Emilia Quartey, 30 anni, è una bella ragazza originaria del Ghana, piccolo stato africano che si affaccia sull’Oceano Atlantico. Giunta in Italia a 8 anni, residente a Castelnovo ne’ Monti, parla la sua lingua madre, il ghanese, l’inglese e l’italiano. Ha già una vita piuttosto travagliata alla spalle. Ma oggi la troviamo – e lei così si considera – tutto sommato serena. “Vivo giorno per giorno, bisogna tirare avanti”. Con convinzione ma forse anche con quella punta di “sospiro” che le vicende attraversate non possono non aver lasciato.
Facciamo una chiacchierata insieme con lo spirito di capire quali motivi portino persone lontane ad insediarsi in queste lande.
“Sono venuta in Italia, dove si trovava già mio padre, per curarmi. A scuola prima a Rubiera e poi le medie a Casalgrande. Frequento quindi una scuola professionale, lo ‘Iodi’, a Reggio, per assistente sociale: prendo la qualifica. Infine cerco di imparare a fare la parrucchiera in un istituto privato”.
Ma a casa non riusciva a studiare. Il perché è presto detto: “Eravamo in sei: mio padre, tre figli e la sua nuova moglie: infatti i miei sono separati da quand’ero piccolina”.
“Al raggiungimento della pensione mio padre se ne torna in Ghana, con la sua famiglia. Io rimango qui, sola. Me ne vado di casa. Ho 16 anni. Vado a lavorare a Casina. Mi aiuta a sopravvivere la Caritas, che mi trova una sistemazione a Reggio”.
In Africa Emilia ha la mamma e l’anno seguente la torna a trovare. Perché solo dopo tanti anni? “Fino all’età di 16 anni mi hanno impedito ogni contatto”. Accade comunque attraverso suo padre, ad Accra, la capitale.
“Quando ho visto mia mamma? Sono stata contenta di vederla, anche se mi ero sentita abbandonata. Ma ho poi capito che lei aveva provato a cercarmi… Ho incontrato anche la mia sorella-sorella”. E’ stata là un mese, poi è rientrata in Italia.
Poi. “Mio padre voleva che gli mandassi laggiù dei soldi, anche chiedendo prestiti…”. E da allora si sono interrotti i rapporti.
Ma i rapporti con la famiglia “nuova” in effetti non si fermano del tutto, dato che i fratellastri vengono in Italia. Poi la matrigna (che non la tratta esattamente con tatto), che cerca di farsi mantenere da Emilia. E siamo al 2006, Emilia ha vent’anni, con già un bel fardello che la vita le ha messo sulle spalle.
A 21 anni rimane incinta. Il padre – tanto per cambiare – voleva che abortisse. Lei no, ma da sola temeva di non farcela. Così è dubbiosa. Così, mentre la sua vita è ancora a Reggio, spiega: “Incontro, tramite una conoscenza all’interno del consultorio, Daniela Casi, che si occupa di famiglie in emergenza, un’esperienza che nasce dalla spiritualità delle case della carità”. Trova una coppia – Giulia Bonini e il marito Gabriele Magliani, ora a Correggio – disponibile ad accoglierla a casa e con loro si ferma quattro mesi, fino alla fine della gravidanza.
C’è quindi l’incontro con don Daniele Patti, attuale parroco ligonchiese, col quale ha parlato e s’è consigliata: al fine ovvio che questo benedetto figlio (che si rivelerà poi una figlia) possa nascere. E Alessandra ce la fa: nel 2007 vede la luce. Ricorda Emilia: “Ho detto: ‘non firmo niente, la tengo!’ Tutti quelli che mi erano vicini erano molto contenti”.
Ma intanto deve continuare a pensare anche a se stessa, dato che la malattia che l’ha condotta nel nostro Paese comporta che debba sottoporsi alla trasfusione di due sacche di sangue ogni mese. Pensa di trasferirsi da Reggio e così si attiva la rete di solidarietà e di amici che intanto si è fatta. Così approda alla casa della carità di Cagnola, dove le vogliono bene. “Ho trovato tante mamme”, dice.
Nata la bambina, il padre comincia a cercarla. Si consiglia con Daniela Casi e così Justice – così si chiama – può incontrare sua figlia. Si fa accompagnare da suoi amici… Alessandra in quel periodo ha sette mesi. Com’è la tua reazione, Emilia? “Non mi convince troppo che prenda il suo cognome. Ho timore… se poi non la mantiene? Ora comunque la vede regolarmente, seppure di tanto in tanto…”.
Quando la bambina compie quattro anni alla casa della carità le propongono di trasferirsi, di rendersi anche in questo senso autonoma. Così trova un appartamento in paese, a Castelnovo, dove ora risiede da cinque anni.
E’ coraggiosa, Emilia, perché deve continuare a combattere con una situazione lavorativa precaria e convivere con la sua malattia. Ma non demorde. Ad esempio. Prende la patente (ce l’ha dal 2009), ma non guida, ha paura. Ora qualche amico sta cercando di aiutarla… fa qualche prova… “ma tremo…”.
“Mi piace molto il vostro modo di vivere”, afferma. Progetti? “Vivo giorno per giorno, con la speranza che mia figlia possa avere un futuro migliore del mio”.
Parla pacata, gentile, spesso sorridente; come se, a tratti, raccontasse la vita di un altro.
Come pensiero finale vuole esprimere un affetto speciale per suor Marianna, già alla casa di Cagnola, “che mi ha aiutato a tirare su Alessandra”.
Sono tempi di immigrazione imponente. Di terrorismo. Di paure di chi non si conosce. Di muri. Di sconvolgimenti antropologici. Di fenomeni epocali, insomma. Ecco, questa è la storia di una persona che è venuta tra noi. Abbreviamo: di una persona.
Emy sei grande!!!
(Loubna)
Bella storia, bella persona, bell’esempio! Grazie Cara Emilia.
(Simona)
Grazie per averci raccontato la tua storia di coraggio e di amore. È bello vedere che c’è chi sa mettersi in gioco per aiutare altre persone in difficoltà, e i frutti dell’amore si vedono! Brava Emilia!
(Annalisa)
E’ un onore averti nella nostra comunità: sei un esempio per tutti. La tua forza e la tua determinazione sono commoventi, colpisce molto il fatto che una ragazza così giovane abbia avuto così tanti problemi, ma emerge prepotentemente la volontà di andare avanti e di superarli. Sei una “tosta”, brava Emilia.
(C.)