CASTELNOVO MONTI (13 gennaio 2016) - Nell’anno in cui il commercio pare segnalare una timidissima ripresa – ma i conti si faranno a saldi conclusi - , va in scena anche nel medio alto Appennino la “colonizzazione” di alcune attività commerciali e di esercizio da parte di popolazione cinese.
A Castelnovo Monti è quanto avviene con il rilancio di un esercizio già attivo all’Isolato Maestà, di recente ampliatosi negli spazi di un ex autosalone, dismesso da anni, in via Monzani. Ma è quanto avviene nella ex storica birreria Meeting, oggetto di riconversione sempre a cura di persone di etnia cinese. Così pure un altro emporio si segnala in uscita a Cervarezza mentre, a breve, anche lo storico Alberto Tre Re dovrebbe passare sotto analoga gestione.
Una presenza, quella cinese, che come in altri casi si insedia laddove le condizioni di marginalità economica vanno affievolendosi (bar, oggettistica), magari in confronto agli standard precrisi. Un fenomeno, questo, che si è avviato in Italia dapprima a Milano, poi via via in maniera capillare cresciuto d’impulso a partire dagli anni Ottanta. A Reggio Emilia la “colonizzazione cinese” ha dapprima interessato il settore tessile, quindi il settore dei bar e altro. Un fenomeno ancora “etnico”, ma che se in questi casi si rivolge espressamente a una clientela italiana.
I numeri sono ancora molto ridotti, evidentemente, se si parla di di 3 unità locali a Castelnovo Monti gestite da cinesi a fronte di oltre 460 unità locali gestite da italiani e destinate a commercio e ristorazione.
Intanto qualche lettore chiede che il fenomeno possa essere quantomeno “stigmatizzato”: chiaramente, aggiungiamo noi, solo in evidenza di illegalità accertata (è il caso di quanto regolarmente accade per i tanti centri di massaggio in città). Interessante l’aspetto antropologico che dimostra come, caduti i pregiudizi iniziali, alla fine possiamo essere capaci di integrarci gli uni con gli altri, colmando rispettive esigenze – di reddito da un lato e di offerta di merci e servizi dall’altro. Per la generazione dei giovani studenti delle superiori è una realtà già in essere. La teoria delle reti sociali, non ultimo, osserva la società moderna è come una rete di relazioni, più o meno estese e strutturate, dove il presupposto fondante è che ogni individuo (o attore) si relazioni con gli altri e, così facendo, tale interazione plasmi e modifichi il comportamento di entrambi.
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Aggiornamento
Domenico Gebennini, presidente della società proprietaria dell'Albergo Tre Re, smentisce la notizia della cessione della gestione della struttura ad operatori cinesi.
"E' in corso una operazione di affittanza dell'albergo, ma ad una società costituita da operatori locali", afferma Gebennini.
Redacon prende atto della precisazione e la pubblica con la medesima evidenza.
Come amministratori il nostro ruolo deve essere di controllo sulla regolarità di esercizi ed attività che aprono e sul fatto che chi le apre abbia i titoli per farlo. A questo ci atteniamo, al di là delle nazionalità e delle etnie. Voglio sottolineare che questi esercizi appena aperti hanno aperto in spazi rimasti vuoti dopo la chiusura o cessazione di precedenti attività (una da molti anni), decidendo di investire sul territorio. Aggiungo inoltre che alcune voci circolate sull’argomento risultano del tutto prive di fondamento, “bufale” come si suol dire, come quella legata all’Albergo Tre Re, o a fantomatici sgravi fiscali particolari ai quali gli imprenditori stranieri avrebbero diritto. Ovviamente il nostro ruolo di controllo non verrà meno, anzi, ma chi opera e vive nella piena regolarità è e resterà ben accetto sul territorio.
