su cui oggi si insiste abbastanza spesso (materia piuttosto delicata e complessa e in ordine alla quale bisognerebbe ad esempio capire perché mai la Francia, da quanto ne so, conserva un numero di comuni quadruplo e oltre rispetto ai nostri, con un territorio metropolitano che non è forse il doppio del nostro e una popolazione di non molto superiore alla nostra.
(P.B.)