Pubblichiamo il parere di una lettrice in merito a notizie comparse sulla stampa in questi giorni sulla situazione dell'Istituto superiore di studi musicali "Peri-Merulo".
-----
"Peri-Merulo, il matrimonio vacilla". Questo il titolo che la Gazzetta di Reggio riportava l’8 marzo nella pagina della montagna. La notizia, così come pubblicata, sulla scia di altre analoghe notizie sul fronte dei servizi in montagna, mi porta ad alcune riflessioni.
La fusione col "Peri", per realizzare un istituto di alta formazione musicale, deliberato dai rispettivi consigli comunali nell’ottobre 2010 (a Castelnovo all’unanimità) sembra che alla fine dell’anno finirà.
Scelta consensuale? Pare che i motivi della scissione siano imputabili ai costi, in particolare quelli derivanti dagli stipendi degli insegnanti. Ma questi erano e sono costi certi, ben valutabili, non “variabili”…
Nella convenzione non si potevano inserire clausole di maggior salvaguardia per la parte più debole (forte però nel corpo docente, nell’offerta formativa e nelle idee)?
Quella che sembrava un’operazione di maggior valorizzazione ed opportunità per il "Merulo" si sta traducendo in un impoverimento delle prospettive del nostro Istituto. Si legge che l’Istituto "Merulo" confluirà nell’Azienda speciale consortile “Teatro Appennino” recentemente costituita; se così fosse, potrà mantenere la propria identità, le proprie peculiarità? Nei prossimi anni di quali insegnanti potrà ancora avvalersi? L’offerta culturale musicale futura sarà ancora di eccellenza o rischia di ridursi a semplici “laboratori musicali”? Per gli allievi attualmente iscritti quali prospettive si palesano?
Continuo a sperare che sia un allarme infondato e pur riconoscendo che i tempi (e soprattutto le risorse economiche) sono cambiati, vorrei che la politica decidesse con lungimiranza, che non scegliesse in modo semplicistico e per l’immediato, ma si impegnasse a ricercare anche possibilità diverse.
Spiace che il sogno iniziato oltre cinquant’anni fa, raccolto e portato avanti con fatica, diventato realtà, si dissolva ora in questo modo. Ci lamentiamo spesso della mancanza di opportunità e di stimoli culturali; se è vero che è difficile averne nuovi dovremmo almeno aver cura di quello che abbiamo.
(Piera Ruffini)
Due passaggi dell’articolo, ossia “iniziato oltre cinquant’anni fa” e “dovremmo almeno aver cura di quello che abbiamo”, offrono lo spunto per una considerazione, partendo da quel passato per venire all’oggi. Se la memoria non mi tradisce, mezzo secolo fa e anche oltre, i conti degli enti locali erano per solito in buona salute, per usare una terminologia convenzionale, e vi era nel contempo la cura del rispettivo patrimonio, cioè la sua sistematica manutenzione – edifici e spazi pubblici, strade, ecc. – e non ricordo che si dovessero cedere parti di detto patrimonio per poter provvedere a quelle restanti. Da allora molte cose sono cambiate e si è sicuramente ampliata la mole dei servizi erogati dalle amministrazioni locali, ma nel contempo diversi loro bilanci sono andati in sofferenza, ed una verosimile spiegazione al riguardo potrebbe essere quella che la sfera d’intervento di dette amministrazioni si è allargata parecchio, e forse eccessivamente, così che le risorse economiche a disposizione faticano a coprire il totale dei costi e delle spese (secondo la classica metafora della coperta troppo corta). Mettendo a raffronto il presente col passato, sono anch’io dell’avviso che l’attenzione verso l’esistente debba avere la precedenza, anche perché l’esistente è un pezzo della nostra identità, senonché, quando scarseggia la disponibilità economica, e se vale quanto sopra dicevo, le amministrazioni pubbliche devono decidere cosa sacrificare, restringendo dunque l’alveo delle propria attività. Oppure non escludere a priori nulla di quanto stanno facendo, ma stabilire al tempo stesso le priorità, che vanno naturalmente messe innanzi, cercando nondimeno di reperire le risorse occorrenti per soddisfare le “non priorità” attraverso programmi e progettualità che si rivelino in grado di promuovere ed ottenere i relativi finanziamenti (da istituzioni varie e con l’eventuale compartecipazione di componenti private).
