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La tassa sul macinato

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Tassa paneLa situazione

Parlando del Mulino Rosati su queste colonne ho accennato alla tassa sul macinato, ripromettendomi di approfondire di più l’argomento. I libri di storia non ne parlano, come se si fosse trattato di un lieve incidente di percorso. Giustificano la legge con le ristrettezze economiche del nuovo Regno, depauperato dalle Guerre di Indipendenza, e, improvvisamente, messo di fronte ai fatti concreti di un nuovo Stato da costruire dal nulla. E non ne parlano perché, tanto, la tassa riguardava la povera gente, quella che non contava, che non aveva voce, e non i pochi elettori. “Lo Stato Italiano è monopolio di un ristretto gruppo di grossa borghesia soprattutto agraria (nel 1860 sono elettori solo l'1,92% dell'intera popolazione, mentre oltre l'80% della popolazione è formata da contadini quasi tutti analfabeti. Gli analfabeti nazionalmente ammontano al 75% dell'intera popolazione; nel solo meridione sono il 90%)” [Montanari F.].

Eppure quella legge ha provocato reazioni popolari in tutta l’Italia, dal Nord al Sud, e vanta un elevato numero di morti e di feriti, vittime della repressione di Stato.

Qui non è possibile dilungarci più di tanto, ma cercherò di dare un’idea del fenomeno anche perché la nostra provincia è stata coinvolta in maniera determinante.

La Legge

La tassa sul macinato ha un percorso tormentato: “Fu promulgata per iniziativa di Luigi Menabrea il 7 luglio 1868, (la capitale del Regno era ancora a Torino), ed entrò in vigore il 1º gennaio del 1869”,  emanata dal Ministro delle Finanze Gambray Digny.

Ci furono subito rivolte popolari scoppiate per le gravi conseguenze che la legge comportava. Il dibattito si spostò in Parlamento, ma “Già il 26 gennaio 1869 il  Senato la confermò e conferì al generale Raffaele Cadorna pieni poteri per la repressione. La tassa fu inasprita dal governo guidato da Giovanni Lanza per iniziativa di Quintino Sella nel 1870 e ancora sotto Marco Minghetti  tra il 1873 e il 1876[Montanari F.].

E ciò portò alla crisi di governo e alla caduta della Destra storica. Con Agostino Depretis ci fu una prima leggera riduzione nel 1879 poi ancora nel 1880 con Benedetto Cairoli. Solo nel 1884  fu abolita dal governo Depretis.

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Il bando della legge sul macinato, del 7 Luglio 1868.

La rivolta popolare

L’Italia Unita è un paese con strutture sociali ancora feudali, e le risorse sono solo quelle agricole. La creazione di un mercato unico nazionale si riversa tutta sulla povera gente. Le decisioni politiche sono privilegio di poche persone (l'1,92% dell'intera popolazione, come s’è visto), che non conoscono o ignorano volutamente lo stato di miseria del popolo.

“La borghesia, occupate le amministrazioni comunali, abolisce gli usi civici impoverendo i servi-coloni privati di tali usi (legnatico, pascolatico, ecc.) e incamera i beni ecclesiastici che rivende all'asta concentrandoli in poche mani”. Ma il lavoro non cresce, e “Sugli italiani pesa un enorme fiscalismo che, essendo per il 65% formato da tributi indiretti, degrada alla miseria più nera le masse contadine” [Montanari F.]

I primi sentori della rivolta si hanno qualche giorno prima del 31 dicembre 1868. Tutto il mondo contadino d'Italia, spontaneamente, si muove per le stesse rivendicazioni.

Il 21 dicembre iniziano i contadini di Gattatico (R. E.) che strappano al Sindaco una domanda scritta da presentare al Governo per l'abolizione della legge. Il 27 dicembre a protestare sono i coloni del veronese (Nogarole di Villafranca), e quelli di Collecchio (Parma); il 27 e 28 quelli di Castelnuovo di Sotto (R. E.).

