Le belle macchie di bianco su sfondo verde, una ventina di centimetri di diametro, geometriche come centrini prodotti da una mano magica, mi hanno riportato indietro negli anni. È la sgargiante fioritura del sambuco, oggi nel pieno del suo vigore.
Il mio pensiero è rimbalzato a quando ho iniziato la scuola. Era il 1941, e la scuola si trovava a Maiola, in casa della Minghîna. Un soffio. Ma sono già settantaquattro anni. Distava solo due chilometri sulla strada vecchia. Pochi oggi possono capire cosa comportava camminare per le vecchie strade. Qualche giornata di sole e la terra diventava polvere atomizzata, ti si infilava nelle scarpe senza pietà. Due gocce d’acqua e le tue scarpe diventavano dei pesi di malta da portarti dietro fino all’ingresso della scuola, dove un ferro arcuato applicato al muro, vicino a terra, permetteva di grattarne via una buona parte.
I primi mesi li passammo ad imparare come tenere in mano la matita e a sagomare prima le aste, poi le vocali e, via via, tutte le lettere. Solo più tardi passammo all’inchiostro. E tralascio la conta delle macchie sulle pagine dei quaderni, sul piano del banco, e anche dentro la cartella.
Con la matita non vi erano problemi: non sporcava, e la sua traccia si poteva cancellare e poi rifare. A meno che … Eh si! A meno che non si trattasse di una matita copiativa, disperazione delle maestre e delle mamme. Non so neppure se quel tipo di matita esiste ancora. Se lasciata asciutta la copiativa scriveva come una matita normale, con un colore che leggermente tendeva al viola. Se invece la inumidivi con la saliva (e con cos'altro, sennò?) ti lasciava il marchio sulle labbra, sulla lingua, magari anche sulle dita, e per toglierlo ce ne voleva di sfregamento. E sulla carta il segno tracciato diventava indelebile, questa volta di un denso colore fucsia.
I guai seri cominciavano quando la maestra ci promoveva all’uso della penna e dell’inchiostro. Possedevamo, è vero, un astuccio di legno al cui interno era sagomato uno scomparto piccolo per i pennini e due lunghi per le matite e per i portapenne. E c’era anche, in qualche angolo della cartella, l’asciugapenne (sugapèni). Questo era composto da una serie di dischetti di stoffa a forma circolare, sovrapposti, fermati al centro con alcuni punti e un bottone. Assomigliava vagamente ad una rosa, ma il colore era scuro ed aumentava sempre più con l’uso. Serviva per asciugare i pennini prima di riporli nell’astuccio.
In classe, bene o male, l’inchiostro c’era sempre dentro i calamai. Ad alimentarli ci pensava la maestra con una bottiglia quadrata, bassa e tozza. A casa invece era più difficile. Avevamo le boccette per l’inchiostro (i bucîn da l’inciòster), ma non sempre avevamo l’inchiostro per riempirle. E in commercio, di solito, si trovava quello adatto per le penne stilografiche, molto fine ma anche costoso, specialmente il Pèlikan o il Gnòcchi. Coi chiari di luna molto frequenti nella nostra economia domestica conveniva cercare qualche altro modo di approvvigionamento.
Per produrre l’inchiostro in casa si potevano utilizzare tre semi di piante. Il migliore come intensità lo si otteneva dai semi di bosso. Poi venivano i semi di edera e quindi quelli di sambuco. Quando uno di questi semi era maturo, in autunno, se ne raccoglieva una quantità sufficiente per riempire un barattolo da conserva e lo si faceva bollire. Il barattolo aveva il vantaggio che lo si poteva buttare, non importava riutilizzarlo, mentre se si fosse usato un pentolino da cucina quello restava nero, sporco d'inchiostro. Dopo la bollitura pigiavamo i semi per estrarre tutto il colore, lo filtravamo, e lo si riponeva dentro le boccettine vuote.
Come sapere se i semi erano maturi? Il test era molto semplice: se gli uccelli li beccavano significava che erano pronti.
Certo, quell’inchiostro era più sbiadito di quello comperato in cartoleria, ma andava bene perché si riusciva a leggere benissimo quanto avevamo scritto. E in più lo avevamo fatto noi! Non si trattava di un carattere marcato, di una scrittura bella nera, ma di una colorazione che si avvicinava di più al grigio scuro. Quasi a contraddire chi si serviva di una frase fatta per asserire che l’inchiostro doveva essere marcatamente nero: Nîgher cme l’inciòster.
Bell’articolo e bei ricordi,grazie!
(Lucibill)
Lo faccio ancora, quello di sambuco. E’ dolciastro, ma ha un color granata che è uno spettacolo. Bravo Savino, completo il racconto e ti fa ricordare tutto.
(Ilde Rosati)