(Enrico Bini)
Il mondo è di tutti. Le persone oneste appartengono a tutte le etnie. Così come il contrario. La cultura cinese è molto diversa dalla nostra. Il senso del lavoro ad esempio. Non esistono orari, la famiglia partecipa, tutta, all’attività lavorativa. I cinesi che aprono attività dimostrano una capacità organizzativa e ordine mentale da osservare con interesse. Riescono a disporre una quantità di merce inimmaginabile, riescono a prevedere i bisogni di un ipotetico consumatore. In un bazar cinese trovi “tutto”. Disposto in silenzio, con razionalità ed efficienza. I loro spazi sono privi di riscaldamento e qui ci restano anche 12 ore al giorno. Assorti nel loro mutismo, dediti al lavoro. Non si sente parlare di violenza da parte loro, sono silenziosi anche nel loro ammalarsi, scomparire. Questo è un dato di fatto con cui la cultura europea è chiamata a fare i conti. La loro “intelligenza sociale” sta nel rispondere con coerenza e coesione al commercio, tutto. Questo annientamento della vita privata e la totalizzazione della produttività può essere ai nostri occhi spiazzante. Occorre conoscere i movimenti culturali, le subculture per poterle affrontare. Non è giudicando da fuori, chiudendo, che si arresteranno i flussi migratori. Sono d’accordo con la posizione del sindaco. Tutela della legalità. E presenza sul territorio. Una riflessione più ampia va fatta, con consapevolezza, sul fatto che siamo sottoposti a flussi continui. E se qualcuno arriva è perché lo spazio ha un richiamo. Se le attività non funzioneranno, i negozi aperti chiuderanno. Sta alla popolazione scegliere dove e perché, se rivolgersi a un servizio piuttosto che a un altro. La qualità ad esempio. Chiediamoci cosa vogliamo comprare. Ma manteniamo aperta la libertà di scegliere. Cogliamo l’occasione per pensare e ripensarci in un mondo che cambia e continuerà a cambiare. Che lo vogliamo o no.
(Ameya Canovi)
“Cogliamo l’occasione per pensare e ripensarci in un mondo che cambia e continuerà a cambiare. Che lo vogliamo o no”, sono le parole conclusive del secondo commento, le quali ispirano una riflessione o, se vogliamo, una domanda di carattere generale e che, dunque astrae dal caso specifico. Nel pensare e ripensarci, di fronte ad un mondo che ineluttabilmente cambia di continuo, potremmo fors’anche chiederci se ci si deve arrendere, lasciarsi cioè trascinare da questa incessante metamorfosi che, di fatto, omologa un po’ tutto, o se valga invece la pena di salvaguardare, o comunque tentarvi, qualche pezzo almeno delle nostre abitudini e tradizioni, ossia della nostra identità.
(P.B.)
Signor P.B. forse perché sono figlia di gente che è andata in Brasile a lavorare per povertà (e dove sono nata), e poi è tornata qui, ho vissuto e camminato più mondi. Le assicuro che è possibile mantenere e mantenersi le proprie tradizioni E conoscerne altre. Credo che la dicotomia O/O intesa come o noi o loro sia irreale. Preferisco l’inclusione di ciò che piace, di ciò che è possibile. Il timore di snaturarsi è infondato, chi è consapevole e chi ha provato sa bene che ci si fonde nella periferia, mentre nell’essenza si resta uguale. Mia madre in vent’anni di Brasile non ha mai smesso di fare la pasta in casa sua. C’è una sorta inconscia di difesa della propria identità, che resta, pur incontrando il diverso. Le tradizioni coesistono, senza intralciarsi l’una con l’altra. Siamo meno montanari da quando festeggiamo Halloween? Ci sentiamo meno appenninici se mangiamo un kebab o un involtino primavera? Conoscere altre culture ci dà la possibilità, paradossalmente, di conoscere più da vicino la nostra. Ripensiamoci davvero, a ‘sto punto.
