Riceviamo e pubblichiamo.
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Tra gli spunti di riflessione emersi nel convegno "Appennino 2.0–Vivere in Appennino si può" (tenutosi ieri l'altra sera, 28 maggio, a Castelnovo ne' Monti, su iniziativa del gruppo consiliare "Progetto per Castelnovo ne' Monti"), ve ne sono alcuni che, nel loro insieme, mi inducono a tornarvi sopra.
Si dice che stia crescendo il numero dei giovani della montagna che, nel programmare il proprio futuro, guardano oltre i confini nazionali, anche perché il nostro mondo del lavoro offre insufficienti opportunità occupazionali, e per loro viene dunque naturale immaginarsi all’estero, dentro o fuori dall’Europa, e una tale prospettiva incontra condivisione anche fra quegli adulti che ritengono molto formativa un’esperienza del genere per i nostri giovani, i quali potranno poi rientrare a casa con un patrimonio di idee e conoscenze molto utile per sé e per gli altri.
A sua volta, la spinta al ritorno sarebbe avviata dal senso di appartenenza, cioè dal legame col proprio luogo di origine, un sentimento che si identifica abbastanza col “localismo”, o “campanilismo”, e non a caso ci è diventato familiare un campanile della nostra bassa, reso famoso dai racconti di un celebre scrittore, che hanno poi avuto anche una versione cinematografica; campanile che rappresenta un po’ il simbolo dell’attaccamento e della nostalgia per le abitudini, il modo di vivere, e anche di parlare, del posto e della comunità da cui proveniamo.
Nel contempo, e quasi in contraddizione, ci sentiamo dire che oggi vanno superati i localismi, i quali restringono la nostra visuale, e bisogna invece allargare gli orizzonti ed aprirci a dimensioni più ampie, che ci fanno conoscere culture diverse, dalle quali dobbiamo lasciarci “contaminare”, anche perché il nostro “piccolo” ci rende troppo deboli e fragili, al punto che, stando sempre a detta tesi, i territori devono aggregarsi per poter diventare entità più grosse, così da reggere il confronto e la sfida con le realtà più forti, e le aggregazioni degli ambiti montani non vanno solo pensate in chiave longitudinale, cioè con la vecchia logica delle vallate, bensì anche col criterio della trasversalità, non esclusa quella interprovinciale.
Di fronte a questa rispettabilissima linea di pensiero, a me viene da pensare che se in questi anni ha prevalso, come ci dicono, l’inurbamento, ossia la tendenza a trasferirsi nelle città, le quali hanno così moltiplicato il numero degli abitanti, qualunque accorpamento che noi possiamo fare non sarà mai sufficiente a creare condizioni di “parità” tra la città e il restante territorio, e devono essere a mio avviso le istituzioni e la politica (il cui “nobile” compito è anche quello di dar soluzione a questioni complesse) a trovare le giuste forme di riequilibrio e di compensazione tra i vari distretti territoriali, che sono tra loro diversi e proprio per questo complementari, in modo da poter preservare quel “piccolo” dove si conservano meglio i valori e le tradizioni (di cui tutti, prima o poi, abbiamo bisogno), e in questo modo coloro che vanno e quelli che restano si sentiranno parte dello stesso sistema e reciprocamente utili, ciascuno secondo la propria vocazione o necessità.
Sempre sul filo della “conservazione” mi trovo d’accordo con chi, tra gli ascoltatori presenti in sala e intervenuti nel corso del dibattito, ha raccomandato di concentrate le risorse sulla preservazione del territorio, che per la montagna è il “capitale” più prezioso e peculiare, oltreché inimitabile, vuoi perché ne connota la “identità”, anche per chi vi fa ritorno dopo lunghi periodi di assenza, vuoi perché può offrire svariate tipologie di lavoro, da quelle più consuete e “normali”, che pure sono importanti e indispensabili, fino alle “eccellenze”.
(P.B., 29.5.2015)
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