Home Cultura Gli sms di una volta

Gli sms di una volta

28
0

fischio

Capita a volte di soffermarsi un attimo a ripercorrere le proprie esperienze (limitate, certo, e senza pretese). E ci si rende conto che proprio dove e quando meno te lo aspetti c’è chi riesce a metterti nel sacco pur avendo meno esperienza e minore età. È capitato anche a me, in quarta elementare, di far portare il cucco a uno di quei tipi che si ritenevano inattaccabili. E chi era in grado di escogitarne una più del diavolo, insomma, di avere una rivalsa, se non colei o colui cui veniva proibito qualcosa?

 afra settima anna

Sul retro della foto c’è scritto: Si sfoglia. Era il giorno della Sagra! Cioè la festa più grande, ma bisognava lavorare ugualmente. Il “Panierone” era multifunzionale: serviva a contenere la foglia staccata dai rami, a trasportare altro materiale, ma poteva fungere anche da contenitore per i piccoli, un precursore dei box moderni.

 Per un attimo rivisitiamo con la mente gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Era ancora diffuso il concetto che i giovani, e in particolare le ragazze, dovessero aspettare a lungo il momento di relazionarsi con l’altro sesso o, comunque, con altre persone considerate estranee alla famiglia. C’era tempo per quelle cose perché… semmai..., però... L’educazione sì (in che cosa poi consistesse devo ancora capirlo!), ma non la confidenza. In conclusione si temeva che le ragazzine potessero compromettersi coinvolgendo nella vergogna la famiglia, e che i maschietti parlassero senza cognizione e senza sospetti.

E per le ragazzine era difficile anche potere parlare con le amiche. Come minimo veniva considerato tempo perso. Perché, (altra caratteristica ancora marcata allora) non si doveva “mai perdere tempo”. Ho interrogato una signora che queste cose le ha vissute sulla propria pelle ma preferisce restare anonima.

“Di lavori ce n’erano per tutte le ore e tutte le età, a casa e nei campi. Al punto che cambiare lavoro poteva diventare un diversivo non dico per riposarsi ma per stancarsi meno, per variare. Le donne poi erano talmente avvezze al lavoro che non smettevano neanche quando si spostavano da un borgo all’altro. C’era chi faceva la maglia o la calza mentre camminava, ma anche chi si impegnava in lavori di precisione quali i centrini o le guarnizioni per asciugamani o abiti”.

Allora per comunicare con le coetanee del villaggio occorreva inventare stratagemmi. Chiacchierare, comunicare, confrontarsi, di per sé, non era un male, ma c’era quella tardiva mentalità che tentava di soffocare anche queste spontanee aspirazioni. La scusa? Che frasi pronunciate dai ragazzini potessero danneggiare gli interessi della famiglia, che potessero rivelare agli altri progetti privati. Amici con tutti, possibilmente. Ma anche attenti a non fare trapelare nulla. E chissà poi quali segreti misteriosi c’erano da proteggere! Come se le condizioni della famiglia non fossero a tutti palesi dal lavoro, dalla quantità di campi o di animali da lavoro, dall’estensione del podere.

Al borgo non c’erano attrattive: neppure un negozietto o un’osteria. E i bambini non avevano altri giochi se non quelli tramandati dai familiari e… la propria fantasia che, almeno quella, funzionava benissimo”.

Ma si sa che “Fatta la legge, trovato l’inganno”. Cioè ad ogni imposizione si trova il modo di contravvenire, di eludere. E questo non solo tra i giovinetti.

A Castellaro e Donadiolla c’erano belle nidiate di bambini. Le femminucce, già allora, erano in maggioranza: almeno una ventina. Ma il distacco coi maschietti non era incolmabile. Tant’è che, finalmente, le prime tre classi delle elementari furono aperte anche a Castellaro per l’anno scolastico 1945/1946.