(Ameya)
A me viene da sorridere pensando a tutto ciò. Io vivo una realtà, lavorando fuori Castelnovo, che fa i conti con diverse etnie, culture, modi di pensare, di porsi, non sempre condivisibili, ma che ci sono, che esistono e che proliferano. Reggio è piena di bar gestiti da cinesi, che sono grandi lavoratori, e i loro esercizi sono frequentati da molte persone. Siamo in un mondo in continua evoluzione, nel bene e nel male, e questo processo è inarrestabile, dobbiamo conviverci e se qualcuno storce il naso, deve sapere che indietro non si torna.
(C.)
In questi giorni ha ripreso con forza non solo sui social, ma anche nel nostro Comune, il tema di quale tipo di commercio possiamo permetterci, ovvero se e come tutelare il nostro sistema tradizionale. Si sta riaffermando la difesa del piccolo negozio di frazione, che può svolgere anche una funzione sociale, e qui le Amministrazioni locali possono giocare un ruolo importante, sia nella possibilità di aiutare in termini anche fiscali la loro sopravvivenza, sia nella regolamentazione tra negozi cosiddetti “di vicinato” e grande e media distribuzione. L’altro tema che sta emergendo è quello di cosa può fare una Amministrazione in merito a nuove aperture, che vedono insediarsi etnie o culture diverse, fenomeno che si sta diffondendo anche nel nostro Appennino dove fino ad oggi era praticamente sconosciuto. Qui le Amministrazioni possono innanzitutto svolgere un ruolo di controllo su chi richiede di poter aprire esercizi ed attività commerciali, e poi una vigilanza attenta sulla provenienza e rispondenza del prodotto posto in vendita, usando altresì la lente di ingrandimento per garantire un assoluto livello di legalità. Oggi però il commercio non ha più, rispetto al passato, un andamento per così dire costante, ma appare piuttosto in continuo movimento sia per la varietà dei prodotti immessi sul mercato, anche in forza della globalizzazione, sia per le conseguenze della crisi economica, che ha ristretto i bilanci famigliari e spinge a guardare molto i prezzi, vuoi per altri fattori legati alle contingenze e alle mode del momento. Anche il nostro Appennino non sfugge a questi parametri e “condizionamenti”, tanto che assistiamo a nuove aperture di attività da parte di etnie o culture diverse e non sappiamo a dove arriveranno come numero, così da chiederci fino a che punto possiamo accettare questa loro espansione senza mettere in crisi la nostra tradizionale rete commerciale. Noi crediamo che se vogliamo affrontare in modo corretto il problema, che certamente esiste ed è piuttosto complesso, non possiamo individuare il nemico a seconda della sua provenienza e considerare comunque un pericolo e una colonizzazione del nostro territorio le attività svolte da chi viene da altri Paesi, ma chiederci anche perché i nostri concittadini se ne avvalgono, visto che hanno possibilità di scelta. In questi mesi, per non dire da alcuni anni, si sta lavorando per valorizzare il nostro territorio, non solo sotto l’aspetto ambientale, ma anche per la qualità dei suoi prodotti, quelli alimentari in primo luogo, e c’è dunque da auspicare che il consumatore apprezzi tale qualità anche quando i prezzi possono essere leggermente superiori, e non guardi soltanto a risparmiare. Dovremmo anche domandarci, in base all’esperienza maturata in questi anni, se le liberalizzazioni hanno portato sempre vantaggi e benefici, e in ogni caso dovrebbe valere il principio che la concorrenza deve essere “leale e paritaria”, nel senso di mettere in condizioni pressoché simili chi produce e vende, mentre sappiamo che vi sono nazioni estere che hanno costi molto più bassi di produzione, coi quali è sempre più difficile competere, ma questo è un aspetto che riguarda il Governo nazionale.