(P.B., 12.3.2016)
Se non vado errato, mezzo secolo fa i conti degli enti locali erano per solito in buona salute perché i finanziamenti ai suddetti enti arrivavano dallo Stato, il quale attingeva le risorse incrementando il debito pubblico. Debito che l’Europa ci ha poi detto non potesse aumentare all’infinito.
(Roberto Pastorelli)
Sempre meno professionalità = sempre meno popolazione. Ospedale, scuole e servizi che vengono a mano a mano delocalizzati.. mi sembra molto chiaro ciò che da Reggio hanno deciso debba diventare la nostra montagna. L’abbiamo capito tutti.
(Pamela)
Non capisco bene cosa sta succedendo e nutro la speranza che qualche amministratore in carica voglia spiegarlo. Da ex-amministratore del Comune di Castelnovo che ha dovuto, ormai tanti anni fa, far quadrare i conti del Comune essendo sindaco Ferruccio Silvetti, ricordo che mi sono dovuto confrontare spesso con i costi del Merulo. Ad un certo punto si era prospettata la possibilità molto concreta di “legarlo” al Conservatorio di Parma, ma fummo caldamente “sconsigliati” da tanti reggiani (compresi i parlamentari di allora) in nome della reggianità. Poi, qualche tempo dopo, andò in porto l’operazione di aggancio col Peri che salutai come una ottima soluzione. Ora sembra che Reggio non ne voglia più sapere e che si voglia ritornare alla situazione precedente. Mi sembra una brutta pugnalata alle spalle! Confido in un ripensamento altrimenti sarebbe davvero un brutto segnale!
(Pietro Ferrari)
Con tutto quello che si è penato per arrivare al pareggiamento non vorrei che si perdessero questi valori che a fatica e con sudore sono stati guadagnati con merito…
(Un ex studente)
La questione del Merulo è dello stesso tipo della soppressione di ostetricia al S. Anna: tagli alla spesa pubblica e quindi ai servizi per i cittadini. Come fa giustamente notare un commento qui sopra, l’Europa non vuole debiti. L’Europa, come tutti sanno, è più onesta, intelligente, performante di noi, poveri italiani corrotti e spendaccioni, e quindi è giusto adeguarsi. Ce lo chiede l’Europa. Più che di Europa, qui si tratta di euro (la moneta unica, un rapporto di cambio fisso). Euro vuol dire austerità. Quella espansiva, naturalmente. Austerità espansiva. Un ossimoro: come “ghiaccio bollente”. Soffriremo un po’, ridurremo le spese, tireremo la cinghia, ma nel lungo periodo avremo grandi giovamenti. Come in Grecia, tipo: il capolavoro dell’euro, come sostiene – tuttora – Mario Monti. “Stiamo distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale”, disse Mario Monti nel 2011. Gli effetti li vediamo bene adesso. Ma nel lungo periodo avremo grandi giovamenti. Nel lungo periodo, diceva Keynes “saremo tutti morti”… Tagliamo le spese, tagliamo i servizi, aumentiamo le diseguaglianze. Chi può continuerà ad avere i servizi – privatizzati – pagando. Gli altri aspetteranno di espandersi (nel lungo periodo). I tagli alla spesa pubblica sono gli effetti. Proviamo a discutere delle cause?
(Commento firmato)
Sembra che non si voglia capire il momento storico nel quale ci troviamo. Penso che a nessuno faccia piacere, ma da qualcosa bisogna pur cominciare a ridurre; o forse si pensa che si poteva continuare davvero cosi? Ognuno si dà delle priorità e cerca di farle crescere indipendentemente dal contesto.
