A Bruxelles ieri mattina non sorrideva nessuno.
La gente che si incrocia nel tragitto verso il lavoro di tutti i giorni, ma che non si saluta, lo spazzino sotto casa, il barista del caffè, i colleghi in ufficio, ognuno coi suoi pensieri nella “sindrome del giorno dopo”, ma tutti accomunati da domande mute, strette tra i denti: “Facciamo finta di niente? Ci sarà da avere paura? Cosa cambia ora?”.
Sembra che il fronte di questa guerra (vera o presunta) si sia spostato proprio qui nella capitale d’Europa, a Molenbeek, quartiere ghetto della città nella quale vivo da otto anni, dove risiede una comunità islamica molto radicata.
Le sirene che hanno allietato la nottata non si sono ancora spente, i soldati attorno ai palazzi delle istituzioni, predisposti dopo gli attentati a Charlie Hebdo, sono stati raddoppiati ieri.
Il cielo è scuro, livido e minaccia pioggia, l’aria è elettrica e anche leggendo i giornali, alle prime luci del giorno, non si capisce bene quello che sta succedendo.
Forse ha ragione Hollande, siamo veramente in guerra, o forse sono parole di rito, visto che le elezioni sono ormai imminenti e la paura di consegnare il paese in mano alle destre è forte.
Sui social si sprecano i commenti, le analisi, la retorica, gli schieramenti, nel paese dove ognuno ha un’opinione su tutto, i tasti delle tastiere vanno veloci.
Quanto è responsabile l’occidente per questa situazione, quanto lo è l’ideologia, la religione, il commercio, le scelte politiche miopi? Sembra che ognuno abbia una risposta, una certezza, almeno in rete, cosa fare e cosa non fare, magari senza essere informati, perché la lettura della realtà è talmente difficile che richiederebbe un dottorato prima di poter aprire bocca.
Ma i social network danno eco a chiacchiere che fino a qualche anno fa sarebbero rimaste davanti al bancone di un bar, dietro a un bicchiere di bianchino da un euro.
Ecco invece a Bruxelles la situazione, purtroppo, è un po’ diversa. Come dire: siamo leggermente esposti da qualche mese.
Qui a Bruxelles la tensione, i problemi di integrazione, i quartieri ghetto dove è meglio non entrare sono una realtà vera, non solo situazioni di fantasia.
Poche ore fa hanno chiuso la strada a 50 metri da casa mia. Macchina sospetta, dopo cinque ore gli artificieri hanno confermato che era un falso allarme.
Intanto a Molenbeek continuano le perquisizioni, le forze speciali belghe stanno cercando Salah Abdeslam, che però è riuscito a scappare, forse è ancora in città o forse è già in viaggio verso la Siria.
Ma il vero obiettivo degli ‘animali’ che hanno violentato Parigi è prima di tutto incutere paura, sospetto, rabbia e gridare vendetta.
Ecco queste sono cose che bisognerebbe cercare di evitare se si vuole vincere la battaglia.
Con un gruppo di amici il lunedì sera, invece di giocare a calcetto, suoniamo in un gruppo folk e la nostra sala prove è proprio a Molenbeek. Ci sforziamo di andare a suonare tranquilli, per non darla vinta a chi, proprio a un concerto, ha acceso le micce dell’odio.
E adesso il mondo occidentale che fa? C’è chi inneggia alla retorica cristiana, chi ricorda la Fallaci, chi interroga l’Islam moderato, tante piccole tribù che in fondo vivono di vita propria senza mai confrontarsi. Un miliardo e mezzo di mussulmani possono essere ostaggio di qualche decina di migliaia di folli radicali? E noi abbiamo forse ideologie o religioni migliori quando sono portate agli estremi? Tanti degli omicidi a sfondo razzista che si consumano negli Stati Uniti non sono forse fomentati dal radicalismo cristiano?
E’ vero, solo quando succedono stragi in Europa versiamo tante lacrime (e parole), ma concedetemi: Parigi la studiamo a scuola, tutti siamo stati a Parigi, fa parte della storia d’Europa. Parigi stimola ricordi, rievoca emozioni storie, Proust, il Louvre, la Santa Cappella, le Premier Empire.
Non si può non contestualizzare… o forse è solo ipocrisia occidentale.
Io da Bruxelles, dove ieri e oggi passa il fronte, tutte queste certezze non riesco a trovarle, ma cerco di andare a Molenbeek tranquillo, a suonare il lunedì sera.
Ciao Matteo, grazie per questa tua preziosa testimonianza. È un problema di una complessità quasi impossibile da dipanare, dove si intrecciano scelte scellerate di politica estera e luoghi, ma anche gesti quotidiani come quelli che racconti. La mia speranza è nei bambini, il mio auspicio è che vengano educati all’integrazione, all’inclusione e che, qualunque sia l’origine della loro famiglia, si sentano accettati.
(Elena Canovi)