(Robertino Ugolotti – capogruppo lista civica “Progetto per Castelnovo”)
“In un mondo in continua evoluzione, dove indietro non si torna”, come scrive (C.), c’è chi vuole correre incontro ai cambiamenti, perché li ritiene comunque utili e stimolanti, e chi invece vorrebbe procedere con gradualità, secondo il vecchio adagio “che chi va piano va sano e va lontano”, animato anche dal timore che la troppa fretta, e una eccessiva proiezione in avanti, possa farci trascurare e perdere le buone cose nate nel corso degli anni e delle generazioni. E’ vero che l’attardarsi e il temporeggiare può talora “farci perdere il treno”, ma sarebbe parimenti importante che riuscissimo a prendere il treno giusto, quello che può portarci alla destinazione ambita, per non doverci poi accorgere tardivamente che abbiamo sbagliato strada senza alcuna possibilità di retromarcia, e quante volte, fuor di metafora, capita oggigiorno di sentir dire che dovremmo forse fare un qualche passo indietro(!) Il futuro ci dirà se in questo campo hanno ragione i “velocisti” o chi preferisce il ritmo del “passista”, ma in ogni caso, senza pretesa alcuna di essere nel vero, non mi entusiasma il pensare che una società si abbandoni al fatalismo, nel senso che rinuncia a decidere circa il proprio destino, ovviamente per quanto può e riesce, perché ha di fronte un “processo inarrestabile”, che ormai, lo si voglia o meno, non consente più di “storcere il naso”.
(P.B.)
Nei commenti fatti sull’apertura di attività commerciali in montagna da parte di etnie cinesi dal sindaco, da Ugolotti e Ameya vedo buonsenso e un modo corretto di affrontare un problema. Non ci viene in mente che forse dovremmo dire grazie a chi ci aiuta a riempire i nostri spazi vuoti o, perchè no, a riportare un po’ di vita in piccole frazioni piene solo di case vuote che si stanno distruggendo perchè disabitate? Non dobbiamo avere paura! Certo, tutto deve essere fatto con correttezza e regolarità; gli strumenti ci sono e il Sindaco mi sembra abbia l’esperienza e la capacità per affrontare il problema. Anche l’Ass. Commercianti dovrebbe essere presente perchè è in atto una rivoluzione commerciale. Aiutiamo questi popoli a conoscerci e a conoscere il nostro territorio e trasformiamo i nostri timori in opportunità. Chiediamoci in che modo potrebbero inserirsi (non in ghetti o isolati) nella nostra vecchia montagna e cerchiamo di conoscere anche la loro storia. Sono persone identiche a noi fisicamente e allora cerchiamo solo quello che ci può unire. L’incontro tra amministratori che è stato fatto mi sembra un ottimo inizio e foriero di cose buone e anche quanto scrive il dott. E. Bussi. Quindi niente paura! A Lei Sindaco il compito di promuovere iniziative (anche con nuove leggi); comunque qui da noi alcuni si lamentano perchè a questi nuovi commercianti verrebbero concessi trattamenti fiscali agevolati per un’anno e, dopo, cambiano solo il nome. Castelnovo è un paese molto caro, ricordiamolo e prendiamone atto: questa potrebbe essere l’occasione per reinventare la vita in montagna.