(Sierra)
Quanto si legge in uno dei commenti riguardo allo Stato che “attingeva le risorse incrementando il debito pubblico”, sembra voler dire, se non ho frainteso le parole, che anche allora, ovvero mezzo secolo fa, la finanze pubbliche non navigavano in acque tranquille, causa appunto l’indebitamento dello Stato centrale.
E’ una tesi, questa, che non mi sento di condividere, pur da inesperto qual sono della materia, perché se vale quanto ci capita spesso di leggere o di ascoltare, ossia che la solidità finanziaria di un Paese viene solitamente calcolata commisurando il debito pubblico al valore del prodotto interno lordo – il cosiddetto rapporto Debito/PIL – agli inizi degli anni settanta, cioè quarantacinque anni fa, tale rapporto si aggirava intorno al 40%, mentre ai giorni nostri, se non sbaglio, pare essersi più che triplicato.
Poi c’è però anche chi teorizza di non mettere al primo posto la politica del rigore, al fine di ridurre il debito pubblico, se questa frena lo sviluppo, anche perché dallo sviluppo possiamo trarre le risorse per ridurre il debito, ma questo è terreno di confronto tra economisti, e pure tra politici, mentre il mio discorso è più semplice, e così riassumibile: è ovviamente improponibile un ritorno al passato, perché il “mondo va avanti” come si dice, ma dal passato qualche buon insegnamento possiamo probabilmente trarlo, e in ogni caso il raffronto col passato mi sembra cosa sempre utile, e anche abbastanza naturale.
P.B. 17.03.2016
(P.B.)
Quando c’è una crisi economica, originata da un evento esterno all’economia di un Paese (la crisi dei subprime in America, per dire), ci si rimette in carreggiata svalutando, cioè abbassando il ‘listino prezzi’ della propria economia. Ma noi siamo nell’euro, che è un rapporto di cambio fisso tra le monete europee. Se il cambio è bloccato, quando c’è una crisi dall’esterno, non si può svalutare; si può solo rispondere, per recuperare competitività, svalutando i salari (lo ha appena affermato anche Padoan, tra gli altri). In questo modo, però, la gente ha meno soldi e calano i consumi interni, quindi le imprese che lavorano per il mercato interno sono in difficoltà, chiudono, licenziano (il Jobs Act serve a questo) e si crea disoccupazione. E’ ovvio che, se cala il PIL, il rapporto debito/PIL peggiora. Se, per ridurre il debito, si aggiunge l’austerità, il PIL cala ancora, e il rapporto peggiora. Gli interventi di Monti non servivano a ridurre il debito, ma lo squilibrio dei conti con l’estero (il debito privato con la Germania, soprattutto). Ma con l’austerità, il PIL è calato ulteriormente e infatti il rapporto debito/PIL – dopo Monti – è salito al 135%. Il mondo non va avanti per inerzia propria: Clinton ha firmato l’abolizione del Glass-Steagal Act (la legge bancaria americana), e da lì (e con la Thatcher in Gran Bretagna) è iniziata la finanziarizzazione dell’economia mondiale. Queste sono scelte politiche, e in quanto tali, passibili di valutazione. Perché non possiamo pensare di tornare ad un passato migliore? Nella situazione attuale, se l’Italia cresce, la gente ha più soldi in tasca, aumentano le importazioni dalla Germania e va in crisi la bilancia dei pagamenti, e quindi tornerà un Monti a ‘distruggere la domanda interna con il consolidamento fiscale’. L’euro vuol dire austerità, quindi taglio della spesa pubblica, quindi meno Merulo, meno Ostetricia, meno salute pubblica, meno sicurezza. Chi ha i soldi si potrà permettere ancora queste ‘gioie’; chi non li ha, ne farà a meno (la ‘durezza del vivere’ di cui parlava Tomaso Padoa Schioppa). Austerità: leggi disuguaglianza sociale. Naturalmente, sbocceranno i ‘diritti civili’: ognuno potrà sposarsi e fare figli con chi gli pare, come gli pare, quando gli pare. Purtroppissimo, non avremo i ‘diritti sociali’: un lavoro e una pensione dignitosi (come dice la Costituzione), un sistema sanitario tra i più efficienti del mondo (controllare i dati), scuola pubblica, sicurezza, risparmio tutelato dallo Stato. Certo, non si può avere tutto, dalla vita… però avremo lo Stato Leggero: poco invadente, poco costoso… Una simpatica descrizione dello Stato Minimo, la trovate qui: http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03/03/liberismo-e-dogma-dalla-teoria-alla-pratica-parte-terza/2510065/