Maestra e scolari di Castellaro 2

La maestra Rina Manzoni, originaria di Trieste. Era dovuta fuggire con la famiglia per evitare le rappresaglie di Tito e la persecuzione che conosciamo. Qui è con una classe di Castellaro-Donadiolla, circa 1950.

Nel 1947 era arrivata la luce elettrica, ma l’acqua corrente in casa ancora non c’era, bisognava andarla a prendere con i secchi alla fontana. Quale migliore occasione per incontrare un’amica e scambiare qualche opinione, non necessariamente compromettente? “Ci si inventava un linguaggio personale per comunicare: un fischio, e le amiche imparavano che stavi recandoti alla fonte. Due fischi per dire: ci vediamo nel tal posto, magari a pascolare, e così via. Così Afra, Celestina, Annita, Diana e Bruna sapevano che una di loro si stava recando dove diceva il segnale. E se non c’era urgenza di acqua fresca si faceva in modo che i genitori credessero che era necessario andarla a prendere. Era così possibile trovarsi laggiù in fondo, alla fontana. E al ritorno si poteva confabulare, scambiarsi informazioni mentre si percorreva un tratto di strada assieme”.

E quella fontana ne ha ascoltate di storie dalla voce dei grandi, e anche da quelle dei giovani:

 La funtâna, silensiûša,

     l’ascultêva tân-c perché:

                        ‘l fiöl ch’ l’é grand e ch’al se spûša,

   i racôlt, al bèstji... e csé

                       i s’ liberêvne d’un magûn,

                          e, cun ‘l cunsìli d’un amîgh,

                            a s’ catêva al co’ d’ n’intrîgh

                      pra sbrigâr una questiûn.

A quell’età si era curiosi di sapere, attenti a ciò che capitava nell’ambiente, come parlare dell’amichetta che aveva il corteggiatore (di nascosto, almeno all’inizio), o formulare giudizi su Tizio e Caio, sul loro aspetto e il loro carattere.

I ragazzotti, quelli tra l’adolescenza e la giovinezza, “erano molto grezzi e gelosi quando una ragazzina del luogo dimostrava simpatia verso un ragazzo di altri borghi. E se capitava l’occasione qualcuno azzardava anche rimbrottare le ragazze, come se lui fosse il loro padrone”. Eredità atavica, questa. I nonni ci raccontavano di liti tra i locali e gli intrusi a Pineto e a Legoreccio ove, oltre ai cazzotti (frequenti, pretestuosi e gratuiti) e alle imboscate, compariva anche qualche runchèta.

Maestra e scolari di Castellaro

La maestra Balbina Grimelli di Cola con un’altra classe di Castellaro, anni ‘50.

Anche quel tipo di proibizionismo aveva radici lontane. Per di più lo si riteneva scuola di vita. Ad esempio, (racconta sempre la nostra intervistata), a Vedriano, “tra un borgo e l’altro ci volevano dieci minuti a piedi? Bene, la ragazza doveva percorrere il tratto cantando” (significava che ritornava a casa sola). Da Castellaro ti recavi in visita alla nonna o a qualche zia che abitava a Vedriano o a Gombio? Anche qui c’era chi imponeva alla figlia di cantare o fischiare lungo tutto il percorso. La scusa? Alquanto banale: potere costatare a che punto del cammino si trovasse. In realtà si voleva stabilire se era sola. Perché se era in compagnia doveva parlare e quindi non poteva cantare o fischiare. In uno dei borghi c’era una festa da ballo (piuttosto rare, tra l’altro)? Stessa storia. Come se gli approcci non potessero avere luogo durante la festa, prima di ritornare a casa! E comunque le ragazzine a ballare non potevano andarci sole: “C’era sempre un familiare o un parente di qualcuna delle ragazze che si impegnava a fare il tutore anche per le altre”.

Quanto tempo è dovuto passare per capire che la fiducia nei propri figli era una cosa molto più importante?