(Luigi Magnani)
In massima parte concordo con Luigi, anche se ho riletto con cura l’ultima frase (“anche con nuove leggi – comunque qui da noi alcuni si lamentano perchè a questi nuovi commercianti verrebbero concessi trattamenti fiscali agevolati”.Purtroppo il Sindaco può fare ben poco), come concordo anche con i commenti più sopra, tutti apprezzabili. Non posso dire altrettanto di altri commenti letti in altri posti che non meritano nemmeno risposta. Aggiungo soltanto alcune mie riflessioni in proposito. Intanto, come già detto, ammiro e rispetto le persone che lavorano per guadagnarsi la giornata, in silenzio e in piena legalità, di qualsiasi religione, etnia, Paese, colore o cultura. E’ giusta la libera concorrenza nel commercio ed ognuno è libero di fare acquisti dove trova la qualità ed il prezzo più conveniente, ma tutto questo sempre e solo in presenza di regole e leggi certe, chiare, equilibrate e fatte rispettare da tutti. Questo vale per attività cinesi e anche nostrane, ma anche per le grandi superfici di vendita e per le vendite online, cosa che purtroppo, a mio parere, non succede. Ma succede invece che molte attività “nostre” chiudono perché non ce la fanno più pur avendo anche loro, la voglia e spazio per lavorare, strangolate da spese, tasse e burocrazia, lasciando il locale tristemente vuoto. Mentre alcune attività cinesi aprono e questo è certamente positivo che prendano il loro posto, se non altro perché danno un servizio in più e più vivacità al nostro paese. Ma trovo anche strano e preoccupante questo scambio di attività, noi chiudiamo e gli immigrati aprono. Come è possibile? Si dice che abbiano delle agevolazioni fiscali, può essere, ci capisco poco nel nostro groviglio di leggi e nella burocrazia che abbiamo, ma capisco ed è evidente che con il tempo stanno facendo sparire le nostre attività. Si dice che loro sono lavoratori laboriosi sempre in attività (ma anche i nostri), che collabora tutta la famiglia ecc., ecc., ammirevole, ma so di nostre attività che sono state sanzionate pesantemente soltanto perché era presente al lavoro un genitore… e gli orari liberi di apertura, 24 ore su 24?…, già, la “tutela della legalità”, penso che nulla possa fare il nostro Sindaco, perché sono leggi imposte a livello nazionale per favorire non so chi. Si dice, ma non so se è vero, che per acquistare una attività, loro vanno in giro con valigette piene di bigliettoni, mentre ad altri è severamente vietato. Chissà, con il tempo forse arriveranno anche le banche cinesi, le assicurazioni o la distribuzione della benzina o altri colossi ma qui ci sono le lobby che ben proteggono. Mi piacerebbe leggere un commento serio da persone più informate per capire queste differenze, per capire quali agevolazioni hanno gli immigrati e se effettivamente le hanno e perché noi non possiamo averle. A questo scadimento non è immune nemmeno chi si crede al sicuro dietro lo scudo di un lavoro dipendente, privato o statale che sia, a quanto pare questa benedetta globalizzazione sta cambiando molte cose in bene o in male e i nostri politici, per guadagnare consensi, danno a colpa un po’ a dritta, un po’ a manca e un po’ alle fasi lunari, ma forse sono proprio loro la vera causa di questo degrado. E, tanto per provocare e per ridere un po’, e se mandassimo al governo un bel cinesino?
(Elio Bellocchi)
Concordo col le asserzioni, sempre misurate e precise, del Signor Bellocchi. Quando ancora abitavo a Parma (2006, mica ieri) alcuni miei fornitori in piazza Ghiaia (sede del mercato settimanale e a quel tempo piena di baracchette di legno che avevano sostituito i chioschi, in attesa della definitiva trasformazione della piazza), asserivano che i cinesi arrivavano con la valigia piena di soldi chiedendo quanto volevi per cedergli l’attività; che in prativa vivevano con la famiglia in negozio facendo orari continuati, che fossero feriali o festivi. Trovavi tutto a prezzi imbattibili e a qualsiasi ora. In definitiva ne ricavo la morale che chi ha più fame, più corre e loro, come tradizione millenaria a correre sono stati abituati, che gli piacesse o no. D’altra parte anche il mercato di Castelnovo, da molti anni, è popolato da banchi di cinesi e marocchini coi quali mi trovo, peraltro, benissimo. Quello che dovrebbe essere stigmatizzato a livello legislativo è il deprecabile comportamento dei grandi marchi che fabbricano all’estero e dopo poche rifiniture definiscono il prodotto “made in Italy”… con prezzi da paura. Fino ad allora l’anarchia legislativa regnerà sovrana ed i commercianti locali, che hanno usi e costumi di orari, nonchè fornitori che applicano prezzi ben diversi da quelli cinesi, sono in balìa di loro stessi. Ed è a loro, soprattutto, che auguro buona fortuna.