(commentofirmato)
“Chi ha i soldi si potrà permettere ancora queste ‘gioie’, chi non li ha ne farà a meno”, si legge in un passaggio del secondo commento firmato, con riferimento a determinati servizi, che credo citati soltanto come esempio perché la lista potrebbe allungarsi, come a dire che il Paese si troverà ad essere spaccato in due, tra benestanti da un lato e non abbienti dall’altro… Ma se l’economia langue, o arretra, e aumenta nel contempo la pressione fiscale, intesa nelle sue diverse forme, non è da escludere che la cosiddetta classe media, ossia quella che viene considerata da più parti come l’ossatura del nostro Paese – e che forse ha ancora disponibilità di risorse e capacità di spesa – si vada mano a mano “impoverendo”, così che il numero di quanti “hanno i soldi”, per dirla con le parole del commento, potrebbe ridursi parecchio, al punto da non bastare per tenere in piedi il sistema delle “gioie”, ossia di quei servizi solo a loro accessibili per via del rispettivo costo (con tutte le conseguenti ricadute sul piano occupazionale). Nel senso che, estremizzando il concetto, in una società come la nostra non sarebbero sufficienti pochi ricchi – a meno che non siano mecenati generosi, oltre che molto facoltosi – a sostenere l’insieme di detti servizi, ma occorre piuttosto un “benessere” diffuso, onde non far retrocedere il livello dei consumi interni, servizi compresi, e onde poter aiutare chi è in condizioni di reale ristrettezza e bisogno, così da non mettere a rischio la tenuta del tessuto sociale.
(P.B., 18.3.2016)
Il rischio è esattamente questo, ben descritto da P.B. Se continua questa tendenza, l’Italia è destinata a diventare un’economia coloniale. La migliore definizione di ‘colonialismo’ l’ho letta qualche giorno fa: il reddito pro-capite in India, dalla metà del 1700 fino all’abbandono degli inglesi, è rimasto uguale. Ciò significa che ogni incremento di produttività dell’economia indiana, durante la colonizzazione inglese, è andato a guadagno degli inglesi non degli indiani. Quando le attività industriali italiane saranno per la maggior parte in mano estera, grazie alle privatizzazioni prossime venture (le riforme strutturali, signora mia!), all’Italia resteranno le briciole, appena sufficienti per un’economia di sopravvivenza. Altro che Merulo! Dal secondo dopoguerra in poi, fino agli anni ’80, un operaio poteva vivere dignitosamente, far studiare i figli, comprarsi una casa. L’obbiettivo della deflazione salariale (Jobs Act) è di portare i salari al limite della pura sopravvivenza, poco al disopra di quel ‘reddito di cittadinanza’ (se lo chiamiamo ‘reddito della gleba’ si capisce meglio di cosa si tratta) che da tante parti si invoca. La Costituzione parla di un salario ‘dignitoso’ che implica la possibilità per le famiglie di ‘risparmiare’, non di sopravvivere e basta. Come dice, a mio parere giustamente, il commento di P.B., è rischio la tenuta del tessuto sociale. Quando le scelte politiche di redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto – perché di questo, si tratta – vanno contro gli interessi della maggioranza dei cittadini, per essere attuate avranno bisogno di una compressione della democrazia: a questo servono, le riforme costituzionali. Le politiche di destra, anche se attuate dalla ‘sinistra’, nel tempo, favoriscono solo la destra. Il cancelliere Bruning, negli anni ’30, reagì alla crisi economica (e salvò le banche tedesche) con politiche di austerità e deflazione salariale. Il risultato, credo che lo ricordiamo tutti, fu l’ascesa di Hilter al potere…
(Commento firmato)