Con i primi dell'anno il movimento si fa generale: tumulti avvengono nelle provincie di Reggio Emilia, Parma, Bologna, Torino e Firenze. Il 2 gennaio sommosse a Parma e, nel reggiano, a Poviglio, Brescello, Fodico, Meletole, Correggio, San Martino in Rio, Bagnolo in Piano, Cavriago, Novellara, Scandiano, Fabbrico.

Tumulti, dimostrazioni, scontri avvengono in provincia di Cremona, Pavia, Piacenza, Bologna, Modena, Venezia, Vicenza, Cuneo, Verona, Arezzo, Lucca, Rovigo tra il 2 e il 5 gennaio.

Dopo la prima settimana, e quando ancora i moti continuano a divampare al Nord e nel Centro Italia, si muove il Sud: Bari, Potenza, Campobasso, Avellino. Ma l’insurrezione coinvolge tanti altri piccoli e grandi centri d’Italia che non è possibile nominare qui.

Nell’Appennino reggiano

Anche da noi ci furono moti di ribellione. In particolare nel comune di Casina si formò la così detta Banda dei Manini, che cercava di impedire l’applicazione della legge. Sono un centinaio tra Guardie e contadini guidati da personaggi del risorgimento mazziniano che approfittano del momento per ribadire la loro idea di repubblica in opposizione alla monarchia. Ci sono i fratelli Filippo e Secondo Manini, figli del repubblicano Angelo Manini, che si organizzano contro il parere del padre, poi c’è Domenico Ferrari della Guardia Nazionale, e l’ingegner Francesco Montrucoli. Operarono nella zona di Casina  “facendosi consegnare da molti mugnai i proventi della tassa (rilasciando regolari ricevute a nome del «comandante» Secondo Manini) che restituirono ai contadini. Tra il 2 e il 4 Gennaio, guidati dal luogotenente e dal capitano della Guardia Nazionale, si scontrarono con la truppa lasciando un ferito e vari prigionieri.

Gli insorti godevano e si facevano forti anche dell’aiuto e della copertura che gran parte della popolazione spontaneamente offriva loro. Potevano contare su molti luoghi sicuri e sull’aiuto di persone insospettabili sia in pianura sia in montagna. Trovavano riparo in case di amici, presso osterie gestite da simpatizzanti e perfino in luoghi di culto abbandonati [Montanari F.].  I contadini però, dopo pochi giorni, ritornano alle loro case. Rimangono alla macchia solo i repubblicani ormai compromessi. Nel giro di alcuni mesi anche costoro vengono tutti arrestati.

Ma contro quella legge non ci furono solo gli adepti della Banda Manini. “Tra i più decisi oppositori della tassa sul macinato ci fu il medico parmigiano Gian Lorenzo Basetti (1836-1908) che in parlamento ingaggiò una memorabile battaglia per la sua abolizione. Rappresentò in parlamento il collegio di Castelnovo né Monti dal 1874 al 1908. Coerente con le sue convinzioni, il 20 dicembre 1876, costituì a Castelnovo Monti la Lega per l’abrogazione della tassa sul macinato, che vide tra gli aderenti tutta la famiglia Manini” [Montanari F.].

Tra il tragico e il ridicolo 

Quei governanti non compresero, (o non vollero capire) quale forza di trasformazione della società si nascondeva sotto le rivolte del popolo. Hanno continuato con la repressione per difendere i diritti di pochi mentre nuove idee sfaldavano il concetto di latifondismo, chiedevano giustizia e parità di diritti per chi veramente lavorava, esigevano rispetto e trattamenti umani. Il Moloch dell’ottusità ha chiesto ed ha avuto le sue vittime: nella sola Emilia rimasero uccisi 26 contadini; in tutta Italia i morti furono 257, i feriti 1099 e gli arrestati 3788. E sono cifre che sicuramente peccano per difetto.

Torniamo un attimo a noi, alla realtà.

Chi doveva pagare quella tassa? I contadini, i braccianti, coloro insomma che, per campare, dovevano macinare il poco grano racimolato con fatiche disumane.