(Cristina Casoli)
Vorrei essere più preciso su quanto ho scritto su Castelnovo caro; intendevo come costi per villeggiare. Per altri, come ad esempio l’abbigliamento si trovano prezzi e merce ottima, sopratutto quando iniziano gli sconti (le mie nipoti e i loro amici che abitano a Milano ogni anno approfittano delle vacanze per fare molte spese nei negozi e sono rimaste sempre contente). Mi sembrava corretto da parte mia questa precisazione. Grazie.
(Luigi Magnani)
L’avvento dei centri commerciali inizialmente hanno suscitato entusiasmo e soddisfazione e curiosità, perchè quel modello americano di concentrare in un unico spazio tanti negozi significava per i consumatori guadagnare tempo e sforzi in un’epoca in cui si deve rincorrere il tempo, luoghi di shopping assicurato per donne e uomini sempre in corsa. Solo ora ci rendiamo conto che i centri commerciali hanno ucciso il negozietto e il piccolo commerciante che col suo piccolo esercizio manteneva tutta la famiglia. L’arrivo dei “bazar cinesi” sarà la stessa cosa a lungo termine, per ora ci piace sapere che da loro “trovi proprio tutto e buon prezzo”, la qualità? Quella non c’è più da tempo nemmeno in molti negozi di italiani perchè ormai è quasi tutto made in China. Penso che ormai la nostra italianità sarà come le foto in bianco e nero, un ricordo nel cassetto da tirare fuori e ammirare. Io ho vissuto parecchi anni all’estero dove già i cinesi avevano “invaso” coi loro bazar, e devo dire che erano persone bravissime ma che nessuno aveva mai visto fare spesa in un supermercato, cenare in una pizzeria, entrare in un bar, comprare una biro o un libro, nessuno di loro aveva amici non cinesi anche se imparavano la lingua con rapidità. Loro sanno far tutto e fanno tutto, hanno tutto e risparmiano non per far circolare nuovamente un valore monetario aggiunto, ma per investire e chiamare altra gente. In Cina si può avere solo un figlio a coppia e questo è un motivo di cercare un’altra patria. Sono abituati solo a lavorare e questo a me sa un po’ di schiavismo al lavoro e sappiamo benissimo che non sempre sono corretti tra di loro per via di uno sfruttamento nascosto su donne e bambini. Certo non sarà il caso di questi cinesi insediatisi qui da noi, ma arrivano sempre coi soldi forse perchè lavorano tanto e i marocchini o gli albanesi invece arrivano squattrinati perchè lavorano meno? Buon per loro se riescono a rilevare grandi locali, ristoranti e bar che nessun montanaro o autoctono può rilevare e buon per noi se risolleveranno le sorti di locali che altrimenti andrebbero chiusi…. ma… ne siamo proprio sicuri? Comunque sia sarà la storia a scrivere un nuovo capitolo perchè, comunque sia, questa è la globalizzazine. “Vincerà” chi ha più soldi da investire e chi riuscirà a capitalizzare maggiormente. E’ il mondo che va così e se tutto ciò che accade è legale, non possiamo che augurarci che funzioni. Forse a noi piacciono le vacanze e gli svaghi e un po’ di benessere, abbiamo lottato in passato per migliorarci il livello di vita e non per essere schiavi del lavoro, per questo forse i cinesi avranno fortuna economica e daranno lavoro a noi che siamo un po’ venali… e italiani.
