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Anniversari e riforme (di Enrico Bussi)

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I 100 anni dallo scoppio della prima guerra mondiale e i 70 anni dall’inizio della Resistenza in alta Italia fanno scorrere in un attimo le fasi successive con la ricostruzione, la meccanizzazione, l’industria, l’esodo dalla campagna, il boom economico, l’inurbamento. Nel breve arco di tempo di due generazioni il lavoro produttivo in agricoltura e nell’industria estende lo sviluppo al terziario, la corsa ai consumi, alle seconde, terze case non fa pensare alle guerre distanti. Non ci toccano. Siamo distratti e quando il nostro modo di vivere s’inceppa crediamo di poter rimediare a una congiuntura senza vedere la crisi di sistema. Scopriamo la nuova potenza mondiale della Cina, le riserve monetarie dell’India riempire la Svizzera e arrivare in Italia, le altre economie prorompenti in Brasile, Indonesia. Non valutiamo perché quei Paesi galoppano, mentre altri Paesi precipitano e l’Italia resta sempre più impotente di fronte a squilibri acuti e guerre più vicine.

In quello che chiamavamo Terzo mondo si sono sviluppate le società che hanno dato ai contadini la terra da coltivare e ne ricevono ogni impulso di crescita. Il fenomeno è avvenuto sia per alcune delle ex colonie dell’Europa, sia per la Cina comunista che ha salvato la presenza dei contadini a differenza della Russia e dei PECO. La dimostrazione viene dall’ex DDR che a 25 anni dal crollo del muro e dalla fine del regime collettivista arretra nonostante sforzi tedeschi e 2.000 miliardi di euro investiti (La Stampa, 7-11-2014). Situazioni drammatiche si generano nelle società dove resta l’ordinamento feudale antico e diventano esplosive nei Paesi dove ci sono dei giacimenti. Vendono ai Paesi industriali le materie prime e comprano le loro armi. Il pretesto della religione o l’idea di potenza servono a coprire squilibri irrisolti, vera causa dei numerosi focolai della terza guerra mondiale diffusa come l’ha definita Papa Francesco.

In questa stagione dei tre anniversari è bene riflettere sugli squilibri del nostro passato per vedere come colpiscono la realtà italiana attuale, seppure in modo assai diverso.

Nell’Ottocento le scelte interne sono imposte dalla borghesia che arriva al potere dopo l’Unità, compra le terre dell’antica proprietà ecclesiastica, spreme il lavoro agricolo con la mezzadria, la terzeria, la soccida, il bracciantato. Blocca lo sviluppo industriale, sfibra la popolazione rurale, provoca pellagra, mortalità, emigrazione, apostasia di massa e genera un ritardo tuttora insuperato rispetto all’adeguamento delle istituzioni pubbliche realizzato in nord Europa e nei Paesi avanzati.

Nel Novecento il nazionalismo e il Re adoperano la Patria per trasformare le battaglie campali di fanti e cavalieri nel massacro di masse di contadini ad affrontare micidiali armi moderne con l’illusione di ricevere il premio della proprietà della terra. Al ritorno sono sterminati un’altra volta a causa della Spagnola (adesso un altro virus si chiama Ebola) epidemia drammatica per una popolazione stremata dagli stenti provocati dalla politica di potenza. Il fascismo prosegue l’inganno infarcito di messaggi per conquistare nuove terre al sole, ma stavolta l’Impero non manda solo i contadini a morire su fronti esterni (Libia, Africa orientale, Spagna, Francia, Russia, Albania, Grecia), la guerra introduce la dissuasione bombardando la città e la borghesia riceve i contraccolpi all’interno. Il ‘secolo breve’ è scorciato per la popolazione rurale che sopporta le conseguenze di 35 anni di guerre e poi ricostruisce con le mani. Se finalmente la pace si prolunga sino ad oggi lo si deve allo spettro dell’esplosione atomica che rade al suolo la città, s’irradia per generazioni senza distinguere cittadini e contadini. Ma abbiamo accettato le guerre locali, quelle ‘mirate’ divenute i focolai della terza guerra mondiale e non basta la minaccia nucleare per tenerla lontana. Dalle nostre parti urge cambiare il modo di agire individuale e di amministrare la cosa pubblica e introdurre riforme attuate da molto tempo a nord delle Alpi.

(Enrico Bussi, Associazione rurali reggiani)

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  1. L’articolo si chiude con le parole “Dalle nostre parti urge cambiare il modo di agire individuale e di amministrare la cosa pubblica e introdurre riforme attuate da molto tempo a nord delle Alpi”, una espressione che appare piuttosto generica, ma qui non vi era probabilmente lo spazio per dettagliare maggiormente il concetto. Sarebbe nondimeno interessante, visto l’indubbio portato dell’argomento in questione, se in altra eventuale occasione il dott. Bussi fornisse un qualche ulteriore elemento e ragguaglio per capire meglio in che modo andrebbe orientato un diverso nostro agire e quale impronta dovrebbero avere, sempre a suo avviso, le riforme che vengono auspicate. Anche a me, nel visitare taluni paesi di oltralpe, è capitato più di una volta di osservare aspetti e particolari che, almeno in apparenza, davano l’idea di efficienza e funzionalità, e tali dunque da poter essere emulati, salvo poi il pensare che ogni nazione è figlia della propria storia, e non è sempre semplice “imitare” in tempi accelerati quanto avviene fuori dai nostri confini, appunto per i differenti trascorsi, vedi ad esempio l’organizzazione in campo rurale-agricolo, talché le “forzature” in tal senso potrebbero anche rivelarsi deludenti, ma le generazioni più giovani possono verosimilmente incontrare al riguardo minori difficoltà. C’è poi da tener presente che la storia del nostro Paese, se guardiamo ai centocinquant’anni trascorsi dalla sua unificazione, è stata parecchio travagliata, come traspare anche dall’analisi che troviamo in queste righe, e segnata altresì da laceranti divisioni, in buona parte non ancora ricomposte, che rendono difficile il formarsi di una “coscienza” e di una “memoria” condivisa, il che non aiuta di certo ad individuare obiettivi comuni, e rende anzi abbastanza impervio questo percorso.

    (P.B.)

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