Chi avrebbe dovuto riscuoterle per lo Stato? «Il mugnaio doveva pagare al fisco la tassa in ragione dei giri (della mola); ma a seconda della diversità tra mulino e mulino, anzi da macina a macina, il prodotto di un ugual numero di giri variava. Si aggiunga che il mugnaio, tenuto a pagare la tassa in ragione dei giri, nel farsi rimborsare dal cliente doveva (e non poteva fare altrimenti) conteggiargli la tassa secondo il peso. E giri e peso non andavano mai d’accordo; e fisco, mugnai, clienti, ognuno si riteneva danneggiato e derubato e ingannato». (Da Wikipedia).

E c’è di più. Per controllare i mugnai il governo aveva ordinato di applicare dei contatori meccanici alle macine, prodotti dallo Stato. Ma quei marchingegni al momento dell’applicazione della legge non erano pronti. E poi non offrivano sufficienti garanzie.

Di sicuro c’era solo la tassa: 2 lire per un quintale di grano; 1 lira per un quintale di granoturco o di segale (la segale a quei tempi serviva ancora per fare il pane); 1,20 lire per l’avena (il perché costasse più del granoturco non viene spiegato. Era la biada per i cavalli, e, quindi, doveva rientrare nelle misture); 0,50 lire per le misture (legumi secchi e castagne).

S’è detto che era il mugnaio a dover chiedere i soldi a chi portava le granaglie al mulino. Ma anche lui non se la passava meglio: “A garanzia del pagamento ogni mugnaio doveva versare una cauzione e farsi lui stesso esattore della tassa esigendo il pagamento all'atto di ogni singola macinazione” [Montanari F.]. Si può immaginare con quale spirito poteva effettuare tale richiesta. Il mugnaio conosceva bene la situazione di coloro che andavano al mulino. Prima che clienti erano degli amici.

E le forze dell’ordine? Non avevano scelta. Dovevano ubbidire agli ordini superiori. Che, come s’è visto, non esitavano a far sparare sui dimostranti. Ma ci fu chi passò dalla parte dei poveri: “O si fecero disarmare senza opporre resistenza o si schierarono apertamente dalla parte dei contadini. Fu il caso, oltre che dei comuni montani, di Scandiano, Correggio e Fabbrico …” [Montanari F.].

La banda Manini manini-angelo_busto

Busto e lapide di Angelo Manini a La Vecchia

 Angelo Manini e Figli.

Angelo era nato a Castelnuovo Monti, il 13 giugno 1814. Poi la famiglia si trasferì a La Vecchia di Vezzano, e Angelo si dedicò fin da giovanissimo al mestiere di artigiano del rame che avrebbe esercitato per tutta la vita, attività nella quale era considerato un vero maestro e che la sua famiglia aveva introdotto nel reggiano fin dal 1600. Affiliatosi all'inizio degli anni trenta alla Giovine Italia, il Manini subì spesso le attenzioni della polizia del Ducato di Modena, e venne più volte arrestato e recluso nel forte di Rubiera. Dopo la fine del Ducato di Modena e la cacciata degli estensi(giugno 1859), il Manini assunse un ruolo di primo piano fra gli uomini del Partito d'Azione di Reggio Emilia, mantenendosi sempre fedele alle direttive di Grilenzoni. I mazziniani reggiani raccolsero fondi per la campagna di G. Garibaldi nell'Italia meridionale e inviarono volontari: fra di essi figuravano anche  due figli del Manini, Filippo e Secondo, i quali militarono nelle schiere garibaldine fino alla battaglia del Volturno.

Il 29 Agosto 1860 si costituì a Reggio Emilia la Società di mutuo soccorso degli operai, e il Manini rientrò nel gruppo direttivo. Nel biennio 1863-64 collaborò attivamente alla preparazione dell'insurrezione che, secondo Mazzini, avrebbe dovuto condurre alla liberazione del Veneto e del Trentino. Raccolse fondi in favore del Comitato presieduto da B. Cairoli e reclutò anche una piccola squadra di volontari reggiani. Ma l’operazione non ebbe seguito.

Angelo fu tra i fondatori del settimanale La Rivoluzione. Nel 1869 cercò di dissuadere i figli a collaborare con la così detta Banda Manini. I figli non lo ascoltarono e Angelo fu ugualmente incarcerato dal Marzo 1869 al Dicembre 1970.