(Simona Sentieri – artista)
La globalizzazione. E’ il mondo che va così… Attenzione: la globalizzazione non è, come i cambiamenti climatici, un fenomeno naturale di evoluzione del mondo. E’ un’evoluzione dei mercati internazionali voluta e progettata, sostenuta da trattati e da norme ben precise. Tutto legale, naturalmente. Come l’Unione Europea e l’Euro. L’evoluzione progettata e voluta consiste nella liberalizzazione della circolazione del capitale e del lavoro. Questa è la sostanza della globalizzazione. In parole povere, il capitale andrà ad investire dove trova le condizioni migliori (i salari più bassi, per esempio). E’ naturale che, in un mercato del lavoro globalizzato, i salari più bassi trascineranno al ribasso tutti gli altri. Salari più bassi vuol dire meno domanda di beni, quindi meno produzione e dunque meno ricchezza complessiva. Non è un caso se gli esercizi commerciali chiudono: girano meno soldi, la gente compra di meno; chiudono anche le fabbriche e di queste, alcune, guarda caso, si spostano dove i salari sono più bassi – notizie di Saeco, per dire? Diceva un ex ministro della Repubblica che gli italiani devono imparare di nuovo la “durezza del vivere” (tutti tranne lui, ovviamente, che non aveva certo problemi a sbarcare il lunario). Beh, ci siamo arrivati, ormai, e il bello deve ancora venire. Abbiamo lottato per non essere schiavi del lavoro – dice Simona, giustamente – ma ora, per i lavoratori, si prospetta un ritorno al Medioevo dei diritti.
(Commento firmato)
Ecco, questo mi sembra un commento chiaro e trasparente. Peccato che non sìa firmato. Quindi, tirando le somme, ci hanno fatto credere che la globalizzazione, l’Euro, l’Unione Europea e perfino l’ora legale erano tutti provvedimenti e trattati internazionali presi per il nostro vantaggio di cittadini, per il nostro stare meglio, ma visti i risultati, ci hanno ingannato alla grande. I vantaggi sono tutti e solamente delle multinazionali! Quindi ancora, se prima avevamo il vago sospetto, ora abbiamo le prove che le multinazionali e i grossi gruppi finanziari, comandano i governi del mondo e anche il nostro!
(Elio Bellocchi)
Ringrazio per l’apprezzamento. Aggiungo un paio di cose. Prendiamo l’Euro, per esempio, la moneta unica. In sostanza, è un sistema di cambi fissi tra le valute dei Paesi dell’Eurozona. Il cambio fisso, dice la teoria economica delle Aree Valutarie Ottimali, va bene quando le economie coinvolte sono omogenee. Se non lo sono, l’adozione di un cambio fisso (moneta unica) crea squilibri e favorisce l’economia più forte. Inoltre, siccome gli squilibri non possono essere risolti aggiustando il cambio, i problemi di competitività tra economie diverse possono essere risolti solo svalutando i salari. Per svalutare i salari bisogna creare disoccupazione (quando sei disoccupato, accetti tutto, pur di lavorare). Inoltre, svalutare i salari, distrugge la domanda interna e quindi l’economia. Puoi solo esportare. Ma per l’Italia l’Euro è una moneta sopravvalutata, mentre per la Germania è sottovalutata. Quindi, chi esporta? Italia o Germania? Tutto questo era ben noto agli economisti ed ai politici, prima dell’entrata dell’Italia nello SME (il nonno dell’Euro). Tanto che Napolitano, nel ’78, affermava che l’adesione allo SME era una “proposta di una politica di deflazione e di rigore a senso unico”, mentre Luciano Barca, economista, affermava: “Europa o non Europa, questa resta la mascheratura di una politica di deflazione e di recessione anti operaia”. Dunque, siamo partiti ragionando sulla Cina, sui cinesi e sui salari minimi (c’è chi è disposto a lavorare tanto e a prendere poco), ma il problema, per l’Italia, è l’Euro. Che ci costringerà a lavorare tanto (chi ha il lavoro) e prendere poco. Inoltre, c’è un problema di democrazia: come è possibile che un Paese adotti politiche economiche recessive, che vanno contro gli interessi della maggioranza? Avete notato che in Italia, gli ultimi tre Governi non sono stati votati, ma nominati? Il problema delle banche italiane lo risolverà la Troika; ma le banche tedesche, a suo tempo, sono state risanate con fondi pubblici. Al nostro debito pubblico ci penserà il Fiscal Compact. Ma i debiti delle banche tedesche e francesi in Grecia li abbiamo pagati noi (40 miliardi è il contributo dell’Italia) con il Meccanismo Europeo di Stabilità. Più Europa per tutti! Se ci poniamo dei problemi per la concorrenza cinese, guardiamo l’effetto, ma non vediamo la causa.