Pare che il Manini sia stato l’ispiratore dei moti nella montagna reggiana del 1870, che avevano lo scopo di suscitare una rivolta e fondare una Repubblica Montanara. Non è chiaro se l’iniziativa era suggerita dallo stesso Mazzini.

Dopo la presa di Roma (1870) il Manini si ritirò a vita privata trascorrendo gli ultimi anni in condizioni di estrema indigenza. Il suo discreto patrimonio era stato depauperato dall'attività cospirativa e, soprattutto, dai vari processi subiti dai figli. Morì a Reggio il 18 giugno 1890, probabilmente per infarto. Ai funerali pronunciò un vibrante discorso il socialista reggiano C. Prampolini. [F. Zavalloni – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 69 (2007)]. 

La casa dove viveva il Manini è ancora abitata e si trova a La Vecchia, visibile dalla statale 63. Nel 1925 un pronipote emigrato in Argentina volle ricordare l’antenato ponendo sulla facciata della casa un busto raffigurante Angelo con la scritta: “Angelo Manini, nobile figura di patriota fu membro della Giovane Italia diede ciò che poté per la libertà e unità italica e la redenzione dei popoli oppressi. Morì nel 1890 restando gloria ai suoi posteri”.

Oltre a Filippo e Secondo Angelo ebbe un altro figlio, Pietro, coinvolto in una storia di falsari e imprigionato cinque giorni dopo il padre. Ce lo ricorda don Angelo Camurani: “Ieri sul cader del giorno è stata fatta una perquisizione alla casa di Manini Pietro, oste e figlio del noto Angelo, a Banzola (Casina). Si sequestrarono varie monete d’argento di falso conio, fra cui scudi di L. 5 con effige di Carlo X e Luigi Filippo, pezzi di due franchi e mezzo con l’impronta di Vittorio Emanuele e più stampi per la fabbricazione, crogiuoli e materiale che furono rimessi con apposito verbale all’autorità giudiziaria. Il Manini era assente”. Di quel fatto però non se ne parlò più, e “non ci sono pervenute altre prove o testimonianze circa quell’incredibile ritrovamento e sarebbe azzardato, considerata l’ostilità del Camurani, affermare con certezza la sua esistenza”. [Montanari F.]. 

Filippo Manini continuerà a partecipare alla vita politica della provincia. Nelle elezioni amministrative del 1889 si candida per l’Alleanza di sinistra. Fu eletto consigliere con 1860 preferenze e successivamente assessore con 28 voti. Figura anche tra gli aderenti alla Lega per la democrazia tra il 1894 e il 1895.

Francesco Montruccoli (1827-1917)   Era nato a Lezolo di Paullo, “Fra i banditi vi era un bell’uomo, figura maschia con barba alla repubblicana non più giovane, di professione ingegnere e capitano della Guardia Nazionale, certo Montruccoli. Egli si era unito ai Manini per protestare contro la Tassa della fame; ed un giorno coi carabinieri, benché solo, li prese a fucilate sino che ebbe cariche; si divertì a far fuoco, ed anche questo, per fortuna, fu combattimento incruento. Sciolta la banda, questo signore fu per sorpresa arrestato e condotto a S. Tommaso, ove dovette starci sino all’amnistia dell’ottobre 1870, concessa per liberazione di Roma[Montanari F.]. 

Feliciano Monzani.  Come sindaco di Castelnovo fin dal 1868 aveva inviato una lettera al Prefetto di Reggio contro l’applicazione di quella tassa, documentando le gravi conseguenze che ne sarebbero derivate. Feliciano, medico, cospiratore contro il duca di Modena, fece parte del direttivo che il 3 marzo 1860 stese il Manifesto ai popoli dell’Emilia in preparazione del plebiscito che unì la regione al Piemonte. Per molti anni fu sindaco e consigliere provinciale. Era fratello dell’avvocato Cirillo Monzani, deputato al Parlamento nazionale e per 30 anni segretario di stato agli Interni del Ministero Rattazzi.

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