(Commento firmato)
Compriamo italiano, è semplice, è giusto. 5 buoni motivi per farlo:
1) difendiamo agricoltura e pesca italiane, compriamo il latte, le arance, il riso e tutti i prodotti delle filiere agroalimentari italiane, sosteniamo il nostro futuro;
2) acquistiamo prodotti controllati e sicuri, a garanzia della sicurezza alimentare, nostra e dei nostri figli;
3) promuoviamo l’educazione alimentare, il piccolo commercio e lo straordinario patrimonio delle diverse tradizioni regionali italiane;
4) sosteniamo il made in Italy, combattiamo la contraffazione delle merci che causa gravissimi danni alle nostre aziende;
5) creiamo posti di lavoro in Italia, contrastiamo la delocalizzazione delle nostre imprese e la concorrenza sleale delle grandi multinazionali.
(Una montanara)
Quando leggo, sempre sulle pagine di Redacon, un articolo come quello di ieri, dal titolo “La farina che vale un tesoro”, riguardante la farina di castagne, mi illudo che possano crearsi le condizioni, anche economiche, perché giovani e meno giovani possano riprendere qui da noi attività che facevano parte della tradizione locale e così “riportare un po’ di vita in piccole frazioni piene solo di case vuote”, per usare le parole di un commento. Credo, infatti, pur se il condizionale è d’obbligo, che chi è cresciuto in questi luoghi e ne ha respirato l’aria di ruralità che ancora vi aleggia nonostante i cambiamenti intervenuti, possa essere indotto ad intraprendere un mestiere del settore, invertendo un po’ la tendenza di questi anni, specie se avvertisse intorno a sé un sentire comune che attribuisce alla nostra agricoltura l’importanza e il valore che si merita.
(P.B.)
E’ sicuramente vero che dobbiamo tutti fare i conti con gli effetti della globalizzazione e prendere nel contempo atto che “è il mondo che va così“, ma viene nondimeno da pensare che se un popolo ha un forte senso di identità e avverte il valore delle proprie consuetudini e tradizioni, crede cioè nel primato della propria cultura, ovviamente entro i confini del proprio territorio – primato che, vale la pena ribadirlo, non significa egemonica supremazia e neppure esclusività – si crea un naturale fattore di contrappeso, non per opporsi strenuamente al nuovo che avanza, bensì per adattarlo in qualche modo alle proprie specificità, evitando così una omologazione che probabilmente non giova a nessuno (e non è forse un caso, facendo dei paralleli, che in tanti vadano oggi scoprendo l’importanza della biodiversità).
(P.B.)
Adattare il nuovo che avanza alle proprie specificità, alla propria cultura e identità: concordo pienamente. Faccio solo notare che l’omologazione, invece, probabilmente giova a qualcuno. Ci sono studiosi che parlano di “armi di migrazione di massa”. Esiste da tempo (ne parlava gia il vecchio Marx) il concetto di “esercito industriale di riserva”: masse di lavoratori dequalificati disposti a lavorare per pura sopravvivenza. Cosa se ne fa, la Germania, di un milione (unmilione!) di immigrati? La Germania ha un problema spettacolare di denatalità; non fanno più figli. Non potranno sostenere il loro livello di sviluppo da qui a vent’anni. Quando entra in campo l’esercito industriale di riserva, il risultato è che vengono abbassati i salari dei lavoratori già presenti. Se c’è qualcuno disposto a fare il lavoro per meno… Omologare, e quindi eliminare specificità, cultura, identità, serve a trasformare i lavoratori (persone con diritti) in ‘merce’ senza diritti. A qualcuno torna utile abbassare i salari? A qualcuno è molto utile.
(commentofirmato)